Diversità nei videogiochi: ci interessa davvero?

Le ricerche di mercato ricoprono un ruolo decisamente importante all’interno dell’industry videoludica, proprio come in moltissimi altri settori: conoscere le opinioni e i gusti del grande pubblico è di fondamentale importanza per sapere cosa vorrebbe, cosa sta andando bene e cosa no, cosa va cambiato o mantenuto, per fornire insomma una bussola agli operatori di un settore su ciò che i consumatori preferiscono.
Una tematica oggi non poco importante è quella della diversità gender, e la società di ricerche di mercato britannica Ipsos MORI, assieme a ISFE (Interactive Software Federation of Europe), ha condotto un’indagine riguardo a come come questa viene percepita dagli utenti all’interno dei videogame, prendendo un campione di giocatori, con preferenze di piattaforme varie e di età compresa tra gli 11 e i 65 anni, provenienti da Regno Unito, Francia, Spagna e Germania.

Riguardo l’affermazione «i videogiochi di oggi includono o meno una diversa gamma di personaggi», il 43% degli interpellati si è trovato d’accordo, contro il 10% che ha affermato il contrario, mentre il resto del campione si è espresso come indifferente o non informato sul tema.
La questione invece «i videogiochi dovrebbero includere maggior diversità tra i propri personaggi» ha ottenuto invece il 33% di assenso, il 14% di dissenso e uno spiazzante 53% composto da indecisi. Dei risultati simili sono stati ottenuti da statement come «avere più personaggi diversificati mi porterebbe a una migliore esperienza di gioco» e  «incoraggerebbe più persone ad iniziare a giocare».

È stato inoltre chiesto ai partecipanti al sondaggio quali gruppi vorrebbero che fossero meglio rappresentati all’interno del media: molti hanno votato per una maggiore partecipazione femminile (30%), ma un 14% sembra essere contraria all’idea; quando si è parlato di minoranze sul piano etnico, la situazione è andata perfino peggiorando: il 24% è d’accordo con un’eventuale maggiore presenza di personaggi di minoranze etniche o di colore contro un 20% di dissensi. Due affermazioni hanno persino ottenuto più dissensi che consensi, precisamente la presenza di più personaggi LGBTQ (tema da noi già trattato più volte in articoli come questo), con un 20% pro e un 22% contro, e il fatto che «avere personaggi di tipi diversi invoglierebbe di più all’acquisto» con un 26% di dissensi contro un debole 22%.
Ciò che è più sconcertante di quest’indagine non è tanto quella che pare essere una chiusura di non pochi partecipanti nei confronti del diverso, ma il fatto che la stragrande maggioranza abbia sempre risposto in modo neutro, con disinteresse verso la questione e poca volontà di approfondire la tematica, come se non riguardasse direttamente o risultasse addirittura scomoda.
L’abbiamo detto innumerevoli volte, ma vale la pena ripeterlo: il videogioco è ormai un mezzo di intrattenimento di massa, ed è prodotto artistico ormai al pari dei libri, del cinema, della musica e della tv. Più un simile frutto della creatività umana si espande e prende piede, più sarà probabile trovarne uno che rappresenti al meglio la nostra situazione come singoli individui o come minoranze all’interno della società; giochi come Overwatch o Mass Effect sono dei buoni esempi di rappresentatività e di integrazione della diversità nei character che possono essere di ispirazione per chiunque vorrà produrre qualcosa di “integrante” in futuro, dalla casa super famosa al più umile degli sviluppatori indipendenti. Ma i primi a chiedere che questo avvenga dobbiamo essere noi.




L’incredibile crescita degli eSport

Il 2018 ha visto continuare la marcia inarrestabile degli eSport, sotto ogni punto di vista: se sul lato commerciale risaltano i grandi numeri ottenuti dalla prima edizione della Overwatch League, con quasi undici milioni di spettatori dichiarati da Blizzard per la finale del campionato e 126 milioni di visualizzazioni in totale sul proprio canale Twitch, non sorprendono nemmeno le cifre da capogiro dichiarate sul lato finanziario: l’industria del videogioco professionistico ha guadagnato quasi un miliardo di dollari in quest’anno, con una previsione di crescita del 18,6% per il 2023, che porterebbe l’intero settore a un guadagno di ben 2.17 miliardi!

Ma non è tutto rose e fiori: recentemente, il CIO, lo stesso Comitato Olimpico Internazionale che precedentemente si era espresso a favore degli eSport come disciplina olimpica da testare nei giochi asiatici del 2022, ha frenato esprimendo il proprio dissenso verso i cosiddetti killer games. A tal proposito, il presidente Thomas Bach ha dichiarato:

«Non possiamo avere nel programma olimpico dei giochi che promuovono violenza e discriminazione. Dal nostro punto di vista rappresentano una contraddizione dei valori olimpici e non possono essere accettati»

Una dichiarazione che chiude le porte ai vari League of Legends, Dota 2 e Fortnite, ma vi è invece, uno spiraglio aperto per giochi più “pacifici” come FIFA, Rocket League o Street Fighter. E anche per uno sport che cerca di entrare nel carrozzone olimpico da molti anni, come la Formula Uno: recentemente Sean Bratches, direttore commerciale del brand motoristico, ha espresso il proprio interesse per includere lo sport, anche se in forma virtuale. Vi è già un campionato di eSport, la Formula One eSport series che, nella stagione inaugurale del 2017 ha richiamato 63.000 appassionati che hanno seguito nove delle dieci scuderie presenti nel campionato motoristico (unica e grandissima assente l’italiana Ferrari).

Anche in Europa si sta muovendo qualcosa: se già Francia (prossima partecipante alla Overwatch League con la squadra di Parigi), Spagna e Russia (dove spopolano titoli come DOTA 2 e Counter Strike: Global Offensive) possono contare su un settore già pronto, come si pone il nostro paese nel mercato? In realtà, non molto bene, nonostante la creazione di alcuni eSport team dedicati a FIFA, come Sampdoria (primo club calcistico italiano a lanciarsi nel settore), Roma, Empoli e recentemente anche Cagliari, Perugia e Parma. Ma hanno destato interesse le recenti dichiarazioni al Corriere dello Sport del patron del Napoli e del Bari, Aurelio De Laurentiis, interessato a entrare nel settore degli sport virtuali. Per quanto possa sembrare strano l’interesse di un imprenditore così importante, soprattutto nel nostro paese, non sorprende vedere grosse aziende dietro una squadra di eSport: basti pensare al gruppo Kraft, proprietari dei New England Patriots, una delle più vincenti squadre di football americano della NFL e proprietari anche dei Boston Uprising della Overwatch League, oppure la Kroenke Sports & Entertainment, holding che controlla sia l’Arsenal, popolare squadra di calcio della Premier League, che i Los Angeles Gladiators, sempre della OW League.
Con questa potenza economica dietro, non sorprende vedere la crescita del settore, anno dopo anno. E chissà, magari entro il 2023, si creerà qualcosa di importante anche nel nostro paese: d’altronde, lo sport non è solamente prestanza fisica, ma anche una girandola di emozioni uniche, esattamente come i videogiochi.




10 punti a favore della battle royale

La Battle Royale è, nel 2018, il genere dominante; con i suoi milioni di player è sicuramente la tipologia di videogame più giocata al momento grazie a titoli quali Fortnite e Playerunknown’s Battlegrounds, e ai numerosi epigoni che ne sono nati. Molti ne hanno fatto già oggetto di polemica, molti li vedono come il male, come materia di consumo, ma in realtà hanno apportato vari benefici e hanno molto da insegnare. Vi diamo dieci motivi per cui il genere fa bene a tutti, developer e non.

1. Puoi essere punito

Nessuno avrebbe pensato che un gioco dove 99 volte su 100 si perdono i progressi acquisiti sul campo avrebbe avuto successo: qui, dopo aver sudato sul farming, si può perdere tutto anche con un minimo sbaglio. I Battle Royale ci insegnano le conseguenze degli errori punitivi.
Negli ultimi anni, gli sviluppatori hanno tentato di allontanare i giocatori da qualsiasi fattore negativo: in Overwatch il kda (rapporto uccisioni/morti/assist) è sostituito da medaglie ricevute attraverso le azioni fatte dal giocatore.
Invece, titoli quali PUBG, ti sbattono in faccia il fallimento. Ma è proprio questo che riporta i giocatori a fare delle partite, la voglia d’imparare e di dominare sugli altri. Il fallimento, spinge i giocatori a migliorare le proprie abilità così da poter abbattere qualsiasi avversario. E non poi tanto diverso, sia sul mercato videoludico che nella vita, no?

2. Free to Play > gioco a pagamento

Uno dei fatti più importanti riguardanti il genere è la lotta per la ribalta tra due giochi che dominano la scena del genere: PlayerUnknown’s Battlegrounds, titolo di fascia di prezzo media che è stato surclassato sei mesi dopo dalla versione F2P (free to play) di Fortnite. Nonostante sia stato rilasciato dopo il titolo di Bluehole, il gioco di Epic domina oggi in termini di utenti.
Affiancato a molti fattori che hanno portato al successo di Fortnite, il più grande contributo al successo del gioco è stata la mancanza di un costo. Avendo visto questa dinamica in giochi famosissimi come League of Legends e Hearthstone, è ormai palese che il modello F2P rende di più, se ben utilizzato. Buon per gli utenti che possono giocare gratis, e bene per gli sviluppatori che imparano a farne tesoro.

3. La qualità è tutto

Vero, quel che è gratis si può fruire facilmente. Ma questo non vuol dire che non importi la qualità Un altro fattore dominante di Fortnite è come si è gestito dopo il lancio. Il titolo di Epic è stato costruito su basi più stabili, essendo appoggiato a un gioco già esistente. La software house è stata in grado di aggiornare il loro gioco con maggiore attenzione e frequenza a quel che volevano i giocatori: una maggiore varietà di gameplay e skin da poter acquistare. Nel frattempo, PUBG , d’altro canto, ha faticato per colpa del “peso” del titolo, i numerosi bug ecc ecc, lasciando la propria fanbase infastidita e col tempo meno propensa a giocare al loro gioco.
Visto che i giochi diventano sempre più qualcosa di routinario, l’ampliamento e la variazione dei contenuti permette un aumento di giocatori e il loro mantenimento all’interno del gioco, e gli sviluppatori lo sanno: un gioco che vuole lunga vita, deve avere un alto livello qualitativo.

4. SKIN SKIN SKIN

Tutti i F2P incassano i soldi tramite piccole transazioni estetiche, cappelli, magliette, animaletti ecc. Nel caso di Fortnite, il titolo ha portato a una vera è propria “skin mania”: dobbiamo ricordare che il titolo di Epic Games ha raggiunto il primo posto sull’App Store proprio in tema di transazioni.
L’ampia vendita di skin e oggetti vari è dovuta al fatto che i giocatori (specie i più costanti) vogliono differenziarsi gli uni dagli altri in combattimento. All’interno di Fortnite, le skin migliori si ottengono tramite il pass battaglia (che costa 10 euro). Ovviamente, anche qui la qualità è fondamentale: più le skin saranno belle, più bello sarà il gioco. Un vantaggio per i giocatori, che avranno elementi estetici più belli, e per i developer, che incasseranno di più.

5. Modder al lavoro!

All’inizio del decennio, sembrava che la scena indie sarebbe stata la fonte di una nuova aria di rinnovamento per l’ambiente videoludico grazie alle nuove esperienze e a nuove tipologie di giochi.
In pochissimo tempo la scena dei modder è diventata il fulcro di creazione di generi (ricordiamo la nascita dei MOBA). All’interno del settore vengono sperimentate molte idee, quindi se una mod attira pubblico arriveranno altri titoli dello stesso genere o spin-off, con l’idea che si modifica e migliora. La prima mod della Battle Royale è comparsa nel 2012 su Minecraft (Hunger Games), impiegando cinque anni per diventare ciò che conosciamo oggi attraverso una manciata di modder che hanno avuto un ruolo chiave. Qui è dove i giocatori si fanno sviluppatori. Che meraviglioso inno alla creatività.

6. L’evoluzione del genere è rapida

Una volta che un gioco è stato rilasciato e il predecessore è surclassato, c’è l’inevitabile reazione dello sviluppatore “indignato”, che farà di tutto per denigrare il nuovo titolo. Tuttavia, è facile perdere la cognizione di ciò che sta realmente accadendo: la rapida evoluzione di un genere.
Mentre la battle royale ha visto sei anni di perfezionamento dalla parte mod, solo negli ultimi mesi abbiamo visto la reale trasfigurazione del genere.
È in momenti come questi che dobbiamo ricordare che, quando i developer della metà degli anni novanta iniziarono a elaborare le meccaniche per quello che oggi conosciamo come sparatutto in prima persona, i loro lavori furono soprannominati inizialmente come “cloni di Doom“. E un genere nasceva, fino a diventare uno dei più importanti del mondo videoludico come lo conosciamo.

7. Crossplatform ovunque

L’utilizzo di più piattaforme di gioco è sicuramente un enorme vantaggio. Il successo di PUBG e di Fortnite ha portato questi titoli dal PC alle console sino al mobile con un successo impressionante.
I controlli virtuali dei telefono touchscreen sono sempre stati molto imprecisi e troppo “meccanici” ma, grazie al fatto di aver mutuato l’utilizzo dei controlli da titoli cinesi come Arena of Valor, sia Fortnite che PUBG sono riusciti ad avere versioni mobile abbastanza giocabili.
Inoltre, il crossplay di Fortnite consente ai giocatori di qualsiasi piattaforma di giocare con chiunque vogliano. Epic sta quindi guidando, simbolicamente, un’armata per poter distruggere il muro protettivo che divide le piattaforme di gioco, a vantaggio di tutti.

8. La Battle Royale fornisce aneddoti infiniti

Una delle caratteristiche uniche della battle royale è la possibilità di poter creare aneddoti infiniti: «sai, una volta in una partita di PUBG ho fatto un salto mortale con la moto uccidendo 2 persone».
Questo succede grazie all’inserimento di 100 giocatori all’interno di una partita, creando dunque milioni di possibili futuri. Si hanno delle interazioni intenzionali ma impreviste vista l’impossibilità di sapere come risponderà l’altro giocatore.
Paragonati ai Battle Royale, i MMORPG, sono completamente devoti a quello che i progettisti hanno creato per loro: l’esperienza di due giocatori che si scontrano in un raid è spesso simile. Invece, giochi come Fortnite si liberano dai percorsi “base” dando spazio ai giocatori, al fato e alla creatività di quest’ultimi.

9. Potere agli Esport

Con il genere Battle Royale è molto difficile creare qualche torneo su ampia scala ma, ricollegandoci a quanto detto nel punto 8, la grande variabilità di gameplay spinge i due re del genere alle prime posizioni di Twitch, battendo anche il colosso League of Legends.
Con un pubblico giornaliero medio di 15 milioni di utenti, Twitch è diventato una risorsa importante per i giocatori. Ed è proprio questa “pubblicità” gratuita che ha permesso a titoli come Fortnite di crescere così rapidamente. Infatti, Epic stessa ha scritto una grande lettera agli streamer e ha offerto loro una competizione con un montepremi da 100 milioni di dollari. La crescita degli Esport è importante per il mondo dei videogame, che può usufruire oggi anche del riconoscimento del Comitato Olimpico. Non poco per la dignità del settore.

10. Il gioco è ora la cultura pop

Da Drake su Twitch ai calciatori inglesi, il successo di Fortnite ci ha dimostrato che ormai i videogiochi sono un riflesso della cultura pop. Durante la “Pac-Mania” degli anni ’80 e la breve iconicità di Lara Croft negli anni ’90, sembrava che i giochi fossero qualcosa di passeggero. Oggi pare che i media più diffusi vogliano affrontare temi videoludici allo stesso modo della musica, del cinema, della TV o della stampa. Con ogni anno che passa, i videogiochi diventano sempre più mainstream all’interno della cultura generale.
Oggigiorno i videogiochi non sono la più fruiti soltanto da una piccola parte del mondo: ormai sono usati per intrattenere e sono posti allo stesso livello dei film o della musica. I videogiochi sono adesso cultura pop!




Nahar Comics & Games 2018

Il 5 agosto 2018 si è svolta la seconda edizione di Nahar Comics & Games presso il Palazzo Malfitano di Naro, bene storico costruito durante il XV secolo, al quale gli organizzatori si sono ispirati per creare per la propria città un’originale versione a tema medievale della fiera del fumetto che si tiene da anni in molte altre città italiane.
Entrando dal portone sul lato ovest del palazzo, superando la biglietteria, si accedeva subito all’arena medievale del gruppo La Fianna, dove tra le ore 10:00 e le 20:00 era possibile sfidarsi in tornei di spade e in gare di tiro con l’arco, mentre accanto vi era un’area caffè allestita dalle Maidolls, Maid Cafè che mischia la cultura giapponese con lo stile vittoriano ormai molto in voga nelle fiere di settore.

Inoltrandosi nel castello si poteva accedere al primo piano per arrivare all’area gaming allestita dai Not Found ASD, dove molti hanno potuto giocare a noti esport come Overwatch, Fifa 2018, League of Legends e, dalle 16:00 in poi, hanno potuto sfidarsi in tornei di Tekken 7, Fortnite e Hearthstone.

Dall’altro lato dello stesso piano si trovava invece l’area conferenze, dove l’artista Daniele Procacci, forte di un’esperienza decennale in varie Accademie di Belle Arti, ha illustrato le sue tecniche di concept art per il cinema, e i migliori modi per dare vita a creature e mostri che possano ispirare un copione.

Restando invece nel corridoio e uscendo dalla porta a sinistra, si poteva accedere a un giardino con l’area espositiva allestita dal falconiere Gianfranco Guarino, dove era possibile osservare un falco pellegrino, un gufo e un barbagianni, addestrati per essere tenuti in mano o accarezzati.

Sotto il giardino vi era un’area palco, dove si è tenuta la conferenza con lo youtuber MrPoldoAkbar che ha spiegato come hanno avuto origine e come si sono diffuse le memes, e il cosplay contest.

Proseguendo oltre l’area palco vi era l’area illustratori, dove era possibile farsi fare dei disegni su misura, mentre nella stanza accanto, in un’area dedicata ai giochi da tavolo, allestita dalla fumetteria Kalòs Games & Comics, era possibile giocare a boardgame e cardgame come Callisto Uno, sfidarsi in un torneo di Yu-Gi-Oh! o comprare action figure e manga.

Proseguendo, nella stanza accanto vi erano vari stand, da quello dedicato alla vendita di gadget per nerd a uno a tema Harry Potter a uno dove si poteva acquistare il Bubble Tea e dei dolci confezionati giapponesi.

Nonostante alcuni problemi tecnici in area conferenze, e un temporale che ha causato l’interruzione della gara di cosplay, che è stata in seguito ripresa, e vinta da Martina Campo con la rappresentazione di Esmeralda de Il gobbo di Notre Dame, la fiera del fumetto narese è stata una bella esperienza e pensiamo che nelle prossime edizioni possa solo migliorare.




Diversità e inclusività: il nuovo corso di EA

La FIFA eWorld Cup 2018 disputata a Londra dall’1 al 4 Agosto si è conclusa con la vittoria del saudita Mosaad ‘Msdossary’ Aldossary su Stefano Pinna. Il più importante torneo di FIFA 18 ha raccolto quest anno più di 20 milioni di partecipanti provenienti da tutto il mondo tra qualificazioni, play-off e finali. EA non può che essere fiera dei numeri ottenuti e, con l’arrivo di FIFA 19 a Settembre, non potrà che fare di meglio: un momento perfetto per cercare di ampliare ancora di più la propria fetta di pubblico, no?

Ed è proprio ciò che pensa  Brent KoningFIFA Competitive Gaming Commissioner, confidando nell’idea del gioco come qualcosa di semplice e accessibile a tutti: dal gamer professionista, all’appassionato di calcio, a chi si sta approcciando per la prima volta a entrambe le cose. Il brand è tra i più conosciuti nel mondo dei videogiochi e questa fama porta la conseguenza di dover mantenere standard abbastanza alti, che sia EA intesa come azienda o come i prodotti che rappresenta, per mantenere gli sponsor e sopratutto il pubblico soddisfatti. E quale modo migliore per farlo, di questi tempi, se non dimostrarsi favorevoli all‘integrazione?  È un percorso che in realtà EA ha iniziato a seguire più o meno dai tempi di FIFA 16, quando aggiunse per la prima volta il calcio femminile; una buona mossa, ma forse non ancora abbastanza: il torneo di quest’anno ha riunito giocatori da ben 60 nazioni, ma ancora nessuna ragazza tra i finalisti. Inutile assumere che le donne non sappiano giocare a livello competitivo, non quando si è ormai creata una, seppur piccola, realtà tutta al femminile all’interno di tornei come quelli di Overwatch, Starcraft II  e Counter Strike: Global Offensive. Anche se negli ultimi anni il calcio femminile è cresciuto sotto tutti i punti di vista, l’idea che una donna possa approcciarsi a uno sport considerato per tradizione maschile, sia reale che digitale, non è ancora ben vista dal pubblico videoludico.
Ma Electronic Arts è stata ed è ben disposta ad accettare giocatori di qualsiasi sesso, etnia ed età, e questo sicuramente fa contenti tutti. Di questi tempi, se un’azienda si mostra favorevole su temi “delicati” come quello dell’integrazione femminile ed etnica, non solo mantiene una buona immagine davanti alle masse, ma attira come una fiamma con le falene tantissimi sostenitori di quella causa, pur non essendo (non tutti almeno) interessati al prodotto, per non parlare di chi vive quelle situazioni sulla propria pelle.  Così facendo il produttore vince, ma anche i potenziali ed effettivi clienti, perfino chi ne sente semplicemente parlare. Un punto anche favore dei videogiochi come media, in un mondo che tende a generalizzare e a vederli come qualcosa di pericoloso e deviante.
FIFA 19 rappresenterà l’occasione buona per vedere un po’ di rosa ai prossimi campionati mondiali? O i tempi devono ancora maturare?

 




Fortnite “cannibalizza” utenti da altri titoli

Il successo di Fortnite è stato accolto bene anche da compagnie come EA, Activision Blizzard e Take-Two, le quali ritengono che il gioco attiri nuovi giocatori sul mercato videoludico invece che rubare i loro (giocatori).
Ma secondo una ricerca di Superdata ci sarebbero di indizi di «materiale cannibalizzazione dei migliori franchise» e che quindi il titolo di Epic Games stia in realtà danneggiando il successo di giochi del calibro di  League of Legends, Counter-Strike: Global Offensive, e Overwatch.
Superdata ha anche notato che il pubblico di questi giochi generalmente guarda anche altri giocatori in streaming su Twitch, in termini di visualizzazioni possiamo osservare che nei mesi di aprile, maggio e giugno c’è stato un incremento del 59% per Fortnite, paragonato al -19% di  League of Legends, al -51% di CS:GO e al -16% di Overwatch.
Inoltre  la ricerca ha messo in risalto che le vendite di titoli digitali  su console hanno subito un duro colpo a causa di Fortnite.
Le vendite digitali totali per console, in questa ricerca definite come un combinato di titoli premium e free to play per Playstation e Xbox, sono salite al 49% nel giro di un anno, rispetto al secondo trimestre del 2017 ,afferma Superdata, e le vendite di questo trimestre sono salite dall’1 al 7% per lo stesso periodo rispetto allo scorso anno. Non considerando gli incassi generati da Fortnite sul controllo il quadro cambia di molto. Senza Fortnite le vendite totali digitali per console nel secondo trimestre 2018 calano del 6% rispetto allo scorso anno.

 




EA Sports: ed è di nuovo polemica sui sistemi di looting nei videogiochi

Nonostante le recenti polemiche dei consumatori riguardanti le loot-box, Daryl Holt, vice presidente di EA Sports, secondo un’intervista rilasciata per la nota rivista online gamesindustry.biz, ha affermato che il loro modello, adottato per l’acquisizione di loot-box, sia ineccepibile.
Fino a quando non si verificarono problemi con le loot-box di Star Wars Battlefront II, questo “meccanismo” non era mai stato molto criticato, come per FIFA, in cui è fortemente presente un sistema di “lootaggio”, tranquillamente alimentato dagli acquisti online dei giocatori.

Daryl Holt, ai microfoni di gamesindustry.biz durante il Gamelab Barcellona, dice infatti:

«È un tipo di gioco differente, è questo l’aspetto che devi approfondire quando parliamo della scelta del giocatore come parte del nostro mantra “prima il giocatore“. Gli viene semplicemente data la scelta su come vogliono competere. Posso guadagnare loot-box in FIFA Ultimate Team semplicemente giocando. Posso anche batterti se hai una squadra migliore, perché sono migliore di te a FIFA, io non mi preoccupo di quello che è il mio punteggio come squadra.»

Ma in ogni caso, la polemica nata per i “bottini” di Battlefront 2 ha alzato un polverone, facendo anche dubitare della sostenibilità del modello di “looting” adottato da EA.

«Il nostro modello è assolutamente sostenibile. Certamente ha cambiato il nostro modo di fare, quando sentiamo informazioni dagli altri giocatori o dall’industry, nel modo in cui tutti reagiamo e ci adattiamo a esso. Per esempio, la divulgazione delle probabilità di vincita dei pacchetti nei nostri giochi EA Sports è una cosa molto importate, così possiamo avere una comprensione totale al riguardo, come comunichiamo, come ci occupiamo del servizio dal vivo e come testiamo le cose e implementiamo il feedback su tutti i prodotti. Per quanto riguarda EA Sports e Ultimate Team, la modalità di looting è molto popolare: funziona come dovrebbe e offre ai giocatori la possibilità di giocare nel modo in cui vogliono giocare, il che ritengo sia prezioso finché riusciamo ad assicurarci che non sia un danno per la fruibilità del gioco.»

Ma il punto di vista di EA sulle loot-box, nonostante tutto, rimane in contrasto con quanto stabilito dalla Commissione per il gioco d’azzardo belga, che ha accusato aspramente tale meccanismo, indipendentemente dal valore reale degli oggetti o dalla possibilità di scambiarli al di fuori del gioco. Tutto ciò è una violazione della legislazione sul gioco d’azzardo.

In seguito a questa decisione, EA ha risposto, affermando:

«Crediamo fortemente che i nostri giochi siano sviluppati e implementati eticamente e legalmente in tutto il mondo.»

Holt sostiene che il loro sistema di looting non sia in alcun modo equiparabile al gioco d’azzardo:

«Sai cosa potresti ricevere, hai informazioni dettagliate su quello che acquisti; non è affatto un gioco d’azzardo. Oltretutto  non esiste una valuta reale per i pacchetti acquistati in gioco. C’è una netta disconnessione tra ciò che viene detto, ciò che viene chiesto e ciò che viene pensato, rispetto a ciò che accade realmente nel settore. Non sappiamo cosa potrebbe accadere in futuro; possiamo solo continuare a proporre la migliore esperienza per i nostri giocatori.»

Indipendentemente da ciò che EA crede sia o non sia gioco d’azzardo, la Commissione per il gioco d’azzardo belga, ha stabilito che il sistema di looting adottato, viola la legislazione e che alla fine, verranno prese contromisure. Per ora, il ministro della giustizia belga Koen Geens, si incontrerà con le parti interessate del settore, per iniziare un dialogo. Peter Naessens, direttore della Belgian Gaming Commission, ha recentemente dichiarato in una intervista di gamesIndustry.biz:

«Prenderemo tutte le misure preparatorie per la stesura dei rapporti di polizia, ma di certo non sarà “domani”. Deve passare un certo lasso di tempo per il Ministro della Giustizia.»

Insomma, la situazione non è delle più rosee riguardo tutte le software house che hanno ormai adottato il meccanismo di looting. EA probabilmente è solamente la prima a finire nell’occhio del ciclone  e, probabilmente, ne seguiranno altre. Anche Activision, per esempio con le “casse rifornimenti” dei suoi ultimi Call of Duty, che permettono di trovare armi uniche e più potenti, di certo non è da meno. Sono del parere che il sistema di loot-box non sia del tutto deleterio, purché non vada a intaccare il portafoglio. Sarei più propenso a un sistema meritocratico del meccanismo delle “casse premio”, in questo modo, chi gioca molto o gioca bene avrebbe veramente meritato il riconoscimento e non chi ha più fondi sul conto. A meno che, come per Overwatch, le casse non diano altro che oggetti di valore puramente estetico senza influire sulla giocabilità del titolo.




42: Quando il videogioco si fa duro

Noi tutti siamo a conoscenza della trasposizione cinematografica di molti videogiochi che, tra alti e bassi – soprattutto questi ultimi – hanno contribuito a fornire una visione diversa del mondo del gaming. Sono migliaia le trasposizioni in diverso formato, tra fumetti, romanzi e… porno. Esatto, proprio lui. Inutile far finta che non esista: una delle industrie più grandi al mondo non poteva esimersi dalla sua visione del gaming, rendendo videogiochi preferiti, eroi ed eroine dei nostri sogni, entità su cui il nostro occhio si posa con maggiore attenzione. Queste vere e proprie parodie sono dei concentrati di trash allo stato puro, un modo per divertirsi in allegrie e allenare uno dei due arti superiori. Del resto la notizia che la nostrana Valentina Nappi parteciperà all’adattamento hard di Final Fantasy VII, interpretando Tifa, non è che l’ultima trovata di un settore in piena espansione.

La fine di Sirio il Dragone

Se esiste “X”, allora su Internet esiste pornografia basata su X. Se non esiste ancora, verrà creata. Questa è in sostanza la regola numero 34 di Internet, ed è davvero difficile da controbattere. Basta fare un giro su alcuni siti tematici – non vi diciamo che dovete farlo, ma che potete – per accorgersi di quante versioni amatoriali e non di un determinato prodotto esistano, a cominciare appunto da quello videoludico.
Diciamoci la verità su: tutti noi, sia maschietti che femminucce, abbiamo fantasticato su alcuni celebri personaggi. Basti pensare a Miranda Lawson di Mass Effect 2 e al suo “lato B”, o la giunonica Lara Croft e l’ammiccante Bayonetta, per passare dall’indimenticabile Mai Shiranui e delle tante poco vestite combattenti dei vari Tekken o Dead or Alive. Tutte loro – metterei qualche personaggio maschile, ma preferisco lasciar decidere voi donne – sono entrate nei nostri desideri più reconditi, trovando na naturale traslazione nel porno.
Era il lontano 1993, e il primo film a luci rosse che vagamente parodiava un videogioco fu Prince of Persia, con protagonista Tanya Summers alla ricerca delle perle, simbolo di autorità, in grado di far riunire il proprio paese divenendo così regina. Ovviamente, del gioco Ubisoft non vi è nulla, ma è stato un primo tentativo di sfruttamento del brand. La storia avrà un lieto fine e potete immaginare tranquillamente voi stessi come farà a ottenere le sue preziose perle.
E Super Mario? Immancabile. Super Hornio Brothers è uno delle poche parodie pornografiche a esser ufficialmente riconosciute, avendo anche a disposizione una pagina ufficiale IMDB e Wikipedia. In questo film abbiamo niente meno che Ron Jeremy interpretare Squeegie Hornio che, insieme a suo fratello, dovranno salvare la Principessa Perlina (Peach) dalle grinfie di King Pooper (Bowser). Come da tradizione, Nintendo ci mise del suo, acquisendo i diritti di distribuzione (è assolutamente vero), rendendone impossibile la pubblicazione. Visto la sua rarità dunque, è considerato il Sacro Graal dei collezionisti, non solo di film porno, ma di quelli Nintendo.
Ma non poteva mancare nemmeno Grand Theft Auto, che con Vice City Porn ha reso disponibile la verità celata dalle auto molleggianti.

Venendo ai giorni nostri

Di pari passo con l’evoluzione dell’industria videoludica, anche quella pornografica si è data da fare. Prima o poi le mani non potevano che posarsi su Tomb Raider e sull’iconica Lara Croft, regina di tutte le fantasie sconce dei ragazzini da 20 anni a questa parte. Tante sono state le parodie, ma una si è distinta per qualità: Tomb Raider XXX: A Exquisite Films Parody del 2012, con Chanel Preston nei panni della protagonista, accompagnata da un cast d’eccezione come Nicole AnistonKagney Linn Karter ed Evan Stone. Lara farà di tutto per sconfiggere la Natla Technologies e recuperare i tesori perduti. Detta così sembra perfino meglio dell’ultimo lungometraggio con Alicia Vikander.
Anche in tempo di guerra si trova tempo per “sfogarsi” e nel 2012 arriva un titolo che è tutto un programma, Call of Booty: Modern Whorefare (i titoli sono la cosa migliore). Anche CoB vanta un cast di tutto rispetto, Flower Tucci, Bobbi Starr e Gracie Glam anche se un po’ tutto molto casareccio. Insomma, anche qui vi è semplicemente uno sfruttamento del brand. Niente a che vedere con Cock of Duty: A XXX Parody, di casa Brazzers, con Monique Alexander, Jasmine Jae e Stella Cox, accompagnate da Danny D che, da ora in poi sarà protagonista di questo articolo.
Quando si ha voglia si possono sfornare piccole chicche di qualità, e Brazzers su questo fronte è in prima linea. Cominciamo con la parodia di Overwatch, uno dei brand maggiormente sfruttati, in cui Aletta Ocean nei panni di Widowmaker sfiderà sino all’ultima goccia di sudore un fortunato Reaper, interpretato da Mr. Danny D. Brazzers, che con questo Oversnatch, ha realizzato i sogni di moltissimi fan; è una tendenza, quella del colosso del porno, che si sta facendo sempre più marcata, producendo parodie di tutto ciò che riguarda la sfera nerd. Continuando abbiamo anche Metal Rear Solid: The Phantom Peen, parodia dell’ultimo lavoro Kojima in casa Konami. Boss (Charles Dera) e Hushy (Casey Calvert), se le daranno di santa ragione, realizzando tutte le fantasie della sexy cecchina e, infine, un piccolo capolavoro: stiamo parlando di  The Bewitcher: A DP XXX Parody prodotto da Digital Playground, per festeggiare i 10 anni del brand. Ella Hughes, Olive Glass e Clea Gaultier, insieme all’ormai immancabile Danny D, saranno chiamati a ridar vita a un villaggio desolato, nella sola maniera che la natura ci ha insegnato. Geralt of Vulvia ci saprà fare, quasi quanto la sua versione originale. 

Come potete aver capito, il mondo videoludico è ormai transmediale, sempre sulla cresta dell’onda  e con milioni, se non miliardi di fan in giro per il mondo. Basta unire dunque l’utile al dilettevole, l’industria pornografica sta semplicemente prendendo la palla al balzo, sfornando sempre più parodie dei titoli più famosi. Di materiale ce n’è in abbondanza: Assassin’s Creed, Mass Effect e Dragon Age, Life is Strange, God of War e tanti altri. Aspettiamo dunque di vedere cosa sfornerà la geniale e perversa mente del mondo a luci rosse.




Ritirarsi dagli eSport a 24 anni

Come citato da Engadget, dopo 11 anni di attività, Matthew “Burns” Potthoff si è ritirato da player professionista di Call of Duty ad appena 24 anni. Oggi, due anni dopo il ritiro, lavora dietro le scene per eUnited, una squadra di eSport con giocatori professionisti di Call of Duty, Counter-Strike: Global Offensive, Gears of War, Smite e Playerunknown’s Battleground.

Fa strano sentire di un player professionista che si ritira a questa giovane età: negli sport tradizionali, come il calcio, siamo abituati a sentire di ritiri dal professionismo dopo i 35, o 40 anni. Eppure negli eSport, settore nato da poco, ma in grandissima espansione, tanto da ricevere grossi investimenti e apprezzamenti da figure storiche del gaming, come John Romero, e addirittura da parte del CIO, il comitato olimpico internazionale, il ritiro di Potthoff fa notizia. Com’è possibile ritirarsi dalle competizioni in giovane età? Ce lo spiega proprio lui, raccontando la sua storia.

Gli inizi di Matthew sono umili: il padre lo accompagna al suo primo torneo nel 2005, in una piccola esibizione per giocatori di Halo e Call of Duty. Burns ha partecipato a entrambi i tornei, riuscendo a vincere pure un premio, ma di entità inferiore a quanto pubblicizzato, e quindi il genitore sentenziò che gli eSport erano una truffa.

Tredici anni fa, la situazione del professionismo videoludico era molto diversa rispetto a quella che conosciamo adesso: nonostante piccoli tornei già attivi sul suolo americano, mancava la scintilla che avrebbe acceso la miccia degli eSport. Ci toccherà attendere quattro anni per l’exploit mondiale di League of Legends, e addirittura sei anni per il primo torneo milionario di Dota 2. Sei anni che ci separano pure dalla nascita di Twitch, fattore fondamentale per la crescita di questo settore.

Ma Potthoff aveva fiutato il potenziale del pro gaming, e cominciò a partecipare sempre a più tornei possibili, fino a vincere un free-for-all nazionale di Modern Warfare 3, portando a casa ben 25.000 dollari.
A proposito del suo iniziale approccio al professionismo, Burns ha dichiarato:

«Penso che molti giocatori possano capirmi: ai tempi usavo i videogiochi come uno strumento per sfuggire dalla dura realtà. I miei genitori si erano appena separati, e vivevo tra la casa di mia madre e quella di mio padre, e l’unico modo che avevo per non perdere i contatti con i miei amici era quello di giocare online insieme. Dopo qualche anno ho notato che avevo del talento, e che a scuola parlavano tutti di quanto fossi forte. Ma nonostante la creazione di DeathWisH, il mio team, ho deciso che era meglio accantonare il mondo degli eSport e concentrarmi sul college: solamente dopo essermi laureato in economia dell’intrattenimento ho deciso di ritornare a tempo pieno nel campo del gaming professionistico.»

Anche qui, sembra che il destino abbia compiuto un cattivo scherzo al ragazzo: solamente nel 2014, due anni dopo aver preso la laurea, è stata introdotta la prima borsa di studio dedicata agli eSport, a cura della Robert Morris University. Solamente due anni dopo sarebbe nata la National Association of Collegiate eSports, un ente che riconosce e gestisce programmi di eSport in più di 60 college americani e che punta a diventare l’equivalente videoludico dell’NCAA, la lega collegiale americana di sport come basket e football.

«Cos’avrei fatto se la scena professionistica di allora fosse come quella odierna? Probabilmente avrei lasciato il college per dedicarmi agli eSport al 100%. Dico così perché allora i salari erano molto inferiori rispetto a quelli odierni: quando avevo 21 anni guadagnavo circa 500 dollari al mese ed ero costretto a vincere tornei per portare il cibo in tavola. Adesso ci sono ragazzi di 16 o 17 anni che guadagnano quanto guadagnavo a 21 anni, e hanno tutto il tempo per migliorare le loro abilità.»

La questione dei salari merita un approfondimento: l’industria degli eSport è in crescita e si sta stabilizzando, con giochi di prima fascia come League of Legends oppure Overwatch dove sono stati istituiti i salari minimi per i giocatori professionisti, rispettivamente a 75.000 dollari per il MOBA di Riot Games e 50.000 dollari per il titolo di Blizzard. Però non sono tutte rose e fiori, e anche un sistema in rapida crescita presenta delle discrepanze: infatti Call of Duty non garantisce un salario minimo e non ha le stesse regole dei due giochi citati in precedenza.

All’epoca anche la CWL Pro League, il campionato mondiale di Call of Duty, era strutturato in un modo diverso: veniva usato un sistema simile ai campionati calcistici europei, con promozioni e retrocessioni, dove la squadra con più punti partecipava ai mondiali, dove il premio consiste in 1,4 milioni di dollari. Era lo stesso sistema usato da League of Legends e Overwatch, almeno fino allo scorso anno, dove sono stati introdotti i salari minimi – come citato prima – ma soprattutto, il passaggio dai team a veri e propri franchise, adottando quindi un modello simile a quello che si vede sui parquet dell’NBA o negli stadi della NFL.
Anche a causa del sistema non al passo con i tempi della CWL, Potthoff, ha deciso di ritirarsi, dopo la sconfitta decisiva per 4-3 in un’entusiasmante duello tra gli H2K e il suo team, i Liquid.

«Vincere quella serie avrebbe rilanciato la mia carriera, oltre che aumentato il mio stipendio. Avrei potuto vivere tranquillamente per 8-9 mesi, ma è andata male, e non c’era un torneo da disputare per 4-5 mesi. Avevo pure smesso di giocare, perché la ferita era troppo profonda. Ho riprovato a tornare in carreggiata con un paio di tornei dove sono arrivato tra i primi 24 e i primi 16, ma lì ho capito che non c’era più niente da fare, e quindi ho appeso il pad al chiodo.»

Burns aveva deciso di mollare la vita da pro-player, ma non quella del mondo che ha amato per anni: a 26 anni, nel 2016, entra in eUnited prima come head coach e adesso ricopre la carica di general manager, dove si occupa dello sviluppo e del recruiting di molti giocatori giovani.
A proposito di quest’incarico, Potthoff dichiara:

«Abbiamo anche reclutato quattro giocatori minorenni, ma non metterò mai gli impegni del team prima dei loro obblighi, come scuola e famiglia. Ma ci stiamo impegnando per renderli dei veri professionisti: personalmente penso che siano già a un buon livello, e la loro giovane età li mette in un’ottima posizione, visto che sono gli unici giocatori minorenni della comunità professionista di Call of Duty, e vogliamo dare il giusto input per far partire la loro carriera da pro-players, così come loro vogliono mettercela tutta per riuscirci.»



Come la fortuna viene implementata nei videogiochi

16 settembre 2007: uno youtuber giapponese, che rispondeva al nome di Computing Aestetic (oggi lo stesso canale si chiama Is mayonnaise an instrument?), caricò un video di 48 secondi dal titolo ULTRA MEGA SUPER LUCKY SHOT. Il video mostra il raggiungimento di un high score a Peggle, un gioco molto popolare vagamente ispirato al Pachinko in cui una palla viene sparata dall’alto e piano piano scende giù rimbalzando fra alcuni blocchi; più blocchi vengono colpiti più alto sarà il punteggio. Nonostante Peggle richieda al giocatore giusto qualche calcolo prima del lancio della palla, il gameplay vero e proprio è affidato al caso e il fatto che dei blocchi vengano colpiti o meno è solo questione di fortuna. La run di Computing Aestetic fu una delle più miracolose: la pallina, scendendo, non solo colpì gran parte dei blocchi ma richiamò anche una sezione bonus che gli permise di racimolare un punteggio da record. Incredulo, lo youtuber scrisse nella descrizione del video, che a oggi conta oltre le 200.000 visualizzazioni, «I couldn’t balieve this when it happened!!!!!!!!!» (Ndr).
Questo è solamente uno dei circa 20.000 video su YouTube che include i tag “Peggle” e “Lucky“, tutti video di giocatori così stupiti da voler condividere la loro fortuna col mondo. Tuttavia, i giocatori non sono così fortunati come il gioco spinge a credere. Jason Kapalka, uno degli sviluppatori del titolo, ci spiega come la fortuna, specialmente durante i primi livelli, venga manipolata giusto un po’ per evitare la frustrazione del giocatore nel breve periodo, e soprattutto perché possa imparare le regole del gioco divertendosi.

«L’apperente rimbalzo casuale della pallina in Peggle è spesso manipolato per dare ai giocatori un risultato migliore. […] Quando viene richiamato il “Lucky Bounce”, la palla tende a colpire di più blocchi possibili anziché cadere direttamente nelle zone morte. Questa fortuna extra è aggiunta nella prima dozzina di livelli affinché i giocatori si divertano imparando le regole del gioco. […] L’angolatura del rimbalzo viene modificato giusto di qualche grado, perché altrimenti la palla reagirebbe in maniera poco realistica; serve a incoraggiare i novizi e non a rendere il gioco “irreale” agli occhi dei giocatori più increduli».

La fortuna è in realtà manipolata da un game designer onnipotente: esso fa sì che un gioco regali al giocatore la giusta dose di vittoria al momento giusto. Anche Sid Meier, creatore dell’acclamata saga Civilization, ha capito che ridurre in una certa misura le avversità durante le battaglie riduce anche lo stress nei giocatori. Un test ha dimostrato che un giocatore che sapeva di avere il 33% di successo in battaglia, è riuscito a perdere per tre volte di fila, rendendolo alterato e incredulo (in Civilization puoi ripetere la stessa battaglia più volte, fino a quando non vinci, anche se ciò comporta dei costi a ogni sconfitta). A quel punto Sid Meier studiò più da vicino le distorsioni cognitive dei giocatori: se le probabilità di vittoria sono 1 su 3 è come se il gioco assicurasse che al terzo tentativo il giocatore vincerà la battaglia, dandogli dunque una falsa speranza. La fortuna di certo incentiva il gameplay ma se è troppa, diventa tutto surreale.

Dalla divinazione agli scacchi

In tempi antichi, la fortuna era il segno dell’intervento divino: i giochi erano un modo per mettere alla prova sia le abilità umane che l’esistenza divina. Platone ci ha raccontato che la fortuna era una componente fondamentale nei giochi dell’antico Egitto, luogo in cui fu creato, secondo la leggenda, il dado da gioco per mano della divinità Thot. Solitamente ricavato da ossa o zoccoli di animale, il dado veniva usato per i giochi da tavola o per una particolare divinazione mistica chiamata astragalomanzia; l’aiuto divino era così decisivo che molti dei dadi venivano portati nella tomba affinché il defunto potesse ricevere un ulteriore aiuto nell’aldilà.
Nel XI secolo, il re norvegese Olaf II Haraldsson si ritrovò in una disputa territoriale con il re svedese riguardo l’isola di Hising; non riuscendo a trovare un compromesso, il re della Norvegia si affidò ai dadi per risolvere la questione. Ottenendo per due volte il numero sei, il re Haraldsson disse che non c’era più motivo di continuare la disputa; convertitosi al cristianesimo, era certo che Dio l’avrebbe aiutato a ottenere sempre il 12. Olaf II, racconta ancora la leggenda, continuò a ottenere tale numero fino a quando, durante l’ultimo e decisivo lancio, uno dei dadi si spezzò mostrando sul tavolo due 6 e un 1; questo è uno dei motivi per cui il 13, in alcuni paesi, è spesso considerato un numero fortunato.
A ogni modo la fortuna, anche se non è più un segno divino, è ancora parte dei giochi moderni; così come un lancio dei dadi o la pesca di una carta probabilità a Monopoly può ribaltare le sorti della partita, lo sviluppatore indipendente Zach Gage ha introdotto l’elemento aleatorio nel gioco degli scacchi nel suo Really Bad Chess. Gage spiega che il gioco nella sua concezione originaria è molto bilanciato, e tutto risiede nelle abilità del giocatore; pertanto l’elemento della fortuna aiuta i giocatori meno capaci a capire le meccaniche e far sì che siano invogliati a giocare più a lungo. La sua app mobile del 2016 dà infatti al giocatore la possibilità si avere un set di cinque regine, sistemare le pedine in maniera asimmetrica e far sì che il giocatore più esperto giochi solo con un esercito di pedoni e un re. Zach Gage commenta:

«(queste aggiunte) danno ai giocatori più deboli almeno una chance contro i giocatori più esperti, rendendo la scacchiera più difficile da analizzare».

Dai giochi elettromeccanici ai videogiochi

Nei giochi elettromeccanici come le slot machine o i flipper, la fortuna è l’unico modo per “fregare” la macchina. Negli primi anni ’50 la Gottlieb, compagnia produttrice di giochi elettromeccanici e sviluppatori del classico arcade Q*bert, notò che le partite a flipper dei giocatori meno esperti duravano pochissimo; di lì a poco introdussero prima le alette per rispedire la palla in alto e poi il meccanismo “ball saver” che innalzava un muro fra queste. Il fatto che quest’ultimo entrasse o meno era questione di fortuna, un “mistero” celato nell’algoritmo del software.
Nei videogiochi la fortuna è in realtà ancora più evidente: vi siete mai chiesti come mai il portiere della vostra squadra preferita a FIFA riesce a parare la palla il più delle volte? Come mai quando siete fra le ultime posizioni in un racing game le auto avversarie sembrano rallentare? E ancora, anche se è cosa risaputa, come mai una volta una volta in testa a Mario Kart raccogliete solo banane, monete e qualche rarissimo guscio verde? Questo è perché “l’effetto fortuna” vi tiene concentrati e incentiva il vostro gameplay. Se veniste a conoscenza di questo fattore non giochereste con la stessa intensità; è giusto che tutto ciò rimanga un mistero poiché la fortuna è tale solamente quando è imprevedibile.

Nei tempi antichi gli artefici della fortuna venivano invocati tramite le preghiere; oggi è possibile trovarli su LinkedIn. Paul Sottosanti, uno dei principali game designer della Riot Games che ha lavorato a League of Legends, afferma che lo scoprire i meccanismi della fortuna nei videogiochi potrebbe distruggere ogni senso di gioia e realizzazione, dunque è importante che questi rimangano celati (più a lungo possibile) nel codice del gioco. Nei videogiochi si innesta spesso quello che Sottisanti chiama “Pity Timer“: il giocatore potrà ottenere una determinata ricompensa, per esempio, dopo 10 ore di gioco e ciò rende quest’ultima un risultato ancora più apprezzabile. In Castlevania Harmony of Despair, un “metroidvania” multiplayer con elementi RPG, ogni personaggio, al termine della battaglia col boss, riceveva un oggetto; su internet giravano mappe e FAQ che spiegavano dove e al termine di quale battaglia si potevano ottenere. Ma per quanto si “boostasse” il livello di fortuna, nelle statistiche del personaggio gli oggetti rari apparivano solamente al termine di un countdown nascosto; una volta scaduto il conteggio sarebbe entrata in aiuto quella determinata caratteristica del personaggio e la fortuna avrebbe davvero influenzato l’occorrere di un oggetto raro.

 

La fortuna per gli sviluppatori

Se in alcuni titoli la fortuna dà un senso di equilibrio nella difficoltà, ci sono altri giochi in cui questo fattore aleatorio genera profitto. L’arrivo degli smartphone e dei diversissimi titoli gratis sugli store hanno segnato anche l’inizio dell’era delle microtransazioni e delle lootbox; il “pity timer” all’interno di questi giochi è spesso sviluppato in maniera molto intelligente. In Hearthstone, spiega sempre Paul Sottosanti, è possibile ottenere una carta rara ogni 40 pacchetti circa; tuttavia, le stesse carte, sono acquistabili sullo store del gioco.
Il principio delle microtransazioni e lo spingersi oltre la “normale routine” è in sé un concetto non nuovissimo. Il dottor Burrhus Skinner, negli anni ’50, ha dimostrato come un essere senziente possa essere condizionato da una macchina; per farlo, si munì di degli animali, come topi o piccioni, e di una sua particolare invenzione, ovvero la Skinner Box. In pratica ha mostrato come questi animali, ricevendo una ricompensa ogni volta che un tasto fosse premuto, si stancassero o fossero subito sazi; tuttavia il dottore, programmando la ricompensa in maniera casuale, mostrò come l’animale fosse più incline a premere il tasto, tenendolo concentrato sull’azione sino a risultarne quasi dipendente. Questa dipendenza non era dovuta tanto alla ricompensa, ma al tasto. Il rilascio della dopamina nel cervello, che (mantenendoci in un linguaggio alla portata di tutti) manda i neurotrasmettitori in tilt, è dovuto all’attesa della ricompensa, e non all’ottenimento della stessa. Lo stesso principio, in realtà, accade con questo tipo di giochi: vi siete mai accorti, per esempio, delle lunghe animazioni prima di aprire unalootbox su Overwatch? Il cervello rilascia dopamina durante le animazioni e anche se otteniamo la solita ricompensa per l’ennesima volta il principio rimane. Nei videogiochi però si aggiunge il fatto che, per evitare la solita ricompensa dopo ripetute run, si è invece spinti a ottenere una ricompensa diversa, prima dello scadere del pity timer, pagando una somma di denaro. In questo caso, si potrebbe innescare il meccanismo “Sunk Cost Fallacy“: in poche parole, più soldi si investono in un gioco, in attesa della ricompensa desiderata, più sarà difficile abbandonarlo nonostante gli output poco soddisfacenti e le aspettative che calano. È la stessa cosa che avviene al casinò o persino in una relazione amorosa molto complicata: più è alto l’investimento e più è difficile smettere nonostante gli output siano semi nulli. Tuttavia non si può parlare di gioco d’azzardo in ciò che riguarda i videogiochi poiché, anche se si investissero 50 € per un set di lootbox, riceveremmo sempre qualcosa in cambio, a differenza del casinò dove si può invece uscire praticamente con le tasche vuote; il problema sta sempre e solo nell’aggirare quel maledetto algoritmo della fortuna.
È importantissimo dunque mantenere il controllo in quei giochi in cui la fortuna è il fulcro della dinamica. Lo psicologo Clark Edwards, direttore del centro della ricerca sul gioco d’azzardo dell’Università della British Colombia, spiega più in dettaglio certi meccanismi del nostro cervello e in quale zona finisca parte della dopamina:

«La parte interessata del cervello che regola la ricompensa e il movimento è lo Striato, dove ci sono diversi nuclei cerebrali. […] La stessa regione alimenta i vizi, che sono ovviamente collegati alle dipendenze».

Il futuro della fortuna

Nonostante l’ambiente videoludico sia cambiato drasticamente, ci sono molti game designer hanno tentato più volte di “eliminare la fortuna”. Larry DeMar, un noto designer di macchine flipper della Williams, ha tolto più volte il meccanismo “Ball Saver“, pensando da sempre che questo rovini la purezza del gioco.
Tuttavia, l’approccio purista non sempre convince il giocatore medio. Jason Kapala, lo sviluppatore di Peggle, dice che oggi i giocatori cercano tracce di manipolazione quando queste non ci sono. e ha persino pubblicato alcuni file per dimostrare che i risultati erano veramente casuali, ricordando:

«Quando lavoravo ai giochi online era quasi impossibile convincere i giocatori che i risultati non erano manipolati. Questi elaboravano teorie assurde su come i principianti ottenessero migliori risultati per far sì che continuassero a giocare e i veterani spinti a migliorare le loro abilità ottenute.».

Il gioco è un mezzo  di confronto per gli esseri umani ed è anche corretto pensare che questo rimanga puro e inalterato; tuttavia, delle perdite ripetute o semplici capricci ci portano a pensare che la fortuna funzioni seguendo uno schema logico. Ma, alla fine della fiera: a cosa serve la fortuna? La risposta è: a tutto. E a niente.
Il tutto si baserà sempre sulle nostre abilità ma, che sia un algoritmo o un segno divino, la fortuna ci accompagnerà sempre nella nostra esperienza da giocatori.