Remothered: Tormented Fathers

Nella mia storia di gamer ho vissuto un periodo (neanche breve) in cui mi sono allontanato dai videogame. Non è stato un momento dettato da ragioni di stanchezza nei confronti del medium, né una scelta dovuto a mancanza di stimoli: senza troppi giri di parole è stata una forma di self-punishment, dovuta a una serie di circostanze che hanno caratterizzato una transizione particolare della mia vita. Il ritorno all’ovile videoludico è avvenuto in un momento ancora più critico, un frangente in cui ho capito la reale dimensione dei videogame nella mia esistenza: quella di scialuppa di salvataggio, asse di quella Pequod che, irrobustita da scrittura e letteratura, mi ha permesso negli anni di restare a galla nell’eterna lotta contro i miei capodogli umorali. In quel frangente difficile, in piena epoca PS3, mi ritrovai a rispolverare la mia vecchia PS2 come fossi ancora lo studente dei primi anni di università. Capii tempo dopo le ragioni della scelta, che risiedevano in un bisogno di ritrovamento di un “Io originario”, lasciato forzatamente per anni in un ripostiglio della coscienza. Ricordo che entrai in un negozio e, ravanando tra l’usato, trovai una copia di Haunting Ground, che si rivelò il mezzo necessario per l’apertura di quel portale temporale: è curioso che, in un momento simile, nel quale molti penserebbero come necessaria la serenità piuttosto che un concentrato di tensione e immagini cupe, siano stati i survival horror a tornare in mio soccorso. Dico “tornare” perché il lato gotico del fantastico è stato un po’ il mio portale d’accesso a tutte le arti: quello di racconti e arabeschi di Edgar Allan Poe della SugarCo è stato il primo libro che ricordo di aver amato, così come nel cinema dei quei primi anni ’90 rimanevo folgorato da IT. E non è un caso che fosse proprio Maniac Mansion a introdurmi al mio genere preferito, le avventure grafiche, col suo carico di mistero e di tensione che accompagnavano l’intento parodistico nei confronti delle storie horror. Inutile dire che il primo approccio con quello che era destinato a divenire il moderno survival horror fu con Alone in the Dark, e da lì fu solo un attendere i Silent Hill, i Forbidden SirenProject Zero, titoli dotati non soltanto di una narrazione grandemente curata, che andava dallo psicologico al folklore nero, ma che calavano il giocatore in uno stato di assoluta impotenza, rendendo necessario ricorrere a ben altro che agli scontri fisici o armati per assicurarsi la sopravvivenza. Non potevo dunque non amare Clock Tower 3, ed è chiaro come la storia di Fiona Belli, costretta a fuggire con l’aiuto di un cane per le stanze dell’immenso castello di Haunting Ground, fosse un inevitabile, dolcissimo ritorno a sensazioni perdute.
Ed è partendo da simili sensazioni che è per me necessario introdurre il primo grande pregio di Remothered: Tormented Fathers (altrimenti a cosa sarebbe servito questo lungo preambolo?), la cui esperienza di gioco è stata una madeleine proustiana che, nella sua lenta masticazione, ha avuto il merito di sprigionare sfere sensoriali sopite da un po’ di anni. Ma non è certo questo personalissimo assunto di partenza a farne l’ottimo survival horror che è.

Incubi in analessi

La narrazione di Remothered: Tormented Fathers comincia in medias res, mentre un’anziana Madame Svenska racconta a un interlocutore fuori campo gli accadimenti di cui è stata protagonista anni addietro Rosemary Reed, a seguito di un incontro con il notaio Felton ottenuto spacciandosi per una dottoressa dell’istituto nel quale era tempo stato ricoverato. Smascherata durante il colloquio da Gloria, infermiera preposta alle cure del notaio, la vedremo introdursi in casa Felton qualche ora dopo essere stata messa alla porta. Sarà l’inizio di una catabasi nell’orrore nascosto fra le mura domestiche, ma soprattutto nell’inferno della psiche umana. La sua esplorazione la porterà gradualmente nei meandri di una dark side che vedrà luce tra documenti, video, foto e altri oggetti utili a ricostruire un oscuro passato, fatto di nebulose sperimentazioni su un farmaco dell’evidente impatto sui processi mnemonici, il Phenoxyl, e di un ambiguo rapporto con la figlia del notaio, Celeste, misteriosamente scomparsa anni addietro. A “disturbare” questo percorso di scoperta ci saranno gli avversari che si avvicenderanno nel gioco, dallo stesso Felton, armato di falce e deciso a contrastare ogni intrusione, a una misteriosa suora rossa armata di uno spesso bastone a forma di colonna vertebrale. Le scoperte saranno molto interessanti, e verranno pagate al prezzo di lunghe ore di terrore e tensione costante.

Padri tormentati

Pur essendo uscito lo scorso 30 gennaio (data annunciata nel corso della Milan Games Week 2017) su PC, per poi arrivare in estate su PS4 e Xbox, Remothered: Tormented Fathers ha alle spalle una lunga storia di sviluppo: l’idea di base nasce già quando il creative director Chris Darril sedeva ancora tra i banchi di scuola della sua Catania. Nel 2007 si sviluppa un primo nucleo fortemente indebitato con Clock Tower, che vide una più marcata e originale identità un paio di anni dopo, quando il progetto cominciò ad assumere una prima forma su RPG Maker XP, dove viene pensato come survival horror 2D. Chris Darril comincia però a intuire i limiti di una simile scelta e, nonostante alcuni riscontri positivi sulla rete, decide di mettere in standby lo sviluppo, rifiutando anche alcune proposte di cessione dei diritti o di partnership. È una scelta difficile, umile e intelligente, e che darà i suoi frutti anni dopo, quando il game designer tornerà sul progetto con alle spalle esperienze di rilievo maturate nel settore, proprio in campo survival horror, da Forgotten Memories: Alternate Realities al più recente Nightcry, nel quale Darril assume il ruolo di board artist e concept designer sotto la direzione del regista Takashi Shimizu (noto per la saga cinematografica di The Grudge) e di Hifumi Kono, padre della saga di Clock Tower. Chiaro come simili lavori possano arricchire l’esperienza di un game designer, e questi anni sono utilissimi per garantire a Chris Darril una maggior consapevolezza nel passaggio dal 2D al 3D e, soprattutto, per poter lavorare su Unreal Engine 4, motore sul quale è sviluppata la versione finale del gioco.
Il risultato è letteralmente da manuale: quella di Remothered: Tormented Fathers è una lezione accademica in campo survival horror. Darril dimostra di aver acquisito alle perfezione le dinamiche e le meccaniche del genere, e ne dà saggio nel videogame che vede il suo esordio alla direzione creativa. All’interno della villa, il cammino di Rosemary Reed sarà disseminato della documentazione utile a ricostruire l’intera cornice narrativa, in un procedimento “piece by piece” mantenuto lineare e che non rende mai la narrazione frammentaria. Dalla nostra visuale in terza persona ci troveremo spesso a muovere la protagonista in modalità stealth, stando attenti a evitare lo stalker di turno e a nasconderci in un armadio o sotto un divano per sfuggire all’attacco, al quale potremo non soccombere scagliando un oggetto da lancio o, in ultima istanza, reagendo con tempismo usando un’arma di difesa. Vari di questi oggetti potranno essere utilizzati anche come diversivi da piazzare in posti strategici, e in giro per la casa si potranno trovare dei potenziamenti di attacco e difesa dei singoli item.
A differenza di altri titoli del genere, qui non è presente una modalità di gestione del panico, elemento che forse avrebbe regalato un po’ di pepe al gameplay: ci troviamo con una Rosemary praticamente instancabile, e questo facilita un po’ la dinamica hide&run su cui si regge il gioco. A compensare ci pensa però un buon bilanciamento dei nascondigli, non così frequenti da rendere troppo semplice la fuga: è uno degli elementi a favore di una gestione degli ambienti e di una strutturazione dei livelli globalmente molto ben congegnate.

Fra design e regia autoriale

Il level design è infatti uno degli elementi meglio studiati di Remothered: anche qui, nessuna rivoluzione, nessuna soluzione audace o fuori dagli schemi. La meta del design è un’altra: si vede il chiaro intento di proporre scenari e livelli che rispondano perfettamente ai canoni del genere, capaci di assicurare le stesse dinamiche in termini di ostacoli e vie di fuga. È un lavoro di taratura del metronomo dei tempi di gioco, e anche in questi termini l’obiettivo è pienamente centrato: non era affatto un risultato scontato, ed è una scelta che apporta giovamento anche sul piano visivo, con environment attentamente architettati e ben giocabili in fase di gameplay, ma anche molto belli a vedersi. Le relazioni di ordine-caos tra i vari elementi ambientali creano una perfetta armonia contestuale, restituendo il senso di opulenza e decadenza, di splendore perduto e insanità gotica che danno al titolo una cifra stilistica ben marcata, con una straordinaria cura dei dettagli che si apprezza particolarmente in ambienti come lo studio di Felton o l’attico, dove l’affastellarsi di manichini e bambole penzolanti è un altro chiaro omaggio all’iconografia di genere, una scelta quasi scolastica che riesce miracolosamente a non risultare retorica, preservando la bellezza del quadro d’insieme. I tributi videoludici, a onor del vero, sono disseminati ovunque e, se le dinamiche di gioco richiamano Clock Tower e i suoi derivati, il rapporto con la memoria-psiche richiama molto da vicino la già citata saga di Silent Hill, non ultimo Shattered Memories sia per l’oscura ambivalenza che sta nella relazione tra personaggi e ricordi perduti, sia per alcune sequenze video, dalle sedute di mesmerizzazione (dove l’inquadratura richiama il mezzobusto dello psicanalista del titolo Konami) al dondolio della ragazzina sull’altalena. Il tributo di Chris Darril non si ferma al medium videoludico, l’influenza è marcatamente cinematografica, come può intuirsi dalle lunghe cinematiche del titolo e soprattutto dall’alta cura al linguaggio di regia, all’uso della prospettiva, ai movimenti di camera, ai piani sequenza: il game designer catanese ha ammesso il proprio debito nei confronti di Polanski (palesato già nel nome della protagonista), di Lynch, di Hitchcock e del Pupi Avati de La casa delle finestre che ridono e del Demme de Il silenzio degli innocenti (che la protagonista sia molto simile a Jodie Foster lo avete notato tutti, no?) ma, a guardar bene, si riesce a scorgere anche di più: l’attico non può non riportare alla mente i manichini del Maniac di Lustig, di Tourist Trap, di House of Wax, di The Basement (o quelli del Silent Hill videoludico, of course) così come le bambole al muro ci rimandano a classici come DollsPuppet Master o al più recente Dead Silence. C’è lo sguardo abissale di David Cronenberg, la morbosità del primo Tobe Hooper, e anche la raffinata artigianalità del John Carpenter degli inizi: se dovessimo guardare Remothered solo da un punto di vista eminentemente cinematografico, sarebbe già un esordio straordinario, nel quale il director mostra di aver imparato bene anche la lezione dei grandi maestri della settima arte.
I difetti di questo primo titolo si manifestano in realtà su un piano eminentemente tecnico, con un’illuminazione a volte troppo marcata, che rende personaggi e ambienti un po’ affettati, un uso non sempre felice della saturazione cromatica (visibile fin dalle prime sequenze, a partire dalla brace della sigaretta accesa di Rosemary Reed) e animazioni che portano con sé più di una sbavatura. Ma parliamo di un lavoro indipendente, dove ai team di Darril Arts e Stormind Games va riconosciuto comunque il merito di aver ottimizzato bene le risorse disponibili, ottenendo una resa che sul piano tecnico è ottima ad onta delle imperfezioni. Se l’art-style trova i più felici risultati nel quadro d’insieme, con una quantità di elementi negli ambienti che formano uno stupendo mosaico, capace di restituire un veridico sfarzo e al contempo un’inquietante entropia, i primi piani denotano certi limiti poligonali in termini di definizione dei character, così come alcuni dettagli nei personaggi godono di scarso dinamismo, ma ricordiamo che il miglioramento di alcuni elementi in tal caso non dipende dalla sola perizia tecnica, quanto dal budget.
Il peccato meno veniale di quest’opera sta forse all’interno del comparto sonoro: se negli SFX il titolo può vantare una buona gamma ben gestita, dove i rumori di sottofondo o d’impatto sono utilizzati con sapienza, un problema non da poco si riscontra giocando in cuffia. Con gli headset alle orecchie, infatti, si può sentire chiaramente come i suoni degli stalker (dal rumore dei passi a un appropriatissimo Old MacDonald had a Farm canticchiato da Felton, scelta d’efficacia, che aumenta a dismisura il senso di inquietudine) provengano soltanto da sinistra, risultando un po’ penalizzante per l’esperienza di gioco, in un titolo dove l’ascolto del nemico diventa molto importante, in quanto le scelte riguardo il cammino determinano la vita e la morte, e un audio monodirezionale non permette di intuire la posizione del nemico. Per fortuna le meccaniche sono studiate bene e questo difetto (derivante anche dai limiti di Unreal in termini di audio 3D) risulta un limite non castrante.
Dal punto di vista sonoro, del resto, il gioco si avvale di una colonna sonora straordinaria, che vede Nobuko Toda (composer che ha contribuito a soundtrack del calibro di Final Fantasy XIV e a quelle di vari Metal Gear Solid) al fianco dell’italiano Luca Balboni, giovane compositore che recentemente aveva dato un ottimo saggio delle proprie capacità musicali in Mine, italianissimo film di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro con un buon riscontro di critica e pubblico. Il suo lavoro in Remothered non è certo da meno, anzi, l’estrazione eminentemente cinematografica dell’OST si percepisce all’istante, si sente un debito verso grandi maestri del cinema classico come Hans Zimmer e Danny Elfman ma che non si traduce in un’obbedienza mite e pedissequa al canone: si sentono a tratti le atmosfere cupe e asfissianti del Mother! di Aronofsky, richiamando quel gioco di dissonanze messo su da Jóhann Jóhannsson, ma anche influenze più “pop”, che nei brani cantati riportano alle sonorità melanconiche e cullanti dell’Elvis Costello di Imperial Bedroom. Il risultato è una pietra preziosa sul piano compositivo, che ben si incastona in un gioiello horror del mondo videoludico indie.

Nastro rosso

Senza troppi giri di parole, Remothered: Tormented Fathers è l’esordio videoludico italiano dell’anno: con una scrittura equilibratissima, sottesa fra l’orrore della memoria e l’inferno della psiche, e una forte base cinematografica che si dispiega in intense cinematiche, il titolo riesce a sostenere dall’inizio alla fine una narrazione senza inciampi, sorretta da circa 6 ore di gameplay dinamico, ricco di enigmi ben strutturati e di fughe al cardiopalmo, in un susseguirsi di colpi di scena ed evoluzioni che non spezzano mai la tensione e stimolano la continua ricerca della soluzione per andare avanti. Nel lavoro di Chris Darril, lo abbiamo già detto, non si manifesta alcun intento rivoluzionario nei confronti del canone di genere, ma la maestria con cui è strutturato e realizzato questo titolo d’esordio rende bene l’idea di quale sia la sua cassetta degli attrezzi, lasciando grosse aspettative per il futuro.
Del resto, nelle intenzioni del game designer catanese, Remothered: Tormented Fathers è solo il primo capitolo di una trilogia di cui è stata già scritta l’intera storia: il potenziale è enorme, e ci sono tutti i motivi per attendere con trepidazione il sequel, sperando che una grossa produzione sposi il progetto e fornisca un adeguato budget per un titolo che merita i fasti del tripla A.




Resident Evil 7: Biohazard

«Per fare un fantasma occorrono, una vita, un male, un luogo. Il luogo e il male devono segnare la vita, fino a renderla inimmaginabile senza di essi. Il luogo dev’essere circoscritto, con confini precisi; più che un luogo, una porzione chiusa di luogo: preferibilmente una casa.»

Questa frase di Fantasmagonia di Michele Mari potrebbe essere il postulato di partenza per i creatori di questo nuovo capitolo di Resident Evil.
Dopo due episodi sottotono – che hanno fortemente scontentato la fandom e che, al contempo, non hanno esaltato i giocatori meno intransigenti – in casa Capcom si è optato per un ritorno al passato sotto vari punti di vista, a partire dall’ambientazione: abbandonare le strade di Raccoon City e tornare a circoscrivere l’orrore tra le mura di una casa. O, per meglio dire, tra i confini di una tenuta, dato che l’ambiente di gioco di questo capitolo si estende all’intera proprietà della famiglia Baker, nella quale viene a trovarsi Ethan Winters dopo aver ricevuto un messaggio dalla moglie, Mia, creduta morta da anni.
In quest’amena proprietà rurale sita a Dulvey, Louisiana, si svolgono i fatti di Resident Evil 7: Biohazard.

Beginning Hour

Il gioco è ambientato ai giorni nostri, anche se la casa sembra essersi fermata agli anni ’80, fra mangianastri, VHS e tv con tubo catodico. Il gioco si svolgerebbe in realtà ai giorni nostri, 4 anni dopo Resident Evil 6 e 3 anni dopo la demo, Beginning Hour, con la quale RE7 è stato a tutti gli effetti presentato il 14 giugno 2016 agli utenti Plus del Playstation Store. Un assaggio di questo capitolo era stato dato all’E3 di Los Angeles del 2015 con KITCHEN, breve demo nella quale ci si trovava a impersonare un non meglio specificato personaggio legato a una sedia che finiva col fronteggiare una demoniaca Mia. Pochi minuti nei quali ci si limitava a mettere un piede nella cucina dei Baker. Beginning Hour è invece il primo vero approccio al gameplay e alle dinamiche di Resident Evil 7: Biohazard, pur non comprendendo alcuna parte del gioco finale (ad eccezione di una VHS, la prima in ordine di comparizione in quest’ultimo capitolo Capcom). Anche qui si vestono i panni di un non meglio specificato protagonista, ma le storie importano poco: quel che è importante è testare la reazione del pubblico di fronte alla nuova ambientazione e alle nuove dinamiche. Forse proprio per questo la demo è molto elaborata, rigiocabile, con ben quattro finali e con la possibilità di raccogliere alcuni degli oggetti principali del gioco, comprese le armi. E la risposta degli utenti, con oltre 2 milioni di download, è più che positiva, al punto che Capcom rilascerà successivamente le versioni Twilight e Midnight, che contengono altri enigmi e permettono di giocare altre aree della casa. Nessun cenno ai personaggi che faranno parte di Resident Evil 7: Biohazard, tra i quali, nelle presentazioni al pubblico, pare avere attenzioni solo Mia, che ritorna in Lantern, altra breve demo presentata alla Gamescom di Colonia del 2016 che contiene la sequenza della seconda VHS del gioco, nella quale la donna si trova alle prese con l’amabile Marguerite Baker, con la quale avrà a che fare anche il nostro protagonista, Ethan.

“Rise and Shine, Sleepyhead!”

E così si entra nel vivo di questo Resident Evil 7: Biohazard: dentro la casa Ethan riuscirà a trovare Mia, ma si ritroverà ben presto prigioniero dell’orribile famiglia Baker, i cui componenti gli daranno la caccia per tutta la durata del gioco. L’ambientazione cupa, la casa desolata nelle sperdute campagne del sud americano, quella famiglia decadente, sordida, malata e quel senso di impotenza che si prova nell’essere rinchiusi senza via di fuga in un simile contesto richiamano scenari da film horror anni ’70-’80 – The Texas Chainsaw Massacre, da noi meglio conosciuto come Non aprite quella porta, su tutti – che lo stesso director Koushi Nakanishi ha dichiarato letteralmente di adorare. La scrittura di Richard Pearsey (F.E.A.R., Spec Ops: The Line) si innesta perfettamente in questo quadro, suggellando un’opera horror dal grande ritmo narrativo che gioca sui migliori cliché del genere senza mai banalizzarli.

Inside The House

Una simile struttura narrativo, che onora i classici senza cadere nel già visto, è il perfetto specchio di un gameplay che riesce nell’impresa di far rivivere un franchise un po’ inceppato rinnovandone le dinamiche (ottimo l’espediente delle VHS, le quali spezzano sia la storia dal punto di vista narrativo, sia la tensione, seppur momentaneamente, e permettono una maggior immedesimazione nella storia, essendo giocabili) e rivisitando elementi già visti nei precedenti capitoli: così come la casa – ricordiamo tutti le stanze oscure e tortuose in cui si perdeva la squadra S.T.A.R.S., no? – un elemento visivo che salta subito all’occhio è il sistema di apertura delle porte, il quale è una “versione in real-time” delle clip del primo capitolo, e dunque un esplicito richiamo atto – come ha dichiarato Nakanishi – a rievocare quel brivido che portava il giocatore a chiedersi (e temere) ogni volta cosa potesse nascondersi dietro la porta; tornano inoltre come elementi dei punti di salvataggio un po’ retrò (in questo caso il mangianastri al posto della macchina da scrivere), il cardiofrequenzimetro da polso che indica l’energia residua, i bauli in cui conservare gli oggetti per i quali non si trova spazio nello zaino (quantomeno finché non se ne trova uno più grande) ed elementi come le erbe, che si innestano in un interessante sistema di crafting che porta il giocatore al compimento di scelte importanti: meglio combinare il solvente con le erbe mediche per ottenere soluzioni curative o con la polvere da sparo per avere una maggior scorta di munizioni? O forse sarà meglio tenere con sé degli psicofarmaci che ci facciano trovare i vari oggetti nascosti per la casa?
Il gameplay in questo caso si fa estremamente interessante, soprattutto se teniamo conto del fatto che le armi non sono poi così potenti (si parte con un coltello, si recupera una pistola, poi un fucile e poco altro, poche armi ma con un buon sistema di mira) e che le scelte riguardo il nostro equipaggiamento si fanno fondamentali per la nostra sopravvivenza. Specie perché i nemici si fanno anche più ostici di quanto non sembri all’inizio.

Biohazard

Ma gli elementi classici della saga non finiscono qui: è vero che quanto detto finora in termini narrativi, ci riporta, come detto, ai film horror anni’80, e si è indotti a pensarlo fino a un certo punto del gioco. Fino a quando poi d’improvviso si apre una porta e – puf! – ci si ritrova in ambienti più familiari ai classici Resident Evil e, soprattutto, dinanzi a personaggi più consoni a quanto ci ha abituato la seria. Proprio in questo contesto si trovano gli ulteriori nemici, i Molded (o Micomorfi), creature possenti, mefitiche e catramose con le quali bisognerà fare i conti in parallelo ai Baker, e che ci daranno ulteriori indizi riguardo quel che sta dietro la storia di questo Resident Evil.
Dal punto di vista grafico sono fra gli elementi più pertinenti del gioco, essendo realizzati da dei make-up artist che li hanno assemblati utilizzando modelli composti con carne vera per poi riportarli su schermo tramite la fotogrammetria.

I denti non bastano

Ma se i Micomorfi sono fra i risultati più felici di questo capitolo, lo stesso non può dirsi per gli altri elementi, almeno sul piano del design. Alla domanda di Kotaku sul perché i denti dei personaggi umani di Resident Evil 7 risultino così perfetti, il produttore Masachika Kawata ha risposto che questa è dovuta anche in questo caso ai miracoli della fotogrammetria (e al fatto che gli attori avessero bei denti, ovviamente). Viene da chiedersi allora perché il risultato riguardo la definizione dei volti e dei corpi non presenti risultati egualmente soddisfacenti, così come si può dire per gran parte degli ambienti di gioco e degli oggetti imbracciati da Ethan, i quali presentano una definizione minimale e un numero di poligoni ridotto all’essenziale, alcuni movimenti sembrano mancar. L’unica spiegazione che siamo riusciti a darci è che il lavoro sulle texture non volesse essere troppo elaborato per non stressare esageratamente il VR della PS4, che avrebbe forse potuto risentire di un livello di definizione troppo alto. Anche perché c’è da aggiungere che il RE Engine non dà praticamente alcun problema, anche indossando il casco della realtà virtuale l’esperienza risulta fluida, godibile ma soprattutto immersiva come poche.

Virtual Horror

E qui veniamo a uno dei punti più felici di Resident Evil 7: Biohazard, il quale ad oggi si è rivelato il vero banco di prova per la nuova generazione VR appena lanciata da Sony (la quale, c’è da dirlo, ha il merito di essere la prima a rendere accessibile la realtà virtuale agli utenti). Pur risultando un ottimo gioco anche nella versione standard, è innegabile che questo RE7 su visore dia il meglio di sé: trovarsi in quegli ambienti oscuri, ostili, in cui un non piacevole ignoto può trovarsi sempre dietro l’angolo instilla già ansia e paura davanti a un televisore, figurarsi a trovarsi totalmente dentro una simile esperienza e con delle cuffie alle orecchie. Certo, se dal punto di vista del design denotavamo alcune mancanze nella versione su schermo, su VR tutto ciò peggiora, i difetti che normalmente passano inosservati saltano all’occhio (parti di ambientazione grossolanamente tagliate, definizione che si fa ancora più scarsa negli ambienti non chiusi, etc.) e anche nell’utilizzo di alcuni oggetti (dalla cornetta mal posizionata quando si parla al telefono al modo in cui si rompono le casse etc.) le imprecisioni grafiche non sono poche. Certi difetti sul piano visivo non sono da poco, ma questa tecnologia è agli albori e certamente le software house devono ancora prendere le misure. D’altro canto, l’esperienza di gioco giova tantissimo del surplus che il VR può dare in termini di atmosfera e immedesimazione, sublimando la visuale in prima persona propria del gioco, amplificando il senso di terrore e tensione ad ogni passo nella tenuta, rendendo ancora più vividi gli scontri coi nemici e valorizzando l’impianto narrativo dell’opera. Non è da poco il dato che, come riportato da ResidentEvil.net, su 660.000 utenti iscritti al sito oltre 63.000, quasi il 10% degli utenti, avrebbero utilizzato il PlayStation VR.
L’esperienza risulta totalmente immersiva, restituendo ancor più il meglio di quanto l’ambientazione e la scrittura di questo capitolo possono dare e questo si prospetta essere il vero trampolino di lancio per un gaming sulla realtà virtuale che non potrà far altro che crescere negli anni.

Il Male Residente

Tirando le somme, non si può non accogliere positivamente questo Resident Evil 7: Biohazard. Il ritorno a un luogo conchiuso, una vecchia villa nido e ricettacolo di un male inenarrabile è stata una scelta più che positiva, punto di partenza di un’opera che racconta l’orrore senza far leva su facili scarejump, con gran dignità di genere sul piano narrativo, ottima giocabilità, soddisfacente e adeguata longevità (circa 12 ore), basata su meccanismi della tensione sottili, le cui atmosfere ansiogene compensano pienamente gli svariati difetti sul piano grafico e una colonna sonora azzeccata per far da cornice al quadro.
Non è un caso che le vendite stiano già dando ottime risposte a Capcom riguardo un gioco ottimo in entrambe le versioni, che ha in più il merito di essere la vera prima “killer application” della nuova generazione VR, quella che Sony sta portando nelle case dei giocatori. E anche solo per questo Resident Evil 7: Biohazard merita già un suo posto di riguardo nella storia dei videogames.