Il Re Leone – Ovvero come ho imparato a preoccuparmi e a odiare la bomba

La nostra è un’epoca strana, stretta in un limbo che vede agli opposti un futuro radioso/deprimente e un passato che non smette mai di essere migliore di quanto effettivamente sia stato. E con il cinema (o cinematografò se preferite) la storia non cambia: Star Wars, Ghostbusters, Il Pianeta delle Scimmie, Star Trek, Total Recall, Alien e chi più ne ha più ne metta, hanno visto negli ultimi anni nuove trasposizioni più o meno riuscite e tra queste, non poteva mancare mamma Disney. Negli ultimi anni la moda della riproposizione dei “classici” in salsa live action è letteralmente esplosa – la bomba, nel titolo – con risultati a volte sorprendenti: Cenerentola di Kenneth Branagh riesce effettivamente ad avere una sua identità, approfondendo una struttura narrativa che per forza di cose mancava nell’originale, impreziosito da scelte stilistiche che ne hanno risaltato il tutto. A modo loro, anche Il Libro della Giungla, La Bella e La Bestia, Dumbo e così via sono film che godono di propria linfa vitale, dando un contenuto in più non solo a chi è amante dei cartoni animati ma anche a chi di Disney interessa il giusto. Tutto questo con alti e bassi, sia ben chiaro, ma l’intento – anzi l’impegno – di andare al di là di quanto visto finora è sotto gli occhi di tutti.
E poi arriva Il Re Leone.

Un capolavoro senza tempo (appunto)

Per quelle due, tre persone che non hanno mai sentito parlare del Re Leone, oltre ad aspettarvi un destino simile a Cersei Lannister a suon di “Vergogna!”, tocca recuperarlo. È uno dei pochi casi in cui non c’è opinione che tenga, in quanto, il film animato del 1994 risulta essere ancora oggi uno dei migliori lungometraggi di genere della storia del cinema. E il perché è presto detto: il primo classico Disney a vantare una storia originale, attinge sì dai classici stilemi narrativi di genere, costruendo una trama a tratti “shakespeariana” e capace di maneggiare con cura gli elementi più importanti che hanno caratterizzato la narrazione sin dalla notte dei tempi. Amore, odio, vendetta, redenzione, rinascita, consapevolezza sono tutte racchiuse nel personaggio di Simba che durante il suo percorso, ritrova se stesso accettando il proprio destino. Nonostante il contesto e il target di riferimento, Il Re Leone è qualcosa che viene apprezzato soprattutto “da grandi”: il viaggio di Simba è soprattutto interiore e facilmente empatizzato dalla maggior parte degli spettatori. La fuga con successiva “zona di comfort” sono elementi che vanno al di là del semplice Hakuna Matata di Timon e Pumba, una filosofia (concentrarsi sul presente evitando che passato e futuro influiscano negativamente) che è solo l’anticamera di quanto vediamo a schermo. Simba fa suo l’Hakuna Matata, ma va oltre. Il passato per quanto doloroso va accettato e anche l’influenza negativa che può aver sul presente può essere usato come leva per realizzare esperienze migliori, non solo per sé ma per tutto il regno. Evitando di dilungarci ulteriormente, l’originale Re Leone è qualcosa di estremamente attuale e lo sarà probabilmente sino alla nostra estinzione. Questo perché essenzialmente Il Re Leone, parla di noi, di ciò che siamo e di quello che potremmo essere se solo ci conoscessimo un po’ meglio.
Tutto molto bello, tutti molto felici, sino a quando anche qui la mano a forma di dollaro non ha deciso di afferrare per la coda il povero Mufasa.
I bambini – oltre a essere gli esseri più malvagi dell’Universo – sono anche attenti al mondo che li circonda e ovviamente, il digitale ha preso il sopravvento; come naturale che sia, l’attrattiva dei bambini è virata su qualcosa di molto simile a un videogioco. Nulla di male, per carità; abbiamo avuto titoli degni nota come Coco (disponibile finalmente su Netflix), Up, Inside Out ma anche quel Spiderman – Un Nuovo Universo che riesce anche a elevare il genere. Se gli ultimi live action possono aver effettivamente un senso, vantando tra le fila anche un cast umano, ne Il Re Leone tutto questo prende una piega inaspettata e a tratti deludente.

Uno Specchio Oscuro

Partiamo da una premessa: l’emotività scaturita da un’opera e l’opera in sé sono cose completamente diverse. Del resto c’è chi si eccita sessualmente con Indipendence Day pur sapendo che la qualità del film lascia parecchio a desiderare. Ma andiamo avanti.
Il nuovo Re Leone è una riproposizione diretta da Jon Favreau, regista del remake de Il Libro della Giungla oltre che essere uno dei pilastri del Marvel Cinematic Universe. E il film, per forza di cose, funziona: quello che ci si trova davanti è un semplice “copia 1:1” del film originale ma interamente in computer grafica. Il lavoro svolto con la CGi è qualcosa di sbalorditivo, davvero vicino al fotorealismo con ogni piccolo particolare costruito con dovizia, facendo uso di tutte le ultime tecnologie in questo campo. Quello che colpisce sono i paesaggi degni dei migliori documentari su National Geographic, che riescono a risaltare un contesto che in fin dei conti, vede degli animali parlare. Animali semplicemente riprodotti alla perfezione… troppo. La questione “National Geographic” salta fuori quasi immediatamente: nonostante la riproposizione di alcune scene iconiche (indubbiamente suggestive), nessun passo in più sembra essere fatto dal punto di vista puramente stilistico, partendo da una fotografia (digitale) che non riesce in alcun modo a bucare lo schermo. Con la frase “ho visto documentari più belli” si riassume un po’ il tutto, con Caleb Deschanel che in nessun modo sfrutta la vastità di materiali tra luci e colori dell’Africa selvaggia capace di incorniciare una storia che in questo caso ne avrebbe assolutamente bisogno. Tutto risulta fin troppo asettico e questa asetticità la si ritrova purtroppo sui protagonisti. La ricerca della iper-realicità, benché stuzzicante, risulta essere l’autogol più grande della pellicola. Gli animali, hanno la particolarità di aver una piccolissima scelta di espressioni facciali e tranne qualche raro caso, non sono degli ottimi attori. Certo, ci sono attori che non si discostano tanto dal regno animale da questo punto di vista, ma questo abbiamo e questo ci teniamo. Sappiamo tutti quali sono le scene iconiche o qual è la scena iconica: Mufasa e la sua consapevolezza di non saper volare – lo so, è cattiva. Oltre alla mancanza di reale caratterizzazione estetica salvo qualche eccezione, la limitata espressività mozza le gambe a una storia che fa delle emozioni il suo marchio di fabbrica: nessuna espressione terrorizzata sul volto di Mufasa, nessuna trauma sul volto di Simba, nessun ghigno di Scar e soprattutto nessun volto infoiato su Nala. Se quest’ultima non inficia particolarmente sulla narrazione, tutto il resto è un puro colpo al cuore con mani a carciofo. Cosa ne viene fuori quindi? Un film essenzialmente inutile: durante la visione del film non vi è alcun motivo che giustifica questo nuovo adattamento se non il rivivere vecchie emozioni scaturite dall’originale. Ma a questo punto, perché non rivedere quello?
Anche a livello sonoro e scenografico qualcosa non quadra, con riarrangiamento delle celebri musiche di Hans Zimmer, ma che tra alti (sempre con riserva) e bassi non riescono a essere incisive. Prendiamo ad esempio “Sarò Re” di Scar: se nel classico, oltre a essere un elogio al totalitarismo, è intriso di quella teatralità che ha aiutato Scar a diventare un personaggio iconico, tra sbuffi di vapore verdastro, ombre malefiche e anche un bel plotone di iene che LVI avrebbe sicuramente apprezzato, in questa nuova versione, è semplicemente un leone decrepito che saltella tra una roccia e l’altra. Questa scena  rispecchia tutto il film. Tutto è molto edulcorato e in qualche modo sin troppo “distante” per essere empatizzante come il cartone animato.
Inoltre, il cambiamento di struttura narrativa che consente un “live action”, non è stato minimamente sfruttato: l’occasione di vedere approfondita la psicologia di Scar e il rapporto dello stesso con Mufasa, gli anni vissuti da Simba in compagnia di Timon e Pumba e molto altro che avrebbe meritato una maggiore attenzione, semplicemente non esiste, come due scudetti della Juventus. Questa forse è la più grande occasione mancata, ed è strano pensarci considerando che Cenerentola, La Bella e La Bestia, Maleficent e Aladdin hanno avuto un trattamento diverso.
Sul nuovo doppiaggio, elogiando Luca Ward come Mufasa, si prosegue tra alti e bassi in cui spiccano ovviamente Marco Mengoni (Simba adulto) ed Elisa (Nala Adulta) che con le loro voci accompagnano egregiamente le canzoni iconiche del brand, facendo da tramite tra presente e passato… sino a quando le parole non ritmate entrano in scena. Non essendo un musical, si nota una certa discrepanza tra il loro doppiaggio e quello del resto del cast, nulla comunque che infici violentemente la visione.

In Conclusione

La domanda da cui bisogna partire è “ne avevamo bisogno?”. Visto il risultato la risposta sembra scontata, eppure, è molto probabile che le nuove generazioni lo adoreranno. Sarà adorato anche da coloro che vivono la loro vita un quarto di emozione alla volta, cresciuti a pane e Disney e intrisi ancora di quella magia che è facile perdere semplicemente guardandosi attorno. Viviamo in un mondo in cui il dollaro regna sovrano e questo lungometraggio possiede un “non so ché” di pericoloso: cosa vuole il pubblico? È veramente in grado di scegliere cosa guardare e di far selezione? Tutte domande senza senso per i più, ma è la consapevolezza del pubblico a decide di quale qualità vogliamo usufruire.
Il nuovo Re Leone dunque, non riesce a elevare il prodotto originale, non riesce ad approfondire personaggi e tematiche e non riesce a regalare suggestioni visive degne di nota. Sta lì, come qualcosa avvenuto dopo una sbronza ma ancora presente nei nostri ricordi, un errore, qualcosa da dimenticare ma che ormai fa parte di noi. Ci sarà un sequel? Molto probabile, ammesso e concesso che importi a qualcuno ma quei pochi, saranno comunque entusiasti come bimbi nel rivedere le avventure di Simba – Il Leone Bianco.

– Cavolo, ce l’avevo fatta a non citarlo. Proprio all’ultimo. –




Google Stadia vs. The World

L’avvento di Google Stadia ha accelerato i tempi verso un futuro atteso da tutti. Del resto il digital delivery è sempre più una realtà prossima, con anche Sony e Microsoft che cominciano attivamente a sondare il terreno, cercando di capire quanto l’utenza sia ancora legata alla copia fisica o se cominci già a strizzare l’occhio al digitale. Gli approcci sono diversi, ma c’è un dato impossibile da ignorare: le console fisiche esistono ancora e l’avvento di PlayStation 5 e Microsoft Scarlett pare procedere costante.
Google, dunque, è stata fin troppo ambiziosa o Sony e Microsoft sono state troppo conservatrici? Analizziamo in dettaglio la situazione.

Forzare il cambiamento

Da quando il servizio Stadia è stato presentato, la domanda è stata una soltanto: riuscirà Google a gestire centinaia di migliaia di videogiocatori contemporanei sui diversi dispositivi? È una domanda importante, fare il passo più lungo della gamba è un rischio che il colosso di Mountain View non può certo permettersi.
Dal canto suo, la presentazione ha avuto successo, lasciando sbalorditi gli addetti ai lavori e meravigliando i videogiocatori che, improvvisamente, hanno visto cadere le catene che li vincolavano a un singolo hardware. L’importante è giocare, poco importa su quale supporto. Del servizio streaming ancora mancano alcuni dettagli, come la modalità di pagamento o se serva o meno il possesso di un gioco, ma di certo le luci della ribalta al prossimo E3 saranno sicuramente puntate verso questo nuovo inizio. LE caratteristiche tecniche ve le abbiamo già raccontate, sono sicuramente molto allettanti e capaci di portare il gaming su nuovi livelli, non solo per chi gioca ma soprattutto per chi sviluppa e produce, cambiando per sempre la faccia del mercato: l’aver disponibile tutto, subito e ovunque eliminerà all’istante aggiornamenti e add-on scaricabili e patch, il rilascio di demo e beta, nonché la distribuzione in generale con i publisher che dovranno cambiare strategia comunicativa, forse più diretta e personalizzata.
Il futuro sembra proprio roseo, un futuro arrivato molto presto e capace di prendere tutti alla sprovvista. Tra questi Sony, Microsoft e Nintendo, con lo sviluppo di nuove console in dirittura d’arrivo, in qualche modo già obsolete.
In questo periodo però, si sta sondando il terreno, con strategie diametralmente opposte: PlayStation Now è realtà e sembra funzionare abbastanza bene anche nel nostro paese, anche se ancora non vanta una libreria da capogiro. Il servizio Sony ha permesso a molti utenti PC di saggiare finalmente alcuni dei suoi titoli più importati (Bloodborne su tutti), completamente in streaming, un evento totalmente inedito e fino a poco tempo di fa inimmaginabile. PlayStation 5 è una console fisica, di cui sappiamo già le caratteristiche tecniche, che porta il gaming verso una reale next-gen; a questo punto però, next-gen non è riferito solo alla componente tecnica. Purtroppo Mark Cerny non si è sbottonato su streaming e servizi tangenti, ma le peculiarità della nuova console lasciano ben sperare, pur mantenendo un supporto ottico vista anche la retrocompatibilità con PlayStation 4.
E Microsoft? Proprio in questi giorni, la presentazione della nuova Xbox One S All-Digital, console interamente dedicata al digital delivery. Questa mossa, visto anche il prezzo di 229,99€, ha lasciato interdetti i più, visto che la stessa console con supporto fisico ha lo stesso prezzo se non addirittura minore. La via della casa di Redmond è dunque diversa, ibrida, presentando ancora la “classica scatola”, quasi per non disorientare l’utenza; una scelta senza dubbio interessante, e tutto questo lascia presupporre come anche Microsoft stia sondando il terreno, in preparazione della sua nuova console.

Il futuro degli altri

Alle 22:00 del 9 Giugno, Microsoft sarà chiamata a rispondere sul campo alla proposta allettante di Google e alle caratteristiche estreme di Sony. È chiaro come la divisione gaming del colosso di Bill Gates abbia imparato dai propri errori, puntando su una maggiore attenzione alla comunicazione e sui feedback della community. Proprio per questo la nuova Scarlett (nome ancora in codice delle nuova console) è un passo cruciale per il futuro del mercato, facendo saggiare probabilmente le caratteristiche del Project xCloud, definito come il “Netflix dei videogame”. Della nuova console si sa poco o nulla: è ovvio che sarà estremamente performante ma non è quello che interessa. Quello che conta adesso è la visione del futuro e l’approccio che Microsoft (come Sony del resto) avrà in questi mesi. Da giugno in poi, infatti, contando che Stadia uscirà a fine anno, potremmo avere un nuovo catalogo di scelta che non si baserà più sulle caratteristiche tecniche o sui titoli esclusivi ma sul tipo e sulla convenienza del servizio offerto. Questo apre un ventaglio immenso di possibilità, fatta di eventuali abbonamenti e fruibilità su diversi dispositivi. A questo proposito Apple non è rimasta a guardare: Apple Arcade non è ancora stato accostato allo streaming, certo, ma la presenza di un abbonamento per poter usufruire di titoli esclusivi è quasi certo. Questo aprirebbe il mercato a una concorrenza spietata e, nonostante l’approccio sembra essere ben diverso rispetto a Google, la casa di Cupertino sembra voler entrare a gamba tesa, sfruttando nomi altisonanti come Devolver Digital, Sega e Konami, facendosi via via strada nell’intricato mondo del gaming.
Nintendo rimane perora in disparte: se è vero che in Giappone è possibile giocare a Resident Evil VII e Assassin’s Creed: Odyssey in streaming su Switch, non si hanno ulteriori notizie sulle prossime mosse del colosso di Kyoto. Il suo approccio è cambiato radicalmente dopo la mala sorte toccata a Game Cube, cercando via traverse (per lo più di successo) per conquistare il pubblico. Ma adesso il mercato sta cambiando nuovamente e i giocatori, come si evince, sembrano attirati dal nuovo Eden offerto dalle nuove tecnologie.
L’avvento di Google Stadia dunque, sembra aver messo tutti sull’attenti, e fare un passo falso adesso decreterebbe un avvio difficoltoso e un gap difficilmente colmabile negli anni a venire. Microsoft, Sony, Apple e Nintendo, sono pronte a darsi battaglia portando la loro visione del futuro in un mercato che aveva disperatamente bisogno di una reale novità. La novità è arrivata, e non vediamo l’ora di entrare in un mondo che fino a pochi mesi fa sembrava fantascienza.




Chicago tassa PlayStation Plus

Tutto è cominciato nel luglio 2015, quando nella città di Chicago è stata emanata una nuova legge, soprannominata dai residenti “legge sul divertimento“. Questa, entrata in vigore poco più di tre anni fa, impone una tassa su tutti i servizi streaming online, proprio come Netflix o Spotify per i residenti di Chicago, quindi vengono tassati servizi utilizzati da milioni di utenti nel tempo libero.
Questa imposta, che equivale al 9%, ha portato molte aziende che offrono un servizio di streaming nel territorio della grande metropoli, ad aumentare il costo dei propri abbonamenti. La stessa Netflix ha dovuto modificare i prezzi della sua piattaforma e la medesima cosa sta accadendo anche a Sony, che dal 14 novembre, tasserà servizi come PlayStation Plus, PS Now, PS Music e altri, che riceveranno un incremento dei prezzi.
Molti si sono schierati contro la scelta del Dipartimento delle finanze di Chicago, persino Apple, che ha cercato di far valere l’Internet Tax Freedom Act, una legge firmata nel 1998 che vieta la tassazione di internet e dei servizi di e-commerce, ma per adesso sembra non essere cambiato nulla.
Questa tassa, non solo ha creato un malcontento generale per chi usufruisce di tali servizi, ma alla lunga potrebbe favorire la pirateria, che potrebbe portare a un consistente calo delle vendite di tali abbonamenti nel territorio di Chicago.

I servizi simili a Netflix, che permettono lo Streaming di videogiochi, stanno vivendo un periodo di crescita, soprattutto negli ultimi anni. Anche la stessa Sony ha registrato dei numeri davvero ottimi per il suo servizio di streaming videoludico, PlayStation Now, che ha raggiunto circa il 52% delle entrate totali del settore, circa 143 milioni di dollari in un solo trimestre. PlayStation Now ha superato persino il servizio streaming di Microsoft, Xbox Game Pass e quelli di Ubisoft ed EA che singolarmente ricavano poco meno di 90 milioni di dollari.
In totale la fatturazione del settore dello streaming videoludico si aggira a circa 273 milioni di dollari guadagnati durante il terzo trimestre dell’anno; molti utenti definiscono questa crescita come la sempre più netta affermazione dei servizi cloud e streaming, servizi che potrebbero essere la base delle nuove console next-gen.
La tassa imposta a Chicago non influirà pesantemente su questi numeri, ma sicuramente non è positivo per l’industria e per i cittadini che si ritrovano a pagare di più per usufruire di un servizio di streaming.




Trovata una cura per il backlog: gli arretrati non faranno più paura

Ogni giocatore che si rispetti ha un elenco infinito di titoli comprati fra saldi e momenti di hype ma lasciati lì a prendere polvere, aspettando l’occasione migliore per recuperarli. Il backlog è un problema reale, che colpisce quasi tutti i gamer: trovare il tempo e la voglia per giocare una saga o un singolo gioco non è semplice, soprattutto se si lavora, si studia, si ha una famiglia e se i mille impegni quotidiani non danno tregua.
Molte volte ci ritroviamo a comprare giochi che non utilizzeremo mai solo perché sono scontati o costano poco, ma solo con una flebile intenzione di giocarli, un giorno.
Il problema nasce dal fatto che un titolo che ha una storia non cambia nel tempo; prendiamo a esempio Kingdom Hearts: ogni suo capitolo non ha mai subito dei cambiamenti al gameplay, né è stato aggiunto qualcosa di nuovo con un aggiornamento, non è mai cambiato; quindi si può finire un capitolo passando subito al successivo.
Finire gli arretrati può essere visto anche come un compito, una sorta di “lavoro” e questo è sicuramente negativo per un videogiocatore. Essere “vincolato” dall’acquisto di un nuovo gioco per colpa del backlog non è una situazione piacevole.
Ma se si prendono in esame brand come Fortnite, Rainbow Six Siege o Destiny ci si può accorgere che sono tutti loro sono in continua evoluzione, supportati da aggiornamenti e DLC vari che implementano nuove funzionalità, rendendoli anche più longevi.

Non di rado chi vuole recuperare tutti i titoli non completati che ha acquistato lo fa non solo per quella che è certamente la voglia di giocarci, ma anche per una sorta di senso di colpa: vedere che il gioco è lì, mai stato aperto, è come comprare un’auto senza mai guidarla, un acquisto inutile. Chi veda le cose da questa prospettiva potrebbe essere gravato
Da questo punto di vista il futuro può venirci incontro: i videogame in streaming di cui tanto si parla e che pare debbano essere il prossimo passo dell’evoluzione del settore, non avranno il solo vantaggio di alleggerire gli hard disk, ma anche quello di non metterci di fronte alla condizione di accumulare un corposo backlog alle spalle.
Questi nuovi servizi in abbonamento offrono gli stessi vantaggi di Netflix: pagando un quota mensile si possono giocare tutti i giochi che si desiderano.
A meno che non ci si trovi davanti a casi clinici o di forsennati “binge racer”, non c’è fretta: la piattaforma sarà lì, i giochi per lo più rimarranno (come le serie tv, che vengono periodicamente aggiornate ma che per un periodo consistente di tempo rimangono disponibili) e si potrà tranquillamente terminare un gioco per poi completare quello che piace di più.
Vero, lo streaming non ci vedrà possessori dei videogame che giochiamo: ma dite che con Steam e la sua mancanza di DRM la situazione è tanto diversa?




Cloud gaming = futuro?

Lo scorso giugno, Yves Guillemot, CEO di Ubisoft, ha rilasciato delle dichiarazioni destinate a far discutere: secondo il fondatore dello studio francese, la prossima generazione di console sarà l’ultima per come la conosciamo, destinata a lasciare il posto al cloud gaming. E in effetti il futuro sembra volgere verso questo tipo di servizio, come lasciano intuire gli interessamenti da parte di Activision, Sony col suo PlayStation Now (e prima ancora, l’acquisto di Gaikai), più una miriade di servizi recenti come Nvidia Grid, Liquidsky, Vortex o Snoost. Ma la “bomba di mercato” maggiore proviene da Redmond, Washington; infatti, secondo le ultime voci, pare che Microsoft voglia creare due versioni della nuova Scarlet, nome in codice della prossima Xbox: una console “classica” e l’altra, più economica e completamente incentrata sul GooS (gaming as a service), ovvero, il cloud streaming.

Certo, le intenzioni sono interessanti, e anche sotto il profilo del progresso tecnologico sembra che il GooS rappresenti il futuro prossimo, con servizi più vicini a ciò che offre Netflix: Snoost, per esempio, prende pesantemente ispirazione dal servizio di streaming cinematografico e televisivo californiano, con piani di abbonamento che partono da 12,95€ al mese per un’esperienza a 480p, fino ad arrivare a pagare 38,85€ mensili per il gaming a 1080p. Ma il nodo gordiano della questione cloud gaming è rappresentato sempre dalle infrastrutture di rete, dove i lag spikes la fanno da padrone: prendendo per esempio il nostro paese, secondo il report dell’AGCOM scopriamo che solamente il 25% della popolazione ha accesso a una connessione internet che supera i 100Mbps, e un fortunato 2% che usufruisce di una rete FTTH (fiber to the home). Dato parecchio sconfortante, reso ancora più deprimente se controlliamo la classifica della velocità delle connessioni mondiali pubblicata da M-Lab, dove l’Italia si assesta al 43° posto, quart’ultima nazione europea.

Tornando all’attualità del cloud gaming, al momento abbiamo qualche timido servizio, come quelli citati all’inizio, e tante promesse: è il caso di Microsoft. La voce di una nuova Xbox dedicata solo ed esclusivamente allo streaming potrebbe essere la svolta decisiva per un nuovo modo di intendere i videogiochi. Non a caso, da qualche giorno molte sono le notizie che vedono l’azienda di Bill Gates intenta a tornare nel settore degli smartphone, nonostante il fallimento di Windows Phone e di Surface Phone (che, a inizio anno, rappresentavano solamente lo 0,15% della fetta di mercato!): alla fine, il motto che ha contraddistinto Xbox One è “play anywhere”, con una sorta di interconnessione tra la console e i PC con Windows 10: e se questa connessione si allargasse anche agli smartphone, così come fa Remotr? Rientrerebbe nelle classiche innovazioni a cui Microsoft aspira fin dagli inizi della sua storia.
Ma vi è anche un pericoloso precedente andato male, che riguarda una console dedicata esclusivamente allo streaming: è il caso di PlayStation TV, un piccolo media center creato da Sony per poter giocare sui televisori di casa con i titoli PlayStation Vita, coadiuvato anche dal supporto a PlayStation Now. Fu un fallimento commerciale: la piccola scatolina nera di Sony non aveva nessun appeal per i giocatori, con un costo elevatissimo per ciò che veniva offerto, e il progetto venne accantonato dopo soli due anni dall’uscita nei negozi.

Non basta il caso di PlayStation TV a rendere dubbia l’effettiva funzionalità del GooS; prendiamo sempre come esempio l’ipotetica “doppia” Xbox: come verrebbe impostato il marketing di Microsoft? Quale sarebbe la vera differenza delle due versioni, all’infuori del costo meno elevato per la versione dedicata allo streaming? E se quest’ultima avesse più problemi rispetto a una console classica, essendo legata a doppio filo dalle infrastrutture di rete del proprio territorio? Sarebbe devastante per una Microsoft non più disposta a inseguire le concorrenti nella prossima generazione di console. Certo, in caso contrario verrebbe fuori qualcosa di rivoluzionario, e rappresenterebbe davvero l’inizio di una nuova era nel gaming, ma al momento è tutto un grande “se”, visto che non si sa se effettivamente negli studi di Redmond si stia progettando una Xbox dedita esclusivamente alle funzionalità cloud.
Più concreta, invece, sembra la linea intrapresa da Activision; pochi giorni fa, il COO Coddy Johnson ha rilasciato le seguenti dichiarazioni a proposito del cloud gaming:

«Pensiamo che sul lungo termine l’impatto del gaming basato sul cloud e sullo streaming sarà positivo sia per noi che per l’intera industria videoludica. Innanzitutto perché ha il potenziale di accrescere la base di videogiocatori, raggiungendo quelli che non possono permettersi una console o un PC all’ultimo grido. E, in secondo luogo, venendo in aiuto di chi gioca già, offrendo esperienze più accessibili. C’è ancora tanto lavoro da fare prima che la tecnologia possa essere disponibile per la maggior parte del pubblico, ma crediamo che prima o poi accadrà, probabilmente non a breve, ma quando verrà il momento anche Activision ci sarà.»

Insomma, i piccoli passi verso il futuro, che sia prossimo o più in là nel tempo, ci sono tutti: servizi in abbonamento come Vortex, Snoost o Gamefly sono già disponibili, mentre i giganti del settore come Sony, Microsoft e Activision guardano con interesse il gaming as a service. Il futuro del settore si giocherà su questo campo, e il calcio di inizio aspetta solamente di essere battuto.




Il futuro di Steam

Facciamo un salto indietro di una decade: il PC gaming era ancora ad appannaggio del retail, con le cosiddette “big boxes”, gli scatoloni di cartone contenenti floppy disk (e più avanti, CD) più altri extra come mappe, manuali e altro, che la facevano da padrone. In più, la pirateria era, all’epoca, davvero inarrestabile e fuori controllo. Gabe Newell, capo di Valve, alla fine se ne uscì con un metodo rivoluzionario per la distribuzione dell’attesissimo Half Life 2: creare uno store virtuale dove vendere in digitale la seconda avventura di Gordon Freeman, insieme ad altri giochi. Steam era nato, e con esso il cambiamento che di fatto salvò il videogioco su personal computer, portandolo a un successo inimmaginabile. Il passaggio dunque dalle scatole al digitale era stato compiuto, anche se ancora il retail su PC resistette e resiste in piccole dosi, visto che le confezioni dei giochi contengono dei codici Steam da riscattare sulla piattaforma digitale di Valve.

Il successo di Steam portò altre compagnie come Electronic Arts, Blizzard, Ubisoft e CD Projekt Red a creare degli store proprietari come Origin, Battle.net, Uplay e GOG.com, e, nonostante si siano ritagliate una propria nicchia personale, Steam resta sempre la scelta primaria se si vuole giocare su PC. Ma la prospettiva riguardo al suo futuro è cambiata lo scorso anno, con l’arrivo dell’Xbox Game Pass di Microsoft, che propone un modello simile a quello usato da Netflix: 9,99€ al mese per poter usufruire di più di 100 giochi sia su Xbox One che su PC con i titoli Xbox Play Anywhere. Un sistema magari da perfezionare e probabilmente ancora di nicchia per quanto riguarda il settore videoludico, ma, economicamente parlando, può far gola a molti, soprattutto per gli utenti della console di casa Redmond.
Parliamo dei servizi a sottoscrizione mensile o annuale: Netflix ha letteralmente dominato il settore dell’on demand televisivo e cinematografico, mentre Spotify è diventato il sistema di riferimento per quanto riguarda la musica, entrambi, proponendo abbonamenti abbordabili per librerie vaste e complete. È il modello su cui si ispirano Microsoft e Sony con i rispettivi servizi, Xbox Game Pass e PlayStation Now, anche se, sfortunatamente, quest’ultimo non è disponibile in Italia per via dell’infrastruttura di rete insufficiente. In più si aggiunge il terzo incomodo, Electronic Arts con il suo EA Access: 3,99€ al mese, o 25€ annuali per usufruire di più di cinquanta giochi, in primis le esclusive EA come FIFA o Battlefield. Tre grandi compagnie sembrano aver scelto il modello delle sottoscrizioni, quattro, se aggiungiamo il modello di Nintendo, anche se quest’ultimo offre solamente i vecchi classici dell’era NES: in tutto questo, manca il servizio che ha dato il via alla rivoluzione digitale dei videogiochi. Manca proprio Valve con Steam.

Non si hanno notizie su di un cambio di rotta, visto che l’ultimo aggiornamento riguarda un rimodernamento grafico della chat, e sembra strano che i “leader” della distribuzione su PC non abbiano reagito alle novità portate in campo da Microsoft, Sony, Electronic Arts e Nintendo: magari Valve preferisce una tattica più attendista, e vedere se effettivamente i nuovi servizi delle “rivali” avranno il successo di Netflix e Spotify. Nel frattempo Steam continua a essere il punto di riferimento della piattaforma, grazie anche a un sistema di marketing efficace, puntando su sconti giornalieri ed eventi basati su di essi, come i recenti saldi estivi. Sistema che ha portato gli store di Microsoft, Sony e Nintendo ad adeguarsi. Ma sarà così anche per il futuro? Le recenti notizie sulla politica dell’accesso libero ai giochi da pubblicare, ha generato un abbassamento generale della qualità, con alcuni titoli contenenti malware, o ancora peggio, miner di criptovalute (vedi il caso Abstraticism, recentemente rimosso dallo store) causando un calo dell’utenza attiva del 17%.
Certo, non è un dramma per Valve: la sua leadership della distribuzione videoludica su PC sembra ancora destinata a durare a lungo, ma resta comunque strano vedere una compagnia che ha basato il suo successo sull’innovazione tecnologica restare ferma sotto questo punto di vista. Il futuro sembra spostarsi più sui servizi on demand in abbonamento e sul cloud gaming, e l’unico gigante che manca in campo è proprio Steam. Dopotutto, la storia tende a ripetersi: i videogiochi sono passati dal retail agli store digitali, e i servizi in abbonamento hanno dalla loro il vantaggio economico, oltre all’essere diventati uno standard per quanto riguarda media come il cinema o la musica. Adesso toccherà ai videogiochi, con Steam che farà la fine delle big boxes? Solamente il tempo potrà dircelo.




I video gameplay sono più visti di HBO e Netflix

Guardare video di gameplay è diventato un grande business negli ultimi anni e oggi è molto comune che gli streamer diventino famosi e ottengano una grande influenza su vari social. L’azienda americana Super Data Research ha pubblicato alcune statistiche, dalle quali si evince che ci sono più persone online collegati alle piattaforme di gaming streaming di tutte quelle connesse a HBO, Netflix, ESPN e Hulu messe insieme. Da quanto si evince dal grafico, più del doppio della popolazione degli Stati Uniti guarda streaming di gameplay e che un servizio come Twitch da solo farebbe più spettatori di canali e servizi come ESPN e Hulu.




It (2017)

Per anni i clown sono stati considerati tra le figure più spaventose e inquietanti in assoluto, soprattutto nell’immaginario dei bambini. Apparentemente senza ragione: in fondo, i clown, specialmente nei più tranquilli quartieri americani, erano quelli chiamati a rallegrare le feste di compleanno dei più piccoli. Nonostante la fiducia e i bei momenti passati in compagnia dei pagliacci, c’era sempre qualche bimbo che si allontanava o si metteva a piangere alla vista di queste persone truccate intente a intrattenere il pubblico con scenette comiche e semplici trucchetti atti a strappar qualche risata.
La miniserie televisiva It del 1990, tratta dall’omonimo romanzo di Steven King, giocava in parte su questo aspetto: la paura del clown. Ovviamente, It è un pagliaccio che appare per portarti con sé, una figura che vuole la tua pelle e che, prima di farlo, ti spaventa a morte. Queste le basi per il personaggio del clown ma cosa intendiamo per “spaventare a morte”? It è un personaggio che uccide: i più ingenui soprattutto, attratti nella sua sfera di fiducia, una volta regalata qualche risata, come una mosca che si avvicini alla pianta carnivora per i suoi feromoni.
È proprio questa la particolarità di Pennywise, nome del clown di kinghiana memoria: il fatto di mettere una paura proporzionata alla fiducia che gli daresti. A oggi questa miniserie viene considerata da alcuni come un prodotto invecchiato male, frutto del suo tempo, ma che ebbe un impatto culturale senza precedenti; It, riconfezionato successivamente come un film, è diventato qualcosa di sacro, uno dei film più terrificanti di sempre colpevole anche per aver alimentato ancora di più la paura dei clown nei bimbi di tutto il mondo. It è apparso nelle classifiche dei film più spaventosi di tutti i tempi e, a oggi, ha lasciato un ricordo molto vivo nelle persone che videro la serie (anche se in Italia uscì con un ritardo di tre anni). L’It del secolo scorso, nonostante diverse critiche su internet, ha mantenuto quest’aura fino a oggi, con l’uscita del nuovo film di Andrés Muschetti. Chi da bambino abbia visto It ha atteso con impazienza questo remake che oggi permette anche ai nuovi appassionati di conoscere la storia di Pennywise, il clown ballerino, e dei ragazzi di Derry, raccontata con mezzi più attuali e uno storytelling più moderno. Inoltre, il nuovo film si può permettere di essere più fedele al libro e mostrare alcune scene che ai tempi, per via dei controlli sui contenuti televisivi nelle TV americane, vennero smorzate per la troppa violenza presente nel romanzo.

Il film ci racconta della storia del club dei perdenti, composto da Bill, Mike, Ben, Beverly, Eddie, Richie e Stan, combriccola di reietti intenta a scoprire cosa c’è dietro alle sparizioni dei bambini di Derry. L’evento che scatena l’indagine è però la scomparsa di Georgie, fratellino di Bill, uscito durante una giornata piovosa per giocare con la barchetta di carta che il fratello maggiore aveva realizzato appositamente per lui. I ragazzi si imbattono in strani incontri in cui le loro paure più profonde prendono vita e fanno la scoperta di certi eventi tragici avvenuti a Derry, il tutto con intervalli ciclici di 27 anni. Di tutte queste vicende avremo sempre un’ottima visione d’insieme, tutto ci viene raccontato con un pacing costante che restituisce sia il background dei membri del club sia i tasselli principali della storia senza interruzioni particolari. Un chiaro punto a favore di questo remake è quello di riuscire a presentare le storie dei protagonisti senza scadere negli odiosissimi flashback della miniserie tv e senza che la narrazione si interrompa. I ragazzi sono tutti degli ottimi attori e sanno esattamente come accentuare le personalità dei personaggi del romanzo, personalità che in fondo dovranno pesare poi ai fini della trama: il lutto di Bill, di cui veste i panni Jaeden Lieberher, l’istinto di sopravvivenza di Mike (Chosen Jacobs), il disagio di Beverly e Ben interpretati rispettivamente da Sophia Lillis e Jeremy Ray Taylor: per tutti It è la prima produzione importante. Discorso che non può applicarsi per Finn Wolfhard che semplicemente sfonda lo schermo interpretando Richie, il ragazzo con gli occhiali: complice anche l’esperienza fatta sul set di Stranger Things, risulta il migliore dei ragazzi, simpatico, inadeguatamente volgare, sempre presente anche se con fare goffo e adorabilmente codardo. È impossibile non innamorarsi della sua interpretazione. Questa nuova trasposizione sul grande schermo, visto che lo abbiamo citato, prende sicuramente molto dalla succitata serie tv Netflix, che l’anno scorso è letteralmente esplosa (e la cui seconda serie è stata lanciata lo scorso 27 Ottobre) lanciando un revival anni ’80 di grande successo; la sceneggiatura è intrisa dello stesso  spirito di collaborazione dei personaggi e di quell’atmosfera vintage e gli scenografi non hanno certamente perso tempo a riempire i set con oggetti tipici di quei anni tra merendine, poster, musicassette e persino il cabinato di Street Fighter (il primo) che appare nella sala giochi locale. La scenografia è inoltre accompagnata da una eccellente fotografia che trae il meglio degli ambienti film: dalle scuole affollate, ai laghi soleggiati, dalle fetide fognature alla bizzarra casa andata in fiamme. Il film di Muschietti, insomma, come Stranger Things, ci porta indietro di qualche decennio avvalendosi di mezzi moderni, di una fotografia ben curata e di effetti speciali niente male, anche se a volte la computer grafica risulta un po’ troppo invasiva e, al solito, facilmente individuabile. Il nuovo clown, interpretato da Bill Skarsgård, purtroppo si pone in maniera troppo paurosa senza un vero comportamento da clown, distruggendo in un certo senso la vera e propria particolarità di It, ovvero quel ricevere l’attenzione dal bambino-vittima per poi ucciderlo brutalmente. La magia che Tim Curry donava alla miniserie originale era proprio quella di avere quel fare goffo tipico di un clown, essere inadeguato e mettere paura quando meno lo si aspettava; questo nuovo It invece risulta decisamente scontato. Il suo unico obbiettivo è quello di mettere paura, uccidere ed essere sconfinatamente cattivo, senza che ci sia alcuna sfumatura che possa dare un tratto originale al personaggio del pagliaccio assassino. È un clown deteriormente figlio di questi tempi, e lo si può notare da vari jumpscare poco convincenti, molti disturbati da una colonna sonora che si intromette violentemente, smontando lentamente il build-up che dovrebbe portarci alla fine a sobbalzare dalla poltrona o a volte talmente forte da distruggere qualsiasi effetto sorpresa. In poche parole, capiremo sempre che qualcosa di orrendo sta per accadere. È un vero peccato perché la soundtrack di Benjamin Wallfisch è veramente deliziosa: delicata e leggera nei momenti più introspettivi che riguardano i ragazzi, brutale quando il clown è in azione. Il vero problema è – strano a dirsi – semplicemente il volume, e il modo con cui spesso la musica arriva a “invadere” certe scene, colpa da non attribuire al compositore. Inoltre, sempre per ricordare che siamo negli anni ’80, alcune volte sembra che il film voglia mostrare di essere “così figo” da non riuscire a contenersi: onestamente, anche se possono strappare qualche sorriso, ci è difficile capire il perché delle urla in slow motion durante la scena della battaglia di sassi, o di quei forzati primi piani sul poster dei New Kids on the Block nella camera di Ben Hanscom. È normale che un film come It debba dare un attimo di tregua agli spettatori ma non sembra questo essere il metodo migliore.

La nuova trasposizione cinematografica di It è dunque certamente ben riuscita: la storia fila e non annoia, gli effetti speciali sono molto belli, la fotografia è ben curata e la colonna sonora ben composta. Ha tutti gli elementi per renderlo un bel film, pur tuttavia non essendo esente da difetti che non possono essere messi da tralasciati. Il film manca purtroppo di carattere e, se oggi giudichiamo la miniserie un prodotto figlio del suo tempo, con tutti i limiti che ciò comporta, il destino di questo film potrebbe non essere tanto diverso. Ha certamente delle caratteristiche che oggi lo rendono un ottimo prodotto ma, col passare del tempo, probabilmente, le stesse cose che oggi sono punti di forza saranno le stesse che lo faranno sembrare un film datato. Oggi, e sicuramente per il futuro, questa pellicola rappresenta certamente la migliore alternativa di fronte alla tediosa miniserie, anche per la maggiore fedeltà al romanzo, ma la presenza di Tim Curry nell’originale era un valore aggiunto di cui il film di oggi non gode, ed è un elemento non da poco che ha contribuito a imprimere nella mente dei più l’immagine di It fino ad oggi, ed è quella che probabilmente resterà anche in futuro; questa pellicola non farà certo dimenticare una miniserie che ci ha regalato dei bellissimi momenti (o meglio, spaventi) che meritano di essere ricordati ma, se siete alla ricerca di qualcosa di più moderno e più fruibile, apprezzerete questo film. Se siete pronti per un nuovo incubo, addentratevi pure in sala.




Il gioco di Stranger Things pubblicato da Netflix

In attesa del rilascio della seconda stagione di Stranger Thingsdisponibile a partire dal 27 ottobre, Netflix ha pubblicato Stranger Things: The Game, videogame retro per le piattaforme mobile che richiama Zelda ma con i personaggi principali della serie TV. Premetto che chi non ha visto la prima stagione di Stranger Things dovrebbe seriamente rimediare: non capirete quale sia il periodo in cui è ambientata – giusto una o due generazioni passate – ma la grafica in stile anni ’80 rende al meglio l’idea dell’epoca in cui ci troviamo. I personaggi del gioco avranno diverse abilità, e sarà possibile esplorare la piccola cittadina di Hawkins e il Sottosopra per risolvere i vari puzzle. Il gioco è stato pubblicato oggi sia su iOS che su Google Play Store, ed è completamente gratuito senza ulteriori acquisti.




Death Note

Negli ultimi anni, Hollywood ha cominciato a prestare attenzione al mondo di manga e anime, “prodotti tipici” della creatività giapponese. Mancanze di idee, probabilmente, ma sta di fatto che noi tutti abbiamo sempre avuto la curiosità di vedere dei live action, magari sui nostri eroi preferiti. Non è facile però, vuoi perché la narrazione si sviluppa su decine di volumi, vuoi per lo stile, forse troppo orientale e unico per essere concepito dagli studi di Los Angeles. Del resto ricordiamo tutti il primo – e fortunatamente unico – adattamento cinematografico di un certo Dragon Ball, denominato per l’occasione Evolution: tralasciando qualche nome preso dal manga originale, il film rovescia i canoni su cui si poggia la storia, snaturando (volontariamente?) i personaggi, costruendo una trama dalle fragilissime basi. Un po’ meglio è andata a Ghost in the Shell, pellicola con protagonista Scarlett Johansson, uscita proprio quest’anno: il film, pur subendo molte – ma molte – semplificazioni, è comunque riuscito a ritagliarsi una propria identità, dando senso alla parola adattamento. Nulla di trascendentale, per carità, ma sicuramente un passo avanti verso una costruzione più accurata rispetto l’opera originale.
Ora è il turno di Death Note: targato Netflix, questo film è un interessante esperimento di produrre qualcosa di diverso, magari un po’ di nicchia, ma sicuramente con un grande bacino di appassionati.
Per quei pochi che non lo sapessero, Death Note è un manga del 2003, scritto da Tsugumi Ōba e disegnato da  Takeshi Obata, che riscosse molto successo, non solo in Giappone ma nel mondo intero, divenendo in breve tempo un vero e proprio cult. Le vicende si svolgono attorno a Light Yagami il quale, venuto in possesso del Death Note – un quaderno speciale dove, se scritto il nome di una persona, questa stessa morirà entro breve tempo – decide di ergersi a paladino della giustizia. Andando avanti nella storia non tutto andrà per il verso giusto e, personalmente, vi consiglio di recuperare se non il manga, almeno l’anime.
Cos’è la giustizia? Cos’è la fede? E soprattutto, cosa vuol dire adattamento? Scopriamolo insieme in questa recensione.

Partiamo proprio dall’ultima domanda: che cos’è un adattamento? In generale è la capacità di sceneggiatori e registi di saper produrre contesti cinematografici, quanto meno simili a opere esistenti, come libri, opere teatrali, fumetti, videogiochi e in questo caso, manga; praticamente il 70% di tutto ciò che vediamo al cinema ultimamente. Ovviamente non tutto quello che è scritto su carta stampata è fruibile sul grande schermo: adattare alcune situazioni, alcuni contesti e personaggi, per fare in modo che tutto rientri nelle classiche due ore di pellicola è ormai una prassi, ma soprattutto una necessità. È normale che ci siano differenze e un esempio su tutti, visto che siamo in un portale di videogiochi, può essere considerato l’Animus di Assassin’s Creed: vedere Michael Fassbender per un paio d’ore steso su un lettino non avrebbe fatto lo stesso effetto, ovviamente. Ma l’adattamento, alle volte, diventa una scusa, un dito dietro al quale nascondersi quando i pareri della critica cominciano a non essere così favorevoli; e  questo pare proprio il caso di Death Note.
È inutile girarci in torno: il Death Note di Netflix è una delusione sotto tutti i punti di vista. Ma andiamo con ordine.
Il progetto è stato affidato ad Adam Wingard, regista emergente che ha cercato di fare il possibile per salvare quanto meno la faccia. Sì, perché la regia è tra gli elementi meno agghiaccianti presenti nel film, una regia da mestierante, con qualche piccolo guizzo di tanto in tanto. Il problema vero arriva da tutto il resto, dalla sceneggiatura alle prove attoriali, fino al casting. Adattamento significa, in questo caso, traslare le vicende dal Giappone agli Stati Uniti: niente quindi Light Yagami ma Light Turner, Misa che da Idol diviene una cheerleader di nome Mia e i soliti problemi da liceo che abbiamo imparato a conoscere in centinaia di serie americane. Fin qui nulla di strano. I veri problemi sorgono quando i personaggi principali diventano mere parodie vuote in un contesto che risulta sin da subito sbagliato. Nella sceneggiatura scritta a tre mani, Light Turner (Nat Wolff) si presenta come uno dei tanti ragazzi disagiati e isolati dal contesto socio-scolastico, ma dotato di grande intelligenza. Già si può evincere come ci sia qualcosa di sbagliato in tutto ciò, segnalato anche da un netto distacco dall’atmosfera aulica del manga/anime e l’interpretazione che di certo, non aiuta. Nat Wolff è fin troppo sopra le righe, mai convincente e soprattutto privo di carisma. Non riusciamo a empatizzare con lui e capire il suo punto di vista contorto, probabilmente per un errato – ammesso che ci sia stato – studio del personaggio di Light Yagami. Senza soffermarci su Mia (Margaret Qualley), pressoché inutile e fastidiosa, sia come personaggio che come recitazione, da segnalare è la prova del vero antagonista di Light, o Kira se preferite: Elle. È vero; cambiare etnia a un personaggio che fa della sua caratterizzazione esteriore uno dei sui pregi è sicuramente una mossa al dir poco azzardata. Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare: Keith Stanfield, nei panni di uno degli investigatori migliori al mondo, ne rappresenta discretamente i comportamenti, almeno fino a quando pensa di essere diventato qualcun altro e comportarsi nella maniera più sbagliata possibile. Questo forse è in sintesi una delle caratteristiche del film: ci prova, ma pur provandoci non riesce, mettendosi il bastone tra le ruote da solo.
Se le interpretazioni a dir poco scadenti non lasciano il segno e una scrittura confusionaria che cerca di prendere qualcosa dall’opera originale si perde nei meandri del nonsense, cosa resta? Probabilmente la voce di Ryuk (caratterizzazione pessima, sia esteriore che psicologica) prestata da Willem Defoe, è l’unica nota positiva del film. In lingua originale si può apprezzare lo sforzo di un attore che ci ha creduto, riuscendo, almeno in parte, a rendere meno ridicolo lo Shinigami.
Inutile dire che le tematiche sono state completamente travisate: quello che per Light Yagami è un compito offerto dal destino, per Light Turner e Mia diventa quasi un gioco di coppia, immerso in un teen drama di cui si poteva fare volentieri a meno.

Il Death Note di Netflix è un fallimento su tutta la linea: scelte di sceneggiatori, casting e  attori, non rendono giustizia a un’opera che ha segnato una generazione, aprendo dibattiti su cosa sia giusto e sbagliato o la funzione di Dio. In questo caso la parola adattamento viene utilizzato come scusa, divenendo un Dragon Ball Evolution 2 dimenticabile, con così tante pecche che si fa fatica a trovare qualcosa da salvare. Nulla dell’opera originale, se non qualche nome, è stato utilizzato e questo forse è il male minore: anche se immaginiamo un mondo dove Death Note non sia mai stato creato, questo film non si salverebbe nemmeno.
«Questo mondo fa schifo». E Light Turner, a suo modo, ce lo ha ricordato.