Not a Hero: Super Snazzy Edition

C’è chi dice che 3D e 2D sono due mondi separati e in quanto tali non convergono in nessun modo. Nella storia dei videogiochi spesso delle meccaniche proprie del 2D sono state riproposte 3D, non sempre con risultati eccellenti, ma il processo inverso è veramente raro, tanto che è difficile riportare degli esempi concreti; non siamo qui per farvi una top 10 dei giochi che hanno sfidato le leggi della bidimensionalità, però possiamo parlarvi di Not a Hero: Super Snazzy Edition, un gioco interamente 2D che implementa, con risultati davvero ottimi, il cover system tipico dei più frenetici third person shooter 3D come Gears of War o Uncharted. Questo frenetico sparatutto, uscito originariamente nel 2015 su PC e arrivato su Nintendo Switch soltanto quest’anno, è un mix di azione, tatticismo, violenza e follie alla Quentin Tarantino con una spruzzata di humor e parlate inglesi che donano all’intero gioco una veste unica e veramente eccezionale. Vediamo insieme questo gioco sviluppato dallo studio inglese Roll7 e pubblicato da Devolver Digital che, ancora una volta, mette nella sua immensa libreria un gioco veramente audace e innovativo come i già visti Minit e Crossing Souls.

Ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta…

Siamo a 21 giorni da un’elezione in una città del Regno Unito e il singolare Bunnylord, un coniglio viola antropomorfo venuto dal futuro, vuole a tutti i costi diventare sindaco per scongiurare il crimine che, a detta sua, farà affondare la città in una crisi irreversibile. Con il poco tempo rimasto, Bunnylord attuerà una campagna anticrimine per mano delle peggiori canaglie del Regno Unito, sociopatici senza il minimo scrupolo quando si tratta di far fuori qualcuno; cominceremo utilizzando Steve, il migliore amico di Bunnylord, ma piano piano, una volta diminuiti i crimini, salirà il consenso e perciò sempre più folli esaltati, come Mike, Samantha e Cletus, cominceranno ad appoggiare il coniglio viola; ma andiamo con ordine. I livelli proposti in Not a Hero sono fatiscenti palazzi di periferia a più piani dove si nascondono intere bande di criminali: ci sarà sempre un obiettivo principale, come uccidere uno specifico NPC, rubare degli oggetti, piazzare bombe, salvare ostaggi e altri tre obiettivi secondari, come chiudere un livello in un tempo limite, uccidere tutti i nemici o chiudere una determinata sequenza di uccisioni senza essere colpito e tanti altri (a volte anche precedenti obiettivi principali) e, più obiettivi completiamo in un livello più crescerà il nostro consenso (che servirà appunto per sbloccare più velocemente tutti i personaggi). Il primo livello spiegherà la meccanica portante di Not a Hero, ovvero il sistema di scivolata, con “b”, seguita dalla successiva (quasi assicurata) copertura dietro a un oggetto del background, dalla quale rimarremo coperti dal fuoco nemico e potremo sparare quando questo non sarà nascosto come noi; capire questa meccanica è fondamentale per compiere delle run senza sbavature ma anche per sopravvivere al meglio fra le orde nemiche e dunque completare il livello. Scivolare, in fondo, è l’unico modo per trovare copertura e perciò, piano piano, dobbiamo capire come funzionano queste strane (ma interessanti) meccaniche allenandoci a premere e rilasciare il tasto al momento giusto per finire nel punto più strategico dalla quale far fuoco. Importantissimo, oltre allo scivolare, nascondersi e sparare, è ricaricare l’arma al momento giusto e nel punto giusto, possibilmente nascosti dietro a un oggetto del background e quando il fuoco nemico si fa meno denso.
I personaggi variano a seconda dell’arma che usano, il che influirà sul tipo di fuoco in sé (la pistola spara un colpo dritto e preciso, il fucile un colpo ampio ma con caricatore  meno ampio e il mitra, con ampio rateo di fuoco ma scarsa precisione), la velocità di movimento, il tipo di esecuzione (di cui parleremo a breve) e possibilmente altre abilità uniche di uno specifico personaggio. L’esecuzione è un tipo di uccisione che potremo compiere quando andremo incontro a un nemico in scivolata facendolo cadere: una volta che sarà a terra, premendo il tasto del fuoco, il nostro personaggio ucciderà il nemico, chi con colpo di pistola e chi con una mossa particolare o un oggetto contundente come un coltello o una katana. Nei livelli, inoltre, possiamo trovare delle armi secondarie, molto utili per liberare le schermate più affollate e degli upgrade per i proiettili della nostra arma, che li renderanno infuocati, esplosivi, perforanti, rimbalzanti e molto altro ancora. Ogni personaggio offrirà dunque un gameplay diverso e pertanto, per via delle molteplici variabili che contraddistinguono ognuno di loro, si vengono a creare delle spiacevoli disparità portando il giocatore a preferire giusto una cerchia di personaggi più vicini al suo stile di gioco senza necessariamente provarli tutti; tuttavia, tanti stili significano anche un gameplay veramente vario già solo sul piano della scelta e perciò il sottolineare la disparità fra i personaggi non è un fattore necessariamente (forse anche per niente) negativo nell’intero.
Not a Hero è di base uno shooter che mischia elementi da alcuni giochi classici come Elevator Action Return, Contra e in parte alcuni altri classici per computer sulla scia di Persian Gulf Inferno ma si comporta nelle meccaniche come un modernissimo sparatutto sulla scia di Gears of War; ciò permette un gameplay infuocato il cui tempismo tra far fuoco e copertura è fondamentale se si vuole sopravvivere alle orde di nemici, che faranno fuoco manco fossero dei napoletani a Capodanno. Grazie alla suddivisione in tre capitoli, in cui in ordine faremo fuori una mafia russa, una gang di afro-britannici e una triade panasiatica, possiamo gradualmente approcciare questo singolare sistema e capire qual è lo stile di gioco che più ci aggrada, ovvero quale fra quello più casinista e cruento o quello furtivo e tattico. Più il giorno delle elezioni si avvicina più i livelli si faranno sempre più irti di nemici più forti, che sfoggeranno nuove armi o più coriacei da eliminare; in questo Not a Hero, offre una learning curve veramente piacevole e anche se gli obiettivi si faranno sempre più difficili (che dovranno essere soddisfatti tutti in una run di un livello) il gameplay non porterà mai il giocatore alla frustrazione.
In aggiunta alla campagna principale, è possibile trovare in alcuni livelli delle porte rosse che ci porteranno in delle aree bonus e la campagna “me, myself and Bunnylord”, precedentemente rilasciata come DLC (il che ne fa la particolarità di questa Super Snazzy Edition), in cui controlleremo in prima persona il politico che non si fa alcun scrupolo nella lotta contro il crimine. Peccato solamente che una volta completati tutti gli obiettivi delle 21 missioni (che servono per ottenere i finali migliori), più quelli della campagna aggiuntiva che includono solamente tre missioni extra, non ci rimarrà più niente da fare, accorgendoci di quanto il gioco sia abbastanza breve nonostante il buon livello di sfida e i numerosi livelli; sarebbe bastata anche una semplice partita +, magari utilizzando il solo Bunnylord oppure con obiettivi secondari del tutto nuovi, ma l’unica cosa che rimane è solamente l’opzione di azzerare il file di salvataggio e ricominciare un nuovo file se proprio vogliamo rigiocare da capo questo titolo (che lo merita parecchio nonostante tutto).

Menomale che Bunnylord c’è!

Not a Hero mischia grafiche vintage, principalmente quelle di Atari 2600, Nintendo Entertainment System e dei computer Commodore 64 e Atari ST, presentando delle tonalità retrò comunque “remixate” e animate a modo per appellarsi al meglio ai giocatori odierni. Lo scenario riesce a essere immediatamente chiaro e ciò è fondamentale per il giocatore in quanto, bisogna capire sin da subito quali sono i punti in cui si possa cercare riparo. La grafica riesce a essere funzionale al giocatore e al gameplay e ciò non può che essere un punto a favore per la fruizione di questo gioco in quanto, in sostanza, ogni punto che ci sembra un riparo lo è per davvero. I personaggi sono ritratti con uno stile un po’ più “atarieggiante” ma ciò non toglie la possibilità di distinguere tutti i tratti distintivi di ogni personaggio come una collana, un occhio schizzato, una determinata capigliatura, una sigaretta o altro ancora. Inoltre, per i fan de Il Grande Lebowsky, in questo gioco potrete giocare con un Jesus molto simile a quello del film, con dei capelli neri raccolti, pizzetto, una camicia viola e un “gioco d’anca costante” – diteci come si fa a non amare questo gioco! –. Tutti i personaggi sono abbastanza “singolari” e ciò lo si può evincere dalle loro esilaranti linee di dialogo, rigorosamente prodotte con accenti inglesi veramente incomprensibili; sebbene tutte le linee testuali sono tradotte in italiano e i giocatori, per la maggior parte, possono ritrovarsi con una buona esperienza d’inglese ciò non basta per capire gli astrusi accenti che per altro sono parte dello humor delle one-liner qui prodotte. Insomma, per capire buona parte dell’umorismo delle linee di dialogo dei personaggi (e dei nemici) conviene allenare le vostre orecchie guardando un bel po’ di puntate di Monty Python’s Flying Circus, per intenderci! Impossibile poi non notare la forte componente satirica del gioco che tende principalmente a ridicolizzare ed esagerare le mire politiche e la losca vita di alcuni personaggi politici del mondo attuale, supportati per altro da gente psicopatica come tutti i personaggi che useremo per “attuare” la politica di sicurezza di Bunnylord basata sulla forza bruta e il terrore (se questo gioco fosse stato ambientato in Italia sicuramente avremo potuto stilare qualche particolare analogia…).
Parlando invece del comparto sonoro, Not a Hero propone una colonna sonora che mischia molti generi prettamente elettronici, fra cui il synthpop, la musica elettronica inglese e la chiptune, ma ciò che fa da padrone è certamente la componente dubstep. Sebbene ci sia un richiamo nostalgico nelle melodie, il gioco vuole proporre comunque qualcosa che tutti possano apprezzare e pertanto viene offerta una colonna sonora di tutto rispetto, fatta con bisunti chip sonori e con sintetizzatori moderni: ogni livello, ha un suo brano originale, perciò possiamo affermare che è stato fatto davvero un bel lavoro, anche perché i temi sono veramente graziosi.

Vota Bunnylord!

Ancora una volta i giochi proposti da Devolver Digital non si smentiscono e abbiamo di nuovo un piccolo capolavoro fra le mani. Not a Hero: Super Snazzy Edition è certamente un titolo da tenere in considerazione, specialmente in vista di qualche periodo di saldo in cui potremmo aggiudicarcelo per un prezzo ancora più basso di quello standard (12,99€). Questo insolito e, in parte, sconosciuto titolo potrà certamente regalare tantissime ore di sano divertimento a qualsiasi giocatore, specialmente quelli più abituati a vedere questo tipo di giochi in tre dimensioni, pur accettando la sua veste retrò e il suo humor pungente. Nonostante qualche lieve bug è sempre un vero peccato che questo titolo non si annoveri fra gli indie più gettonati del panorama recente; diamo a Bunnylord il rispetto che merita (o altrimenti ci manderà a casa uno dei suoi killer psicopatici!).




Four Last Things

Prima di procedere alla lettura, si consiglia la colonna sonora che segue, partendo dal minuto 4:29:

Il videogame, orgoglioso simbolo di modernità, l’epoca del 4K, il raytracing di NVidia, la tendenza al fotorealismo, l’evoluzione dell’intelligenza artificiale. In Detroit: Become Human David Cage ci racconta di un 2038 in cui gli androidi acquisiscono coscienza comparabile a quella umana, Ken Levine con Bioshock ci porta in quell’Atlantide evoluta che è Rapture, dalle immagini di Cyberpunk 2077 si intravede una fine del secolo per niente rassicurante, ma avanzata sul piano tecnico: se il futuro è un paradiso di avanzamento scientifico, i videogiochi sono oggi il medium deputato a diffonderne verbo, e i developer e i game designer ne sono i cantori.
Quanto sembrerebbe anacronistico se qualcuno prendesse il Rinascimento e lo sbattesse dentro un videogame? Non intendo una riproduzione di quell’epoca, non parlo di ridisegnare per mano di mirabili e raffinati artist scenari e situazioni dell’era post-medievale, magari in versione parodistica, o al contrario cercando il realismo, o ancor di più proponendone una rappresentazione artistica personale. No, dico proprio: cosa succederebbe se un game designer pensasse di prendere dei capolavori dell’arte rinascimentale, di usarne i personaggi, gli elementi, i background, di animarli sulla scena mettendo in sottofondo le musiche del tempo, spaziando dall’opera lirica alle composizioni classiche e di farne un videogame? Pensereste che è un pazzo? Un genio? Un visionario? Un truffatore? Un profittatore, che si avvantaggia furbamente del fatto che opere vecchie di 400-500 anni non siano protette da copyright per utilizzarle a proprio piacimento?
Forse quest’ultima considerazione potrebbe essere in parte vera, ma da sola non renderebbe giustizia al lavoro dietro Four Last Things, singolare punta e clicca creato dallo scozzese Joe Richardson prendendo a piene mani il cuore del Rinascimento e intessendolo sapientemente nella tela di un software.

Di poema dignissima e d’istoria

Il concetto di “peccato” è per secoli gravato pesantissimo sugli esseri umani d’Occidente. Il Rinascimento è stato un momento chiave quando fra protestantesimo, rivoluzione copernicana, luteranesimo e rivelazioni galileane il granitico dogmatismo della fede ha cominciato a scricchiolare sotto i primi colpi dell’analisi scientifica.
La Chiesa era ancora un’istituzione forte, ma il potere spirituale cominciava a frammentarsi: in una visione parodistica, anche la giurisdizione delle anime cambia di parrocchia in parrocchia, e questo è il giusto movente per dare inizio alla bislacca storia di Four Last Things, nella quale ci ritroveremo a dover guidare il nostro personaggio attraverso i sette peccati capitali al solo scopo di ottenere la successiva redenzione. Un cortocircuito paradossale, eh? In realtà la bizzarra narrazione di Richardson ha una sua coerenza: dopo un incipit onirico nel Giardino dell’Eden, vestendo i panni di un Adamo diviso tra il giudizio severo di Dio e la tentazione di Eva, il protagonista si sveglia trafelato e in preda al panico. Roso dai sensi di colpa per i peccati commessi, corre fino alla chiesa più vicina per essere assolto ma la confessione non può essere accettata: gli atti peccaminosi sono stati commessi a Norimberga, Lubecca e Oslo, luoghi fuori dalla giurisdizione di quell’episcopato. Gli alti prelati alla porta indicano però una scappatoia: commettere nuovamente ogni peccato capitale in quel territorio permetterà al nostro di confessarsi e di poter essere perdonato retroattivamente anche per le colpe precedenti. Inizia così, con tanto di “Happy sinning”, il nostro viaggio attraverso il peccato in un’avventura unica nel suo genere: la scrittura è semplice ma ritmata, l’autore gioca in parte con un linguaggio aulico d’altri tempi ma mantiene globalmente uno stile prono, accessibile a chiunque abbia una discreta conoscenza della lingua inglese, unica opzione possibile dato che il titolo non gode di altre localizzazioni. La scrittura non sottovaluta i riferimenti all’epoca e ai suoi costumi, storpiandoli in chiave parodistica e deformandoli sotto la lente del grottesco: la scuola umoristica LucasArts emerge netta, soprattutto nei tempi scanditi in dialoghi e battute, ma anche l’influenza dei lavori dei Monty Python permea un lavoro che, pur non spiccando per originalità autoriale e brillantezza nella scrittura, riesce pienamente nell’intento mimetico, non risolvendosi in pedissequa ripetizione dei modelli di riferimento e mutuandone intelligentemente gli stilemi. È facile pensare alla Nazareth di Life of Brian mentre si cammina per una cittadina rinascimentale deformata, caotica e soprattutto popolata da personaggi bizzarri, che danno vita a dialoghi assurdi e divertenti.

Spargendo gran bellezza ardente foco

«Colui che ’l tutto fe’, fece ogni parte
e poi del tutto la più bella scelse,
per mostrar quivi le suo cose eccelse,
com’ha fatto or colla sua divin’arte.»
(Michelangelo, Rime)

Del resto, già dal punto di vista non solo umoristico, ma soprattutto visivo, è impossibile non pensare subito al gruppo comico inglese: chi abbia visto capolavori come The Meaning of Life o …And now for something completely different avrà riconosciuto i tratti di certi sketch giocati sull’assurdo, ma soprattutto il metodo d’animazione dei dipinti con cui Terry Gilliam ha fatto scuola, e che fu utilizzato per sigle e intermezzi dai Monty Python.
Ecco, i dipinti: tutto il lavoro, dicevamo, è basato su opere artistiche dell’epoca. Four Last Things è il risultato di cut-up, collage e successiva animazione di grandi quadri rinascimentali. Fra i due Pieter Bruegel (Vecchio e Giovane), Van Dyck, Van Eyck , Cranach, il Rinascimento pittorico nordeuropeo trova largo spazio, con Hieronymus Bosch a farla da padrone: apertura e chiusura hanno per scenario parti del Trittico delle Delizie, ma le opere del pittore fiammingo sono numerosissime, dalla Nave dei Folli al Concerto nell’uovo sino al Figliol Prodigo, dal quale Richardson ha addirittura preso in prestito il corpo per il protagonista, mettendogli su il volto del mercante Mathias Mulich, dipinto da Jacob van Utrecht. L’opera del visionario pittore olandese è certamente la colonna portante del gioco, e non solo sul piano visivo: lo stesso titolo, Four Last Things, fa riferimento ai Novissimi, le ultime quattro cose a cui l’uomo va incontro al termine della vita: morte, giudizio, inferno e paradiso. I Novissimi sono rappresentati nei quattro medaglioni che si trovano agli angoli dell’olio su tavola Sette Peccati Capitali dipinto dallo stesso Bosch, conservato al Prado di Madrid e qui utilizzato da Richardson per celebrare il completamento di ogni task: a ogni peccato compiuto segue un “giro di ruota”, la quale altro non è che la figura circolare al centro del dipinto dove sono raffigurati i peccati capitali. È una delle chicche di Four Last Things, che è un tripudio d’arte del XV-XVI secolo, insomma: alcuni scenari sono composti da spezzoni di opere messi assieme a formare un unico quadro, altri sono dipinti (o parti di essi) parzialmente editati, altri ancora sono frutto del lavoro di collage che dicevamo prima. Il risultato è visivamente eccellente, e non è affatto facile da ottenere, non basta avere delle opere d’arte straordinarie e bellissime per ottenere automaticamente la bellezza su schermo: il lavoro difficile sta nell’armonizzarle e far sì che l’insieme abbia un suo equilibrio. Del resto, il gioco è programmato con Visionaire Studio 4, un software acquistabile a circa 50 €, che non poteva fare particolari miracoli senza un buon utilizzo alla base.
Richardson è riuscito benissimo nell’intento di creare un punta e clicca rinascimentale sardonico e visivamente godibile, e lo ha fatto non utilizzando neanche tutto il meglio di quell’epoca storica: molti sanno che la culla del Rinascimento è l’Italia, in rappresentanza della quale non si trova alcun artista blasonato nel gioco, che annovera soltanto Francesco Melzi e Vittore Carpaccio, fra gli artisti del Belpaese.
Più spazio lo trovano i musicisti italiano, dove figurano Giovanni Cavaccio, Giovanni Palestrina e Claudio Monteverdi (trovate a inizio pagina la sua bellissima Tirsi e Clori,) e dove Richardson si è preso qualche libertà in più riguardo l’epoca, inserendo anche Vivaldi e Toscanini, musicisti che arriveranno qualche secolo dopo, ma le scelte in termini di colonna sonora risultano congrue, danno forza alle scene e contribuiscono alla creazione del contesto. E poi, diciamola tutta, potremmo mai rimproverare qualcuno per aver inserito la Gymnopédie no. 1 di Erik Satie, anche se risulta una scelta diacronica?
Il risultato audiovisivo è nel suo insieme meraviglioso.

S’ei piace, ei lice

Ideato nel 2016 durante l’Adventure Jam di GameJolt, e rilasciato nel febbraio 2018 su SteamFour Last Things è un punta e clicca unico e ben congegnato. Nelle sue tre ore scarse di gioco non consta di enigmi particolarmente intricati, ma su un paio bisogna riconoscere una certa elaborazione a Richardson, che avrebbe voluto inserire di più nel gioco, dalla possibilità di inserire una modalità “art view”, grazie alla quale visualizzare i quadri originali, a un doppiaggio che sarebbe stato troppo oneroso per i 4178 £ (circa 4660 €) raccolti su Kickstarter. Il risultato in relazione alle risorse è ammirevole, probabilmente qualche professionalità ad affiancarlo avrebbe aiutato nel perfezionare un quest design non particolarmente intricato e avrebbe evitato qualche fastidioso bug (ogni tanto il personaggio comincia a vagare per lo schermo in maniera incontrollata, sfuggendo a ogni motion pattern predefinito e creando problemi che a volte hanno come unica soluzione il riavvio del gioco, con il rischio di perdere qualche azione, dovendo tornare all’ultimo autosave) ma, considerando che si tratta di un lavoro svolto in larga parte da unico soggetto, Four Last Things è un piccolo miracolo, pur non raggiungendo l’eccellenza. Una scrittura intelligente, un umorismo sospeso tra i Monty Python e i toni di The Secret of Monkey Island (con tanto di esplicito omaggio alla scimmia a tre teste), un’armonia visiva e sonora non comuni ne fanno un’avventura bella e piacevole da giocare e ci costringono a puntare gli occhi sul seguito, un The Procession to Calvary che per qualche giorno è ancora possibile finanziare su Kickstarter che si concentrerà molto di più sull’arte rinascimentale italiana, e che lo stesso Joe Richardson descrive come «if Monkey Island 2 had been made in 17th century Florence by a time travelling Terry Gilliam wannabe».
Non vi sembra ci siano già le premesse migliori?




Oh…Sir! The Hollywood Roast

Il mondo dei videogiochi è un posto bellissimo: un universo dove convivono titoli strapubblicizzati con budget hollywoodiani e… un simulatore di insulti nato durante una game jam e divenuto virale tramite gameplay su Youtube o Twitch.

Questa è la storia di Oh…Sir! The Insult Simulator, titolo creato dai polacchi di Vile Monarch, che prende largamente spunto dall’umorismo british dei Monty Python. Il successo del gioco è incredibile, se consideriamo l’argomento di nicchia: da sempre il british humor è considerato complesso da capire e apprezzare. Eppure il primo Oh…Sir! è arrivato anche sulle piattaforme mobile ed è prossimo all’uscita su Playstation 4 e Xbox One.
Sorte simile viene condivisa anche da questo Oh…Sir! The Hollywood Roast, uscito sia su PC che su iOSGoogle Play,  e prossimamente in arrivo anche su Nintendo Switch. Ma sarà all’altezza del predecessore oppure sarà lo spin-off che il pubblico non voleva vedere nelle sale?

Appena avvieremo Oh…Sir! Verremo subito catapultati nello spirito del gioco, intriso di citazioni cinematografiche: infatti, le schermate degli sviluppatori ricordano rispettivamente i celebri crediti introduttivi della 20th Century Fox e della MGM.
Il gioco consta di modalità single player e multiplayer: la prima, è a sua volta composta da un tutorial, esaustivo e ben fatto, dalla modalità carriera e dalla partita singola. Mentre quest’ultima non è altro che un normalissimo uno contro uno, la carriera è invece strutturata sul modello dei giochi mobile. Per ogni sfida dovremmo completare dei task e ottenere i “pappagalli d’oro”, che sbloccheranno nuove frasi da usare nelle battaglie. Peccato che tale modalità sia molto corta: solamente cinque incontri per ogni personaggio. Considerando il setting hollywoodiano, l’aggiunta di una modalità storia, magari creata ad hoc sul modello di ogni avatar, avrebbe giovato non poco alla longevità del titolo.
Probabilmente, come per il titolo precedente, il gioco è stato pensato più in un ottica multiplayer: che sia in locale con un paio di amici oppure online, Oh…Sir! dà il meglio di sé quando viene approcciato in compagnia.

A proposito dei protagonisti che useremo negli scontri verbali, i ragazzi di Vile Monarch hanno pescato a piene mani dal calderone hollywoodiano, dandoci una buona varietà di protagonisti: si va dalle parodie di attori come Marylin Monroe, Bela Lugosi e Jane Fonda, ai personaggi come l’esilarante mash-up di supereroi Marvel, Harry Potter e Gandalf il grigio, tutti con i loro bonus e malus da sfruttare durante la gara di insulti. Per esempio, il simil-Deadpool soffrirà quando attaccheremo la sua mancanza di originalità, oppure la parodia del maghetto di Hogwarts la prenderà sul personale quando bersaglieremo la sua mancanza di virilità.
Parlando del gioco vero e proprio, ogni scontro consta di una serie di frasi e aggettivi, colmi di riferimenti cinematografici e del gossip hollywoodiano, da scegliere e concatenare per ottenere il nostro insulto perfetto. Come detto in precedenza, bisogna stare attenti ai punti deboli del nostro nemico e soprattutto a usare una corretta forma grammaticale, pena la perdita di qualche nostro punto vita. Purtroppo il gioco è interamente localizzato in inglese, e, reggendosi tutto sulla sintassi, potrebbe dare difficoltà a chi non è ferrato nella lingua di Albione.

Tutto sommato questo Oh…Sir! The Hollywood Roast regala alcuni momenti di divertimento, a patto di cogliere le molteplici citazioni cinematografiche. La ridotta longevità della modalità single player è un difetto di non poco conto, ma il comparto multiplayer può dire la sua come party game in compagnia di amici. Forse è più adatto a delle sessioni di gioco brevi, classiche dei titoli usciti su smartphone e tablet. Non un gioco da premio Oscar, ma nemmeno da Razzie Award.