GamePodcast #7 – Dagli State of Play ai Game Awards

Una settimana strapiena di eventi:
State of Play e il trolling;
Game Awards: chi ne ha azzeccati di più?
– Game Awards: ci sono piaciuti o no?
– Cosa stiamo giocando?
Tutto questo in compagnia di Marcello Ribuffo, Gabriele Sciarratta e Dario Gangi.




GamePodcast #5 – Dai Pronostici sui Game Awards al disastro Google Stadia

In questa puntata:
– I nostri pronostici sui Game Awards 2019;
– I titoli presentati ai Game Awards;
Google Stadia e i suoi problemi;
– Dove andrà il futuro del videogame?
Tutto questo in compagnia di Marcello Ribuffo, Gabriele Sciarratta e Dario Gangi.
Armatevi di auricolari e restate con noi!




L’evoluzione dei controller Pt.2 – gli anni 2000

I controller, dagli arcade alle console casalinghe, hanno fatto tanta strada, passando da controlli digitali a controlli analogici in grado di permettere movimenti a 360°. Quali altre sorprese attendevano i giocatori al volgere del millennio? Controller di precisione assoluta, con un design futuristico e funzioni all’avanguardia? Vediamolo insieme in questo nuovo articolo a continuazione del primo che vi invitiamo a leggere prima di questo.

La generazione 128-bit – la generazione X

Sega, dopo il fallimento del Saturn in Nord-America ed Europa, era decisa a lanciare una nuova macchina da gioco che spezzasse totalmente col passato e per farlo aveva bisogno anche di un controller che offrisse ai giocatori un nuovo modo di giocare i titoli SEGA. Il bianco controller del Dreamcast, che si rifaceva al 3D Pad del Saturn, non sembrava affatto un prodotto SEGA: la disposizione a sei tasti frontali fu abbandonata in favore del layout a rombo, dunque con quattro colorati tasti frontali come PlayStation e Super Nintendo, ma con i classici trigger analogici del precedente pad. Questo controller è in definitiva molto comodo, più piccolo rispetto al suo antenato, anche se non risulta il massimo per lunghe sessioni di gioco: al di là della strana scelta di far passare il cavo dalla parte bassa del controller e non da sopra, fu montata una levetta analogica convessa che, in assenza di una gommina come nel Dual Shock, scivola facilmente dalla pressione del pollice del giocatore, soprattutto quando la mano comincia a sudare dopo lunghe sessioni di gioco; in aggiunta a tutto questo, qualora ci serva, il controller del Dreamcast monta una croce direzionale rialzata, realizzata con plastica durissima e stranamente “iper-spigolosa”, un calvario per chi vuole giocare con gli eccellenti picchiaduro ospitati nell’ultima console SEGA. Tuttavia il nuovo controller per Dreamcast presentava anche due slot, quello frontale indicato per inserire la VMU, ovvero una piccola memory card dotata di un piccolo schermo a cristalli liquidi; non tutti i giochi sfruttarono questa caratteristica (molti giochi mostravano semplicemente il logo del gioco in esecuzione) ma altri invece, come Skies of Arcadia e Sonic Adventure 2, riuscirono a creare una sorta di interazione col gameplay in corso. Nell’altro slot i giocatori avrebbero potuto inserire  il Rumble Pack, più indicato visto che, nonostante possa accogliere una seconda VMU, non è possibile vedere il secondo schermo. Nonostante tutto, parte dell’abbandono dello sviluppo su Dreamcast è dovuto in parte anche al controller: che possa piacere o meno, la verità è che il controller presenta soltanto sei tasti quando PlayStation 2 e Xbox ne presentavano otto e dunque, ammesso che fosse possibile fare dei porting dedicati per Dreamcast, era impossibile per la console accogliere dei giochi che sfruttassero più comandi di quelli previsti. Il controller per Dreamcast non è assolutamente pessimo ma sicuramente SEGA avrebbe potuto fare di meglio.

Cos’è? È un meteorite? Un aquila? Un U.F.O.? No! È il cosiddetto “Duke“, il controller originale della prima Xbox! Questo titanico controller, all’apparenza, sembra presentare un layout a rombo come quello PlayStation o Dreamcast (vista anche la vicinanza fra SEGA e Microsoft in quel preciso periodo) ma in realtà, presenta invece il layout a sei tasti simili ai controller di Mega Drive e Saturn ma disposti in verticale! Non tutti capirono questo sistema e il tutto risultava abbastanza scomodo e poco risoluto. Il controller fu nominato “errore dell’anno 2001” da Game Informer,  ma Microsoft aveva un asso nella manica: il “Duke” fu messo in bundle con la console in tutto il mondo con l’eccezione del Giappone. Per quello specifico mercato Microsoft disegnò un controller che potesse meglio accomodare le più piccole mani dei giocatori giapponesi e così, su richiesta dei fan, il “Duke” fu presto sostituito dal migliore controller “S“. Con questo controller, il cui nome in codice era Akebono (fu il primo lottatore di sumo non giapponese a raggiungere il rank di Yokozuna), i giocatori ebbero in mano un controller veramente di qualità anche se non poteva essere considerato realmente uno dei migliori: fu scelto un più semplice layout a rombo preciso, come quello del DualShock, ma i tasti “bianco” e “nero” finirono in basso a destra dal set principale (i tasti colorati), rendendo il tutto poco comodo, specialmente quando quei tasti servissero immediatamente. I giocatori Xbox dovevano ancora attendere una generazione affinché ricevessero uno dei migliori controller mai realizzati. Il “Duke” però, fra amore e odio, lasciò comunque una qualche traccia nel cuore dei giocatori, tanto che l’anno scorso Hyperkin rilasciò una riproduzione ufficiale di questo strano controller per PC e Xbox One!

In questo rinascimento dei controller anche Nintendo decise di sperimentare con il joypad da lanciare con la successiva console. Il controller per il GameCube è all’apparenza molto strano ma una volta fatto il callo con le prime sessioni di gioco ve ne innamorerete! Il controller si accomoda perfettamente alla forma della mano, offrendo una saldissima presa, ma sarà l’anomala disposizione dei tasti la vera protagonista: al centro troveremo un bel tastone “A”, mentre alla destra, alla sinistra e al di sopra di questo tasto principale, ci saranno i tasti, rispettivamente, “B”, “X” e “Y”, tutti con una forma diversa. Questa scelta fu presa per permettere al pollice, impegnato principalmente col tasto “A”, di raggiungere tutti i tasti attorno, ma principalmente, secondo Shigeru Miyamoto, per permettere una migliore memorizzazione dei tasti del pad. Insieme a questi tre tasti ne troviamo tasti dorsali e una levetta “C” (in sostituzione dei tasti “C” del Nintendo 64) per un totale di sette tasti. Anche questo controller, come quello per Dreamcast, soffriva per un tasto in meno ma a differenza della sfortunata console SEGA, tramite alcuni stratagemmi, riuscirono ad aggiudicarsi dei buoni e gettonati porting dell’epoca anche con quello strano controller.
Più in là Nintendo produsse per GameCube il Wavebird, il primo controller wireless prodotto da un first party dai tempi di Atari. Il controller, che funzionava con le frequenze radio, mancava della funzione rumble ma risolveva in prima persona il problema dei cavi per terra, avviando così il trend, nella generazione successiva, di includere un controller wireless incluso con la console.
Un po’ come il DualShock, questo controller non ne ha mai voluto sapere di morire o passare di moda, tanto è vero che a tutt’oggi è considerato la quintessenza per giocare a qualsiasi gioco della serie Super Smash Bros.; a testimonianza di ciò esistono le “re-release” di questo particolare controller, nonché il Pro Controller PowerA (ufficialmente licenziato) per Nintendo Switch che aggiunge i tasti “home“, “” e “+” e un dorsale sul lato sinistro del controller (ovvero l’ottavo tasto mancante nell’originale).

“Se qualcosa funziona, non aggiustarla”: come anticipato nella prima parte, fu questa invece la filosofia di Sony per questa generazione. Il DualShock 2 rimase quasi lo stesso, implementando principalmente i tasti analogici per tutti i tasti frontali e dorsali, offrendo ancora più precisione del già precisissimo DualShock. PlayStation 2 è la console più venduta di tutti i tempi e un controller così funzionale è a testimonianza della qualità di questa superba macchina da gioco.

Eccellenza e motion control

Prima di introdurre il trend dei motion control, che molto caratterizzò questa generazione, vorremo prima ammirare il fantastico controller per Xbox 360. Questa volta Microsoft si superò consegnando una versione rivisitata del controller “S“, con una presa migliorata, un layout a diamante, permettendo al pollice di raggiungere i tasti con più facilità, quattro tasti dorsali come il DualShock, eliminando i tasti “bianco” e “nero“, e un bel “tastone” home che permetteva anche di avviare la console come un telecomando. La ciliegina sulla torta fu rappresentata dal jack per l’auricolare in bundle con la console in modo da connettere i giocatori online via chat vocale; una feature che diventerà obbligatoria dopo questa generazione. Questo controller diventò in poco tempo anche il controller non ufficiale della scena PC proprio per la sua incredibile versatilità e maneggevolezza e ancora oggi, per chi lo possiede sente il bisogno di acquistare la nuova versione per Xbox One, viene ancora utilizzato da moltissimi giocatori per PC di tutto il mondo. I primi controller in bundle con la console avevano la tendenza, dopo un po’ di usi, al drifting, ovvero un input fasullo dovuto ad alcuni residui di polvere del componente della levetta;  come la non compatibilità con gli HD-DVD e il “red ring of death“, il drifting fu il risultato della scelta di lanciare la console in fretta e furia ma fortunatamente tutti i problemi relativi ai primi lotti di console furono piano piano debellati, dunque anche i controller successivi al lancio, nonché quelli in bundle con i modelli “slim” e “S“, riscontrarono meno problemi di drifting.

Tuttavia, durante questa generazione non fu di certo questo controller a rubare la scena. Era il 2005, durante il periodo dell’E3, quando un trailer mostrò le capacità dello stranissimo controller per l’allora Nintendo Revolution (senza alcun video di gameplay, giusto per dare un ulteriore senso di mistero), in seguito divenuto Wii: la gente che lo utilizzava imitava azioni di ogni tipo, dal brandire uno spada e uno scudo, illuminare una stanza a mo’ di torcia, dirigere un’orchestra, ma anche azioni più comuni come tagliare ingredienti o pescare. In molti storsero il naso di fronte a questo controller a forma di telecomando ma la verità fu che il Wii Remote (o Wiimote) divenne ben presto, in un epoca in cui i tasti d’azione nei controlli erano otto (dieci se contiamo la pressione delle levette), un controller incredibilmente facile da utilizzare grazie ai suoi motion control. Persino genitori e nonni di tutto il mondo finirono per aver giocato, almeno una volta nella vita, a titoli come Wii Sport, Wii Play e molti altri titoli! Sebbene i titoli party erano quelli in cui era coinvolto più movimento, nonché i migliaia di titoli “shovel-ware” che finirono per riempire il catalogo dei giochi ufficiali Wii, non bisogna dimenticare titoli come The Legend of Zelda: Twilight Princess, Super Mario Galaxy, Metroid Prime 3, Mario Kart Wii, Disaster: Day of Crisis, Mad World o No More Heroes in cui il Wiimote aggiunse realmente un layer di profondità finora inesplorato. Il dominio motion control arrivò e tramontò col Wii ma è bene ricordare che fu un periodo molto particolare, tanto che arrivò a influenzare in un qualche modo anche la generazione successiva: ne sono ovvi esempi gli attuali controller DualShock 4 e Nintendo Switch, nonché il gamepad per Wii U (di cui parleremo più avanti).
Impatto a parte, cosa offre un Wiimote? In alto, insieme al pulsante power, troviamo un D-pad che, nonostante la strana posizione, funge perfettamente come un menù rapido in giochi come The Legend of Zelda: Twilight Princess e come metodo di controllo principale se utilizzato in orizzontale, diventando a tutti gli effetti un controller a là Nintendo Entertainment System visti anche i tasti “1” e “2” sull’altra estremità del controller, diventando un controller perfetto per i giochi platform 2D nonché gli stessi giochi per NES presenti nel catalogo della Virtual Console. Preso in verticale, esattamente sulla linea del pollice e indice troveremo un tasto grande “A” e un grilletto “B“, pronti immediatamente per l’uso mentre, sulla metà, troveremo invece i tasti home, “+” e “” (da questa generazione i veri sostituti dei tasti start e select); proprio sotto al tasto home, inoltre, vi è un piccolo speaker che riprodurrà alcuni effetti sonori dal gioco in esecuzione. Tuttavia un Wiimote, soprattutto se si vogliono giocare i giochi più belli, non è niente senza un Nunchuck, l’espansione naturale di questo controller: questa impugnatura offre al giocatore una buonissima levetta analogica e due ulteriori tasti, “C” e “Z“, sulla parte alta dell’impugnatura da premere con l’indice. I tasti effettivi, dunque sono sei (quattro se contiamo che “1” e “2” sono difficilmente raggiungibili in modalità Nunchuck), ma è chiaro che tutto ciò che viene a mancare viene compensato dai movimenti e dalle azioni da compiere, sia con il Wiimote che col Nunchuck, anch’esso parte dei motion control. Al lancio il Wiimote, che funge anche da puntatore (dunque un vero e proprio mouse), doveva includere sia accelerometro, che registra principalmente i movimenti, e un giroscopio che ne registra invece la posizione ma alla fine venne incluso solo il primo; più tardi fu rilasciato il Wii Motion Plus, un accessorio (una sorta di cubo) che ultimò definitivamente il controller per questa generazione aggiungendo il giroscopio, ma in seguito i futuri Wiimote furono costruiti con entrambi i componenti all’interno, rinominando il tutto in Wii Remote Plus. L’esperienza dei controlli per Wii furono strani e, tutto sommato, passeggeri ma i motion control sono a tutt’oggi presenti, in misure più o meno incisive (ma sicuramente meno presenti) a seconda dei giochi, come in Splatoon 2 o Super Mario Odyssey.

Per il resto Nintendo offrì un ulteriore controller a otto tasti rinominato Classic Controller, simile a un controller per Super Nintendo, per giocare al meglio i giochi della Virtual Console, specialmente quelli post-NES. Il Classic Controller Pro, che aggiunse principalmente due maniglie (a là DualShock) per una migliore presa, fu invece il metodo principale per giocare a giochi come Goldeneye 007 (2010) o Samurai Warrior 3 (tanto che venne incluso in bundle), sottolineando invece come i motion control, spesso, risultavano superflui e quanto invece servisse un controller semplice per godersi al meglio alcuni titoli.

L’annuncio del Wiimote colse tutti di sorpresa e fra quelli c’erano anche i concorrenti Microsoft e Sony. La prima lasciò perdere totalmente, almeno per l’inizio, in quanto investire immediatamente avrebbe rappresentato un rischio inutile, senza contare il fare la figura dei copioni, e poi l’analizzare con pazienza il trend dei motion control avrebbe permesso lo sviluppo di un set più originale e avanzato; ovviamente stiamo parlando del Kinect ma qui eviteremo di parlarne in quanto, essendo, sì, un metodo di controllo ma non un controller vero e proprio, non c’è nulla da “tenere in mano” e pertanto rimanderemo questa conversazione a qualche altro articolo. Sony invece cominciò a correre ai ripari in quanto, nonostante le critiche mosse al Wiimote, i motion control erano visti come la prossima grande cosa. Inoltre in pochi sanno che Sony aveva il DualShock 3 pronto sin dal lancio ma una causa legale contro la Immersion Corporation, proprio per la feature del rumble, li spinsero a togliere la vibrazione in favore dei motion control per offrire qualcosa di nuovo. Il Sixaxis fu annunciato otto mesi dopo l’annuncio del Wii Remote e in molti videro uno strafalcione del concetto offerto da Nintendo; il tutto fu aggravato non solo dal fatto che durante l’E3 del 2006 Warhawk fu l’unico gioco per PlayStation 3 a mostrare le capacità del Sixaxis ma gli sviluppatori alla Incognito Entertainment si lamentarono del fatto che il controller Sony arrivò soltanto 10 giorni prima dell’evento. PlayStation 3 fu lanciata fra il 2006 e il 2007 (in Europa) e agli imbarazzanti prezzo di lancio fu incluso un controller sconclusionato, le cui motion feature venivano utilizzate pochissimo, senza vibrazione e anche troppo leggero (dunque prono alla rottura in caso di caduta). Ciò che è peggio è che Phil Harrison, l’allora presidente della Sony Worldwide Studios, ebbe da dire che il rumble era una feature obsoleta e che il motion control era il futuro (senza contare che il Wiimote, seppur senza giroscopio, aveva motion control e vibrazione). I problemi per Sony finirono fra il 2007 e il 2008 quando il più efficiente e iconico DualShock 3, che (come abbiamo scritto nel precedente articolo) implementò i grilletti e la tecnologia wireless con batteria al litio ricaricabile, sostituì definitivamente il Sixaxis, finendo così la motion-avventura per Sony… o così sembrava!

La tecnologia Sixaxis finì direttamente all’interno di PS Vita, mentre su PlayStation 3, intenti e decisi a rilasciare un vero e proprio motion control, Sony rilasciò il PlayStation Move. Nonostante ancora scelsero di copiare direttamente ciò che faceva Nintendo, il nuovo controller Sony risultò ben costruito ed ebbe, fra alti e bassi, un buon successo: nonostante i movimenti potevano sostituire l’ausilio di qualche tasto, furono inclusi tutti i tasti di un DualShock intorno al controller e i primi giochi dedicati al Move, che dovevano essere giocati con la nuova ridisegnata Eye-toy, mostrarono degnamente il potenziale di questi controller. PlayStation Move, durante l’era della PlayStation 3, non ebbe il successo sperato ma questi furono interamente implementati per l’utilizzo di PlayStation VR, e dunque ancora oggi utilizzati dai giocatori di tutto il mondo.

(Nota: il Sixaxis non è presente in questa galleria in quanto differisce soltanto per la scritta “DualShock 3” sul lato alto del controller. Al di là dei motion control, che ovviamente in foto non si vedono, i due controller sono esteticamente identici.)

La mid-gen e i controller odierni

Con Wii Nintendo riuscì ad avvicinare molti casual gamer allontanando però molti hardcore gamer che nel frattempo, intenti a provare il gaming in HD, si spostarono verso Xbox 360 e PlayStation 3. Wii U fu rivelata durante l’E3 del 2011 e con essa il proprio “tablet controller”. Dopo una creativa disposizione dei tasti su Gamecube e un accantonamento generale durante la precedente generazione, Wii U proponeva un ritorno alle origini con una disposizione di tasti più vicina al Classic Controller Pro per Wii, un giroscopio e un touch screen per, letteralmente, vedere i giochi da una prospettiva totalmente diversa; insieme a tutto questo fu incluso un microfono, degli speaker e una telecamerina sulla parte alta dello schermo, dando come l’impressione che fosse una specie di Nintendo DS fisso. Nonostante le premesse, in pochi riuscirono a immaginare realmente un utilizzo innovativo del touchscreen, col risultato che pochissimi giochi sfruttarono al 100% le sue caratteristiche, come Pikmin 3, Splatoon ma soprattutto Super Mario Maker; insieme al controller, ad affondare fu l’intero sistema in quanto i developer difficilmente trovavano un vero utilizzo per il tablet controller, ma ciò che è peggio è che il pubblico non capì realmente cosa fosse il Wii U (un’espansione del Wii? una nuova console? Ne parleremo qualche altra volta).
In tutta questa grande confusione, il nuovo controller non sembrava piacere a tutti: c’era a chi piaceva e c’era chi lo odiava, e fra quelli c’erano sicuramente gli hardcore gamer, proprio quelli che la compagnia di Kyoto sperava di richiamare a sé. Fortunatamente per Nintendo, che si assicurò in ogni caso di rendere i precedenti Wiimote compatibili per il nuovo sistema, lanciò con la console anche il più versatile Pro Controller, molto più simile a un controller per Xbox 360. La particolarità di questo controller, come per il tablet, sta principalmente nel fatto di avere le levette analogiche allineate, entrambi sopra la parte inferiore in cui vi è il D-pad e i quattro tasti principali; in tutto questo, come ormai tutti i controller di quest’epoca, vi sono quattro tasti dorsali di cui due trigger. Il Pro Controller fu indubbiamente una mossa verso la direzione giusta ma, come sappiamo, non bastò per far spiccare Wii U fra Xbox One e PlayStation 4 lanciate l’anno successivo. L’esperienza di Wii U, anche in ambito di sistema di controllo, fu di grande aiuto in seguito per coniare Nintendo Switch.

Il nuovo controller per la Xbox One è una vera e propria evoluzione del già ottimo controller per Xbox 360, riportando in auge tutto ciò che rese grandioso il precedente controller, migliorandolo in maniera esponenziale. In seguito, Microsoft rilasciò anche l’Elite Wireless Controller con la quale, grazie a un kit dedicato, è possibile personalizzare il proprio controller con tasti programmabili sul dorso e anche sostituire levette e D-pad, offrendo un grado di personalizzazione mai visto in ambito controller.

Sony invece, forse anche un po’ a malincuore, sostituì l’ormai vecchio design del DualShock con uno nuovo più rotondeggiante, moderno e realmente all’avanguardia. Insieme alle novità del touch pad, dei sensori di movimento correttamente implementati e il led sul dorso del controller, il nuovo controller della PlayStation 4 si adatta ai tempi moderni offrendo al giocatore un immediato tasto share con la quale è possibile caricare sui social network i momenti salienti del proprio gameplay. In quanto a precisione, il controller per PS4 ha un retaggio che va indietro sino al primo DualShock, il che è senza dubbio un sinonimo di garanzia in quanto qualità dell’immissione degli input di gioco.

La natura ibrida di Nintendo Switch ha invece portato al concepimento di un controller formato da due pezzi, simile nell’esecuzione al Wiimote e il suo Nunchuck ma ben lontano dal suo concetto interamente focalizzato nei motion control. I due Joy-Con, sia in modalità portatile che in modalità fissa, offriranno al giocatore la tipica disposizione a diamante ormai tipica dei controller Nintendo, mentre le levette, a differenza del gamepad per Wii U o del suo Pro Controller, stavolta si presentano disallineate per permettere tramite un solo set di Joycon la possibilità di giocare in due giocatori semplicemente tenendo il controller in orizzontale; in tutto questo i controller sono stati muniti di accelerometro, giroscopio e la nuovissima feature HD Rumble, un particolare tipo di vibrazione in grado dare un layer ancora più profondo di realismo (tipico è l’esempio delle biglie in 1 2 Switch). I Joy-Con, purtroppo, si sono resi protagonisti di uno spiacevole malfunzionamento, ovvero quello del drifting dopo circa un anno assiduo di gameplay ma Nintendo, per fronteggiare il problema, si è offerta di riparare i Joy-Con anche dopo il superamento della data di garanzia.
Nel caso voleste evitare il problema del drifting, nonché prendere in mano un controller più tradizionale, allora vi converrà passare al più preciso Pro Controller che offre le stesse feature dei Joy-Con (persino il riconoscimento degli Amiibo) ma con una presa decisamente più comoda e rilassata. In più è presente un D-pad in quanto scartata nei Joy-Con per permettere due pezzi perfettamente speculari e che si prestassero al gioco in due giocatori. Se non vuoi essere considerato un principiante a vita allora ti converrà passare al Pro Controller stasera stesso!

Futuro?

Finisce così la nostra strada che ci ha portato dai joystick ai joypad ma ovviamente, nonostante gli headset VR e chissà quali future diavolerie, i controller saranno destinati ad accompagnare per sempre il giocatore. Quali saranno le future innovazioni per i controlli? Come si controlleranno i videogiochi di prossima generazione? E in tutto questo: qual è il vostro preferito? Fatecelo sapere nei commenti!




L’evoluzione dei controller Pt.1 – Dal digitale all’analogico

Da giocatori ci concentriamo spesso su tanti aspetti dei videogiochi: grafica, artwork, sonoro, storia, contenuti extra e molto altro, ma ciò che li lega realmente è la giocabilità. E cosa detta la giocabilità? Qual è quella bacchetta che dirige quella sinfonia rappresentata dal gioco? Ovviamente è il controller, un accessorio fondamentale per godersi appieno gli infuocati gameplay di moltissimi videgame. Facendo eccezione della cara accoppiata “mouse e tastiera“, entità indissolubile dalle postazioni PC, daremo uno sguardo ai controller first party delle console con la quale sono stati lanciati, dalla comodità alle innovazioni apportate, nonché eventuali evoluzioni come il passaggio dal controller originale PlayStation al Dual Shock.

Dal Joystick al D-pad

In principio c’erano le arcade e i loro ingombranti cabinati diedero una soluzione tanto facile quanto intuitiva. Il piano di controllo presentava solitamente uno stick e dei tasti per eseguire delle azioni, come sparare in giochi come Berserk e Space Invaders o saltare in Donkey Kong. I videogiochi dei tempi erano molto semplici e spesso e volentieri era molto raro trovarne uno che usasse più di un tasto. Nonostante tutto, i primi produttori di console ebbero parecchia difficoltà a tradurre quel set di controlli in un qualcosa di casalingo e a basso costo (proprio per questi  motivi gli arcade stick, come il controller base del Neo Geo, costano parecchio). Il Fairchild Channel F, lanciato nel 1976, si avvicinò parecchio al set da salagiochi, incorporando direzione e azione (nonché anche rotazione) sullo stesso stick, ma fu il controller dell’Atari 2600, rilasciata l’anno successivo, a restituire più fedelmente l’esperienza arcade in quanto più semplice e intuitivo. Anche soltanto vedendo in fotografia si riesce tranquillamente a immaginare l’impugnatura del contoller: la mano sinistra finisce per gestire lo stick mentre la mano destra si occupa di tener saldo il controller e con il pollice premere il tasto rosso che si andrà a posizionare perfettamente sotto di esso. La semplice impugnatura permise a chiunque di capire come funzionassero gli all’ora nuovi videogiochi e furono mosse del genere che portarono l’Atari 2600 di diventare la più venduta macchina da gioco della cosiddetta seconda generazione di console. Lo stile “joystick” fu emulato immediatamente, come dimostrano i controller base per Magnavox Odyssey² (punto cardine del nostro ultimo articolo), Colecovision e Commodore 64, ma la vera sorpresa è che questo set, nonostante la rivoluzione del D-pad e delle levette analogiche (di cui ovviamente parleremo più avanti), è sopravvissuto fino a oggi, principalmente come flight stick usati solitamente nei simulatori di volo per PC.
Va inoltre ricordato che Atari fu anche la prima compagnia a offrire dei controller wireless (radio) first party; più in là vennero prodotti controller wireless per tutte le console ma fu solo tanti anni dopo, col Nintendo Gamecube, che una compagnia first party prese in considerazione di produrre controller wireless per la propria console.

Parallelamente allo stile “Joystick“, anche nelle arcade apparvero giochi che sfruttavano quattro tasti disposti a croce che in un qualche modo indicavano la possibilità di eseguire qualcosa di direzionato: è il caso di Vanguard, famosissima prima hit della SNK, la cui navicella pilotata poteva sparare in quattro direzioni (ricordiamo che è possibile provare Vanguard nella SNK 40th Anniversary Collection). Il controller dell’Intellivision (di cui parlammo nel nostro vecchio articolo delle impressioni a caldo dell’Intellivision Amico) anticipò il concetto del D-pad con il suo strano dischetto metallico girevole in grado di registrare ben 16 direzioni ma il risultato non fu dei migliori in quanto concepito come una sorta di sostituto dello stick, dunque messo in alto nel controller, e perciò risulto scomodo e poco intuitivo.
In Giappone intanto un giovane Gunpei Yokoi, tornando a casa dal lavoro, vide un signore giochicchiare sulla metropolitana con la sua calcolatrice tascabile spingendo tasti a caso. Da quell’immagine il geniale inventore visionò un videogioco che fosse portatile, tascabile e possibilmente costruito con la stessa tecnologia della calcolatrice. Quello che ne venne fuori furono i primissimi Game & Watch, la prima incursione di Nintendo nel campo dei videogiochi portatili (la prima in assoluto fu la MB Microvision) e questo stesso concetto si evolverà in futuro nello stravolgente Game Boy. A ogni modo, i Game & Watch presentavano spesso metodi di controllo sempre diversi, a seconda del gioco, ma fu nel 1982 che il D-pad, come vera e propria crocetta direzionale, fece la sua prima apparizione nel Game & Watch di Donkey Kong, appartenente alla serie Vertical Multi Screen (a sua volta, questi particolari modelli con due schermi, apribili a conchiglia, ispireranno invece la creazione del Nintendo DS… vedi un po’!).

I Game & Watch erano piccoli e la loro tecnologia poteva permettere soltanto gameplay semplici e passeggeri, perciò il D-pad, per quanto innovativo, non veniva usato costantemente per questi portatili. Fu invece col Famicom che il D-pad prese piede e divenne un punto di riferimento per tutti i controller a venire: lo stile “Joystick” fu messo da parte per il nuovo modello “Joypad” in cui il controller passò da una presa verticale a una orizzontale che permetteva i movimenti con il pollice della sinistra e le azioni, una in più rispetto al controller di Atari, con quello della mano destra. Nintendo stava per lanciare il Famicom con tasti quadrati e di gomma ma poco prima del lancio il design dei controller fu cambiato in favore dei più classici tasti rotondi e di plastica, da sempre i più indicati in quanto quelli in gomma sono proni al deterioramento e spesso finiscono per funzionare sempre con più difficoltà (gli stessi tasti start e select dei controller Nintendo pre-N64 finivano per deteriorarsi). Con questo design furono girate le primissime pubblicità del Famicom: notate bene la forma dei tasti.

I controller del Famicom fuorono saldati all’interno della console e nel secondo controller i tasti start e select furono scartati in favore del microfono, caratteristica poco utilizzata ma che comunque diede un certo grado di innovazione, tanto che fece ritorno molti anni dopo col Nintendo DS. Il Famicom arrivò qualche anno dopo in America, Europa e Australia col nuovo nome Nintendo Entertainment System: oltre al nome fu rinnovato l’aspetto generale della console, più simile a un dispositivo HI-FI da mettere nello stesso mobile in cui venivano messi videoregistratori, mangianastri e giradischi, e ovviamente i controller, stavolta staccabili, con i cavi che uscivano dal lato lungo alto dei pad (e non dai lati corti come nel Famicom), più tozzi, senza la feature del microfono e con un nuovo design più serioso e futuristico.

Questo modello fu subito imitato da SEGA e Atari con le loro console Master System, terzo re-design della serie SG-1000, e Atari 7800 che rimpiazzarono loro vecchi joystick con dei joypad (Atari lanciò i suoi nuovi joypad soltanto in Europa). Il design del D-pad Nintendo era (ed è a tutt’oggi) un marchio registrato così i concorrenti aggiunsero una specie di dischetto nei loro controlli direzionali, una buona soluzione per evitare ripercussioni legali da parte di Nintendo. I loro nuovi controller furono tanto comodi quanto la loro controparte ma, per quanto il tasto start fu incorporato nei tasti d’azione, per mettere in pausa il gioco bisognava avvicinarsi alla console per premere l’apposito tasto per fermare il gameplay se si voleva fare una capatina in bagno.

La generazione 16-bit

Ad aprire le danze per le console di nuova generazione fu NEC con il suo PC-Engine (o Turbografx-16 negli Stati Uniti). Il controller in bundle con la console non portava alcuna innovazione, il suo design era pressappoco identico a quello del Famicom/NES, ovvero una croce direzionali, due tasti azione e due tasti menù; tuttavia, a rendere unico questo controller erano le sue levette per regolare il turbo, feature solitamente trovata in molti controller di terze parti qui invece inserite in un controller first party, probabilmente l’unico in tutta la storia dei videogiochi.

SEGA Mega Drive, o Genesis in Nord-America, arrivò in Giappone nell’Ottobre del 1988. Con il rinnovato hardware arrivò un nuovo precisissimo e più grande controller: la croce direzionale fu incastrata in un dischetto e il controller presentò un tasto d’azione in più e un tasto start di plastica al di sopra della stringa dei tre; questo controller fu inoltre il primo ad abbandonare il design quadrato “a telecomando” in favore del più moderno e comodo design tondeggiante, decisamente più ergonomico.

Nel 1990 Nintendo rispose al Mega Drive con il Super Famicom, la loro nuova macchina 16-bit (per vedere tutti i risvolti della grande console war dei 16 bit vi consigliamo di leggere questo articolo). Come Sega, Nintendo accompagnò il nuovo hardware con un nuovo rinnovato controller: anche la compagnia di Kyoto optò per un design più curvo ma aggiunse alla stringa dei due tasti d’azione del Famicom/NES un ulteriore stringa di due tasti al di sopra della prima, avviando così il trend del layout a diamante/romboidale, il tutto un po’ più obliquo rispetto al precedente controller i cui due tasti erano perfettamente orizzontali; in aggiunta alla nuova stringa doppia vennero anche aggiunti i due tasti dorsali “L” e “R” posizionati sul bordo alto del controller dove poggiavano naturalmente le dita indice di entrambe le mani, offrendo così al giocatore un controller a 6 tasti molto intuitivo e per nulla complicato.

Nonostante SEGA fosse il leader del mercato, il Mega Drive aveva solo tre tasti d’azione, tre in meno rispetto al Super Famicom/Super Nintendo  e la loro mancanza si sentiva principalmente per i super popolari Street Fighter II e Mortal Kombat che sfruttavano un set di sei tasti: per Street Fighter II: Special Champion Edition, la seconda versione del picchiaduro Capcom scelta come base per il porting per SEGA Mega Drive, bisognava alternare pugni e calci premendo il tasto start (togliendo al giocatore qualsivoglia possibilità di mettere il gioco in pausa) mentre per il porting di Mortal Kombat il tasto start fu impiegato per la parata dando al giocatore uno strano metodo per alternare pugno forte e pugno debole. SEGA più in là non poté fare altro che lanciare un nuovo controller a sei tasti, diversamente da quello Nintendo disposti a stringhe di tre uno sopra l’altro. Se non altro questo controller ricalcava perfettamente il set di tasti di Street Fighter II in Arcade e molti giocatori, ancora oggi, preferiscono questo specifico set per i tornei dei più recenti capitoli. Tuttavia SEGA dovette rinnovare il proprio controller mentre Nintendo rimase con lo stesso set dal lancio fino alla fine del ciclo vitale del Super Famicom/Super Nintendo, offrendo dunque un efficiente controller sin dall’inizio.

Il layout a tre tasti proposto da SEGA, sia a doppia stringa che a singola stringa, fu comunque ritenuto molto comodo e, così come la libreria dei giochi di Mega Drive e Super Nintendo, la disposizione dei tasti diventò anch’essa un motivo di preferenza. A testimonianza della sua comodità ne sono controller per Atari Jaguar e quello per 3DO che alla stringa di tre tasti, ne aggiunse due  dorsali e un tasto menù in più. Quest’ultimo controller è famoso per aver incluso, nel pad stesso, una porta per il multigiocatore (permettendo dunque, potenzialmente, a un infinito numero di giocatori di partecipare a un gioco multiplayer!) e un jack per gli auricolari, qui usato per ascoltare il sonoro ma che verrà ripreso, anni più tardi, per permettere ai giocatori di comunicare in ambiente online in controller come quello per Xbox e Dual Shock 3. Anche NEC utilizzò questo layout per lanciare il suo controller a sei tasti da lanciare col porting di Street Fighter II: Champion Edition per PC-Engine e lo stesso design (anzi, lo stesso controller) fu messo in bundle col PC-FX, suo successore meno fortunato.

La generazione 32/64-bit e l’arrivo degli analog stick

Ad avviare le danze per la nuova generazione fu SEGA che con il suo Saturn lanciò il suo nuovo controller che si rifaceva al Mega Drive: fu diminuita la corsa dei tasti per una maggiore precisione nei controlli e ne furono aggiunti due  dorsali per un totale di otto, a oggi il numero essenziale per ogni buon controller che si rispetti. In Nord-America ed Europa i controller che arrivarono avevano dimensioni diverse da quelli del Giappone: il design era sostanzialmente più massiccio e in molti lo trovarono scomodo; pertanto SEGA più in là sostituì i controller in bundle con la console con i più piccoli, comodi e leggeri controller destinati al Sol-Levante, stavolta di colore nero lucido come il design per la console in Nord-America e Europa. Questo controller non portò grandi innovazioni ma è a oggi uno dei più comodi e belli mai realizzati.

Come oggi si sa, PlayStation nacque da un accordo fallito fra Sony e Nintendo e il suo controller ne riflette le conseguenze: la disposizione dei tasti si rifà a quella del Super Nintendo, una forma a rombo più retta e per niente inclinata, con l’aggiunta di due tasti dorsali extra, facendo partecipare anche le dita medie di entrambe le mani al gameplay. Il controller Sony aggiunse due impugnature al di sotto del pad per una presa ancora più comoda e solida, l’ideale soprattutto per chi non avesse mai preso in mano un controller. Teiyu Goto, il suo designer, ebbe la geniale idea di utilizzare simboli, anziché lettere, che rappresentassero funzioni universali per qualsiasi videogioco:

  • Il triangolo verde rappresenta il punto di vista: alla punta del triangolo ci sarebbe la testa mentre la sua area rappresenta il suo campo visivo;
  • Il quadrato rosa rappresenta un foglio di carta: questo tasto sarebbe dovuto servire a richiamare i menù o i documenti;
  • La croce e il cerchio, rispettivamente blu e rosso, rappresentano il “no” e il ““: questi tasti sarebbero dovuti servire per prendere decisioni.

Anche se questo schema non fu mai assoluto, la disposizione dei simboli risultò molto intuitiva e fu molto facile memorizzare questo nuovo layout di tasti.

Tuttavia, la vera rivoluzione fu lanciata col controller Nintendo 64, il primo a includere (dal lancio) una vera levetta analogica, per un totale controllo dei movimenti a 360°. Il tridente, come spesso chiamato dagli appassionati, presentava una disposizione di tasti frontali con i due grossi “B” e “A” uno sopra l’altro e un set di tasti “Cdisposti a croce accanto ai primi due, dando al giocatore una disposizione simile a quella del Saturn ma chiaramente con funzioni diverse: i tasti “C“, di colore giallo, servivano a dare al giocatore un primordiale controllo dual analog in modo da offrire al giocatore un sistema per controllare la telecamera in giochi 3D come Super Mario 64 o Banjo Kazooie o mirare in sparatutto come Quake e Goldeneye 007. In quanto a dorsali il controller ne offriva tre ma, non ci si trovava mai con un gioco che sfruttasse tutti e nove i tasti, bensì sempre con otto: dietro l’impugnatura della levetta analogica si trova il tasto “Z” e pertanto, qualora il giocatore dovesse usare questa impugnatura, non gli verrà mai richiesto di premere il tasto “L” che si trova al di sopra dell’impugnatura col D-pad.
Nonostante in molti non trovassero ergonomico questo controller (in molti ancora oggi lo impugnano in maniera sbagliata) esso rappresentò il punto di svolta per tutti i controller a venire e, come risultato, Sony e SEGA dovettero rivisitare i propri mentre, Nintendo, ancora una volta, rimase con lo stesso pad dal lancio fino alla fine del suo ciclo vitale.

Chiusa una porta si apre un portone e infatti Sony rilasciò il più completo controller DualShock, con due levette analogiche per permettere tutto ciò che offriva  il rivale del N64, e l’innovativa funzione rumble inclusa all’interno del controller, a differenza del controller Nintendo a cui serviva attaccare il rumble pak. In aggiunta a queste feature innovative, le levette analogiche reagivano alla pressione esattamente come dei tasti, diventando ufficialmente “L3” e “R3“. Molti titoli furono ripubblicati per offrire i nuovi controlli analogici, come Resident Evil: Director’s Cut Dual Shock Ver., ma le future pubblicazioni si concentrarono nell’offrire sia il controllo analogico che il controllo tramite D-pad che, nonostante la coesistenza, cominciava a cedere il passo a questo nuovo tipo di controlli.
Il nuovo controller Sony fu così efficiente che il design generale, fra la prima PlayStation e la terza, subì pochissime rivisitazioni, offrendo al giocatore una presa e un controllo vicino alla perfezione: per la successiva generazione Sony cambiò i tasti digitali in tasti analogici, che ovviamente reagiscono alla quantità di pressione applicata, mentre su PlayStation 3 furono implementati i trigger analogici e resero l’intero controller wireless, con la possibilità di ricaricare la batteria a litio via USB. Alla fine il controller cambiò radicalmente soltanto con l’arrivo di PlayStation 4, con la quale fu implementato il piccolo led per identificare il giocatore, il touch pad e accelerometro a tre assi e giroscopio a tre assi, migliorando e implementando correttamente quello che non riuscirono a consegnare con il controller Sixaxis (di cui parleremo più avanti).

SEGA dal canto suo aggiornò il suo sistema di controllo con il nuovo e rinnovato 3D Pad, un controller decisamente più grande rispetto al modello base. Incluso in bundle con Nights into Dreams…, il 3D Pad può sembrare un controller scomodo e ingombrante ma in realtà è invece risulta ergonomico offrendo una presa più rilassata, particolarmente efficiente in giochi picchiaduro come Vampire Warriors: Darkstalkers’ RevengeStreet Fighter Alpha 2 o Virtua Fighter 2. Sebbene non abbia la funzione rumble e i controlli analogici non siano stati implementati per tutti i giochi a venire, il 3D pad fu invece il primo controller a implementare i Trigger analogici dorsali, caratteristica fondamentale di ogni buon controller per console o computer.

Col cambio della prospettiva, dai giochi 2D a quelli 3D, cambiarono anche i controller che da questo punto in poi, non sarebbero mai più stati gli stessi. Mutano i giochi, mutano i controller. Come sarebbero stati i controller successivi? Aspettate il prossimo articolo e continueremo a ripercorrere l’evoluzione dei controller fino al giorno d’oggi!




Hi, my name is…Eric Chahi

Bentornati all’appuntamento con Hi, My name is… la rubrica di approfondimento di GameCompass sulle personalità più importanti del settore videoludico. Anche questo mese avremo come ospite un illustre innovatore del medium, forse meno conosciuto al grande pubblico, ma non per questo di minore rilevanza: parliamo del padre dell’iconico Another World, il game designer francese Eric Chahi.

Chahi non è certo uno dei più prolifici autori del panorama videoludico, ma è sicuramente uno dei maggiori esponenti della storia del game design. La sua carriera inizia nei primi anni ’80, come programmatore nella francese Loriciels, sfruttando il proprio talento nell’utilizzo di Atari ST e Amiga per sviluppare titoli che al tempo finirono principalmente su Commodore 64, Oric-1 e Amstrad CPC. Una palestra  che gli sarà utile negli anni anni a venire, come quando, nel 1989, passò alla Delphin Software in veste di artist responsabile per il titolo Future Wars. Sin da subito si distingue per una cura maniacale nei dettagli, tratto distintivo dei suoi lavori più riusciti. Chahi ha una visione d’avanguardia e un’abilità unica nel rendere possibili  idee di design inedite e rivoluzionarie, sopperendo alle mancanze tecnologiche dell’epoca attraverso l’uso sapiente di una regia sempre puntuale e meccaniche ibride perfettamente dosate.

Il suo genio creativo esplode nel 1991 con l’uscita del memorabile Another World dopo due anni di travagliato sviluppo, infine pubblicato dalla Interplay Entertainment. La trama ruota intorno alle disavventure vissute da Lester Knight Chaykin, giovanissimo scienziato intento a replicare la creazione dell’Universo in scala ridotta. Le cose prenderanno una piega del tutto inaspettata, catapultando il protagonista in un mondo alieno, selvaggio e oscuro.
Quel lavoro di game design senza precedenti segna un solco indelebile nella storia del videogioco, creando un vero e proprio terremoto e stabilendo un confronto obbligatorio al quale il mercato non può più sottrarsi. Another World riduce a brandelli i canoni classici delle produzioni del tempo: la totale mancanza di qualsiasi tipo di informazione a schermo, fino alla possibilità di tentare all’infinito gli ostici passaggi presenti nel corso dell’avventura. Le rivoluzioni proposte dal titolo non si limitano solo a questo: lo stile visivo unico, la riproduzione di animazioni elaborate attraverso l’uso del rotoscopio, il sound design minimale d’atmosfera e la straniante sensazione di disorientamento da parte del giocatore che si vede catapultato in un mondo brutale e criptico, fanno di AW uno dei primi titoli in grado di restituire all’utente un’autentica esperienza cinematografica. Una pietra miliare che è stata largamente riferimento, inimitabile, alla quale molte delle produzioni moderne sono debitrici e che ha ispirato i più illustri game designer (da Hideo Kojima a Fumito Ueda ). Con Another World viene stabilito un punto di non ritorno importante, destinato a durare in eterno. Un capolavoro limpido e perfetto che, nonostante il passare degli anni, non perde un minimo del suo smalto e della sua freschezza, arrivando ai giorni nostri attraverso un’ottima riedizione in alta definizione, disponibile su tutte le piattaforme di gioco.

Un successo inabissato che consegnerà il nome di Eric Chahi nella memoria di ogni giocatore; il gioco segna una benedizione per la carriera del Designer ma al contempo una vera e propria sciagura poiché, una volta raggiunta la perfezione sintetica è molto difficile replicarne la formula.

Chahi si ripresenta sulle scene solo sette anni più tardi con Heart of Darkness, una sorta di seguito spirituale di AW. Questa volta con tematiche accessibili a un pubblico giovane e dai toni molto più fiabeschi e da cartone animato; uscito su Pc e PlayStation nel 1998. Nel gioco vestiremo i panni di Andy, ragazzino dotato di una notevole fantasia, coinvolto nella ricerca disperata del suo cane Whiskey, tragicamente rapito da una mano scheletrica proveniente dalle misteriose Darklands, terre oscure governate dal Master of Darkness.
Rimodulare le meccaniche del precedente lavoro, senza correre il rischio di ripetersi o di stravolgere l’idea alla base non è di certo un lavoro facile; il pesante fardello di riuscire a  creare un capolavoro come il predecessore, alzando ulteriormente l’asticella della qualità in profondo rispetto verso i suoi fan, è un peso che neanche un genio come Eric Chahi può sopportare. Infatti Hearth of Darkness si presenta al pubblico ricevendo una tiepida accoglienza in termini di critica, ma va decisamente male nelle vendite globali rivelandosi un pesante flop. Un’occasione mancata per un buon gioco in tutte le sue sfaccettature ma che, probabilmente, ha la sola colpa di essere uscito fuori tempo massimo, in un periodo in cui le avventure di questo genere avevano raggiunto il massimo della loro espressione con il dittico della Oddworld Inhabitants (Abe’s Odissey e Abe’s Exoddus) uscito soltanto qualche anno prima. Un brutto colpo per il nostro, tanto da farlo allontanare dallo sviluppo per un lungo periodo terminato soltanto nel 2011 con l’uscita di From Dust.

Pubblicato da Ubisoft Montpellier su PS3, Xbox360 e PC, From Dust si discosta totalmente da qualsiasi altro lavoro di Chahi rientrando nella catgoria dei god simulator sulla falsa riga del ben più popolare Black & White della LionHead, fondata dal visionario e più volte aspramente contestato Peter Molyneux.

Il nostro compito è quello di salvaguardare l’esistenza di una antica tribù indigena attraverso l’uso dei nostri poteri di creatore. L’idea di base è quella di dare la possibilità al giocatore di poter plasmare la terra e ogni elemento naturale presente su schermo, in funzione alla missione presentata. Ogni piccola tribù dovrà spostarsi dal punto A al punto B cercando di sopravvivere alle insidie naturali, come un’eruzione vulcanica, un devastante incendio o un gigantesco tsunami. Mano a mano che la fede nei nostri confronti si farà sempre più forte, i poteri divini in nostro possesso aumenteranno di portata ed efficacia ed il gioco ci concede la completa libertà d’azione nell’affrontare le varie situazioni proposte. Le meccaniche alla base sono originali e accattivanti e di certo il titolo rappresenta un gradito ritorno da parte del designer francese dopo una pausa durata più di dieci anni. Ma nonostante le buone intenzioni e un paio di idee azzeccatissime, la realizzazione tecnica non riesce a supportare pienamente la struttura di gioco e una certa legnosità dei  controlli minano parzialmente l’esperienza. Al netto dei suoi difetti comunque From Dust rimane un piacevole passatempo per tutti gli amanti del genere “divino” anche se dalla mente brillante di Chahi ci si poteva aspettare uno sforzo creativo in più.

Per concludere, la figura di Eric Chahi è stata fondamentale per l’evoluzione del videogame. Il suo contributo è presente ancora oggi in molte delle idee alla base delle produzioni moderne e molto spesso date per scontate. Senza la fervida tenacia nel voler creare qualcosa di diverso ed inaspettato, il videogioco come lo conosciamo non sarebbe potuto esistere. Purtroppo la lungimiranza nell’intravedere potenziali sviluppi  nella fruizione del videogioco da parte dei gamer e la perenne voglia di sperimentare con il medium non sempre hanno dato i risultati sperati. Pur sviluppando pochi titoli lungo il corso della sua carriera, ha saputo imbastire una importantissima rivoluzione interna, delineando un’esperienza narrativa e allo stesso tempo interattiva delle sue creazioni. In attesa di Paper Beast, suo ultimo lavoro in dirittura di arrivo su PlayStation VR per il 2019, questo è il nostro contributo ad un genio visionario i cui sogni hanno saputo regalare momenti indimenticabili ai giocatori di tutto il mondo.




Bloodstained: Ritual of the Night – Il ritorno del re

L’anno scorso abbiamo dedicato molto tempo per discutere di Bloodstained: Curse of the Moon, inaspettato primo nuovo titolo di questa nuova saga ispirata a quella di Castlevania, dello sviluppo del titolo principale, che abbiamo finalmente giocato, dei battibecchi fra Konami e il creatore Koji Igarashi, dello sviluppo della campagna Kickstarter (il più velocemente finanziato prima del lancio di Shenmue 3), ma anche di Castlevania: Symphony of the Night e dell’eredità che porta con sé. Il caro Iga ha saputo ascoltare i backer del suo progetto e così ha rimandato l’uscita di Bloodstained: Ritual of the Night dal tardo 2018 al primo 2019 per poi essere spostata un’ultima volta per l’estate dello stesso anno. Il titolo, il cui progetto fu lanciato nel marzo 2014, è uscito lo scorso 18 giugno per PlayStation 4, Xbox One e PC e una settimana dopo (25 giugno) per Nintendo Switch. Quest’ultima sarà la versione che prenderemo in considerazione e vedremo insieme un vero e proprio gioco d’autore, uno di quelli in grado di elevare il videogioco a pura arte e decisamente uno dei migliori di questo 2019.

La versione Switch…

Ebbene sì, se avete avete seguito le vicende di Bloodstained: Ritual of the Night allora saprete che la versione per Nintendo Switch sta risultando la peggiore delle versioni uscite. Cominciamo col ricordare che lo sviluppo di questa particolare versione era cominciato originariamente su Wii U, produrre un porting per Switch non è stato facile viste le brutte sorprese in ambito multipiattaforma come Rime o Doom, ma altre volte il risultato si è rivelato al pari delle altre console, come il caso di Mega Man 11. Bloodstained: Ritual of the Night,  non si schioda dai 30 FPS e soprattutto, al di là di piccoli dettagli grafici mancanti, assistiamo a tempi di caricamento inaspettati fra una stanza e l’altra ma soprattutto crash e glitch legati soprattutto alle interazioni con gli NPC non nemici; anche il riprendere a giocare dopo uno stand-by, sembra destabilizzare l’intero andamento del titolo. Un aggiornamento è stato lanciato il 2 Agosto e sembra che il gioco sia più stabile, anche se ancora sussistono alcuni dei problemi sopracitati. Ciononostante i controlli risultano ben reattivi e l’esperienza totale è ben lungi dall’essere ingiocabile.

Il sogno di Koji Igarashi

Dopo le critiche a Castlvania: Symphony of the Night, elogiato come uno dei giochi più belli di tutti i tempi, era normale aspettarsi nuovi sequel ma la verità è che a Koji Igarashi non vennero mai dati fondi e tool a sufficienza per poter produrre un gioco al pari del suo precedente per via delle sue vendite non stellari. Bloodstained: Ritual of the Night è dunque il  suo secondo metroidvania per console, il primo dopo 23 anni in cui Koji Igarashi si è trovato a lavorare senza le limitazioni dei portatili e con la libertà e tool degni del suo genio creativo. Nonostante non possa più continuare le avventure dei personaggi che ha creato, il suo particolare interesse verso l’occulto, la magia e il fantasy si rispecchia in tutto e per tutto in questo nuovo titolo ufficialmente targato ArtPlay e distribuito da 505 Games.

La storia si svolge durante la prima rivoluzione industriale, sono anni di fermento scientifico e culturale e pertanto le arti occulte cominciano a divenire obsolete. Fra le nubi dell’eruzione di Laki del 1783, vulcano sito in Islanda, arrivano in tutta l’Europa centinaia di migliaia di demoni ma il tutto risulta essere uno stratagemma segreto di una gilda di alchimisti per ricordare alla classe dominante la loro importanza e che la tecnologia è impotente di fronte a entità di questo tipo. Per fronteggiare questa minaccia gli alchimisti forgiano gli Shardbinder, dei ragazzi al cui loro interno vengono impiantati cristalli in grado di sintonizzarli con il potere dei demoni e dunque combatterli.
Dopo questo incipit, cominciamo dal Galeone Minerva (quinto livello del precedente Curse of the Moon), e le prime fasi di gioco serviranno a farci prendere confidenza coi controlli e le abilità di Miriam, la protagonista. Grazie all’assorbimento del degli Shardbinder, Miriam potrà utilizzare le abilità chiave dei suoi nemici, che constano di cinque tipi: Attivazione, classica arma secondaria di Castlevania, Direzionale, simile a quello a precedente ma direzionabile con lo stick sinistro, Effetto, Famiglio, che permette l’attivazione di uno Spirito combattente di supporto che ci accompagnerà dal momento della sua selezione (livellabile anche lui come Miriam), e infine Incantato (noi preferiamo “passivo”) che darà ulteriori abilità alla protagonista in background (come resistenza al fuoco, aumento fortuna, velocità dei movimenti, etc…). A questi si aggiungono anche i Cristalli Abilità che permetteranno a Miriam di compiere nuove azioni, come doppi salti e il nuoto, utili per esplorazione del castello. Le abilità dei cristalli potranno essere ulteriormente migliorate portando a Johannes diversi materiali, drop casuali dei vari nemici del castello e collezionando ulteriori cristalli dello stesso tipo. Inutile ricordare dunque che, come un RPG, il personaggio aumenta di livello accumulando EXP a ogni nemico ucciso.
Il gameplay di base non porta grandi innovazioni, ma per quanto classico è semplicemente squisito: la mappa di gioco, è indubbiamente la più grande mai presentata in uno dei suoi giochi precedentemente prodotti ed è composta in modo tale da favorire un backtracking dinamico e tarato per la crescita della protagonista, caratteristica fondamentale di questo genere. Percorrere un tratto a ritroso non risulterà mai tedioso e tornando in aree già visitate avremo modo di controllare se abbiamo collezionato tutto quanto nell’area provando ogni nostra nuova abilità per accedere a luoghi precedentemente inaccessibili; talvolta è incentivato anche il sequence breaking, ovvero la capacità di visitare luoghi alla quale non si potrebbe accedere senza una determinata abilità ma accessibili se utilizzeremo al meglio quelle già acquisite. In ogni caso il vero fulcro di questo gioco è certamente l’esplorazione e in Bloodstained: Ritual of the Night ci viene consegnato un ambiente veramente eccezionale, una mappa che incentiva la curiosità, l’esplorazione, il backtracking e lo spingersi a superare nemici e ostacoli a ogni costo.

Inoltre, per la prima volta, è stato implementato un sistema di slot per salvare un determinato equip e selezionarlo al momento del bisogno in base alla situazione. Potremo trovarci con una spada con un effetto di fuoco e pertanto a esso potremo equipaggiare vestiti, accessori e un cristallo passivo che ne incentivi i danni. L’arma principale di Miram non differisce molto da una spada e il suo raggio d’azione è veramente povero, tutto il contrario di quella vista nel precedente titolo in cui era permesso il tenere una certa distanza tra noi e i nemici.
Insieme alla campagna di Miriam e alla partita+, nonché alle diverse difficoltà proposte, possiamo sin da subito giocare alla modalità Boss Rush e Time Attack ma ben presto verranno rilasciati ben 13 DLC gratuiti che promettono modalità co-op, versus, una Classic Mode e altri due personaggi giocabili, primo dei quali l’ammazza-vampiri nipponico Zangetsu.

Déjà vu?

Coloro che hanno giocato e rigiocato Castlevania: Symphony of the Night non potranno fare a meno di non notare alcune similitudini che si riducono a un autocitazionismo tal volta fuori luogo e semplicemente poco ispirato. Così come per molti altri elementi, a partire soprattutto dai luoghi della mappa ricollegabili ai luoghi del castello di Dracula del celebre gioco per PlayStation, alla Cattedrale di Dian Cecht di Bloodstained: Ritual of the Night accosteremo immediatamente la Royal Chapel di Symphony of the Night, al Giardino del Silenzio la Marble Gallery, alla Livre Ex Machina la Long Library, e così per moltissimi altri luoghi del castello. Tuttavia, la autocitazione più fastidiosa è senz’altro l’abilità Invert che permetterà a Miriam di invertire la gravità e dunque capovolgere la schermata di gioco: per quanto il richiamo di tale abilità sia abbastanza intuitiva e regala al giocatore l’effetto desiderato, questo non è altro che uno stratagemma poco originale per invertire il castello, esattamente come succedeva in Castlevania: Symphony of the Night ma che qui poco regala alla dinamicità del gameplay. Citare le vecchie opere è indubbiamente interessante ma il problema è che Bloodstained: Ritual of the Night sembra voglia farsi carico dell’eredità di Castlevania anziché lanciarne una nuova.

Lost Paintings

Graficamente Bloodstained: Ritual of the Night non è certamente fra le più complessi ma di certo risulta abbastanza curato e intriso dello stile gotico, fuso con quello anime, di cui Iga è famoso. Durante i dialoghi vengono presentati modelli 3D ben dettagliati ma tutto sommato poco espressivi nonostante un buon doppiaggio: le espressioni facciali non rispecchiano necessariamente lo stato d’animo dei personaggi e pertanto avremo preferito, anche se in questo caso saremo ricaduti nell’ulteriore citazione, semplicemente degli artwork alla quale collegare il parlato come avveniva nei suoi titoli precedenti. Anche se il risultato non è fra i migliori, Iga ha voluto azzardare e, per quanto possibile, distaccarsi dalla saga madre. Gli effetti luce e la profondità dei background, rinnovati verso la fine dello sviluppo,sono ben resi anche in questa versione e tutto sommato Bloodstained: Ritual of the Night presenta uno stile grafico e un art style valido anche se non fra i più ispirati.
La colonna sonora invece è stata affidata a Michiru Yamane, storica compositrice della saga madre… e insomma, basterebbe solo questa frase per garantire la qualità della colonna sonora! Probabilmente, ed è un grosso tassello che mancava ai Castlevania: Lords of shadow, la musica è ciò che rende i titoli di Koji Igarashi grandi e semplicemente epici: le composizioni offrono quel ritmo e quelle sonorità in grado di dare la giusta atmosfera ai vari ambienti, sempre molto diversi fra loro. Luoghi come Cattedrale di Dian Cecht o i Laboratori di Stregoneria prediligono composizioni più classicheggianti, con organi a canne e tappeti di archi, mentre in luoghi come l’Ingresso del castello, il Giardino del Silenzio, la Torre dei Draghi Gemelli o la Caverna Infernale presentano composizioni più moderne con un set più da band e sfumature che aprono verso più generi musicali. A differenza di Castlevania: Symphony of the Night stavolta non sono stati commessi grossi errori sui dialoghi con decisamente un buon lavoro da parte dei doppiatori: alcune battute di dialogo sono troppo “spigliate” per il periodo storico preso in considerazione ma in fondo fanno parte di sezioni extra e inserite, chiaramente, a scopo umoristico. Nel cast figurano se non altro doppiatori di spicco come David Hayter, voce storica di Solid Snake qui impegnato nel prestare la voce a Zangetsu e alla narrazione iniziale, Ray Chase, anche lui impegnato in progetti come Final Fantasy XV e NieR: Automata qui impegnato per prestare la sua voce a Gebel, Erika Lindbeck, che presta la voce alla protagonista Miriam, ma soprattutto Robert Belgrade, voce storica di Alucard in Castlevania: Symphony of the Night qui impegnato a prestare la voce al bibliotecario Orlok Dracul, vampiro dalle sembianze molto vicine al suo vecchio personaggio.

… Vicino alla perfezione

I punti che abbiamo criticato in questo Bloodstained: Ritual of the Night non sono pochi e se non altro vive chiaramente dell’eredità della sua saga madre. C’è un autocitazionismo a tratti fastidioso accompagnati da tanti piccoli elementi, relativi principalmente alla versione Switch (laddove si trova il pubblico che più apprezza questo tipo di giochi), che potevano essere migliorati tranquillamente con pochi sforzi. Ciononostante è impossibile negare la grandezza di questo gioco e l’infuocatissimo gameplay che esso propone: non lodarne il gameplay è semplicemente impossibile e criminale! Narrativamente risulta interessante ma purtroppo contornato personaggi a tratti un po’ scialbi, delle ambientazioni meravigliose ma troppo legate al passato. Per un prossimo titolo andrebbe rivisto l’obiettivo di questa saga: vuole semplicemente colmare un sentimento nostalgico o mettere qualcosa di nuovo sul tavolo? Non c’è nessuna grande innovazione e dunque non si capisce se il gioco guardi avanti oppure indietro. Momentaneamente il risultato con questo Bloodstained: Ritual of the Night è più che soddisfacente e sembra davvero di avere in mano (finalmente) il degno erede di Castlevania: Symphony of the Night: un grande titolo e certamente uno dei migliori giochi di questo 2019.




Il Nintendo Virtual Boy: dal concetto al flop

È incredibile come oggi la tecnologia dei visori per la realtà virtuale sia (quasi) quella che già, a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, si sognava a occhi aperti. Da quei giorni fino a oggi i VR headset sono esistiti ma ben fuori dal mercato dei videogiochi: alla NASA, già negli anni ’70, i visori VR venivano già utilizzati all’ordine del giorno per esercitazioni e simulazioni di diverso tipo. I videogiochi sembravano il perfetto campo d’applicazione per questo tipo di tecnologia: già negli anni ’60 la giovanissima SEGA lanciò Periscope che, per quanto fosse un gioco elettromeccanico, preannunciò in qualche modo come fosse possibile immergersi in un mondo artificiale tramite più sensi possibili; più avanti nel tempo, Atari lanciò Battlezone, un vero antenato dei VR headset visto che per giocare bisognava guardare attraverso un telescopio (e il successo divenne tale che questo si trasformò in The Bradley Trainer, un vero e proprio strumento utilizzato per le esercitazioni dei capocarro). Ai giocatori servirono ben pochi assaggi per immaginare questa splendida tecnologia: fin dove ci si poteva spingere con la tecnologia? Fin dove era possibile arrivare? Ma soprattutto, quando il mercato avrebbe per messo ai giocatori di avere un personalissimo headset VR? In un mondo pieno di sogni e speranze, Nintendo un giorno provò a consegnare un primo prototipo di visore VR (anche se in realtà era una console) che potesse essere economico e aprire le porte della realtà virtuale, ma che invece finì per essere uno dei più tremendi fallimenti commerciali nella storia dei videogiochi. Oggi, in vista del rilascio del nuovissimo visore VR Nintendo tramite la linea di prodotti Labo, vi parleremo del loro primo vero esperimento in questo campo, un evento che, probabilmente, posticipò di molto l’arrivo dei visori VR su larga scala in attesa di una migliore tecnologia accessibile a tutti. Qui su Dusty Rooms vi parleremo del famosissimo incubo rosso nero… no, non l’AC Milan, ma il Nintendo Virtual Boy!

Il Private Eye

Che ci crediate o meno, le radici del Virtual Boy risalgono al 1985, una decade prima del suo rilascio, prima ancora del rilascio del Game Boy e del Super Nintendo. Tuttavia il concetto di questa macchina non nasce a Kyoto ma a Cambridge, in Massachusetts, dalla mente di un abile ingegnere che lavorò al primo scanner piano per computer. Allen Becker, per via del suo lavoro, era costretto a spostarsi spesso per lavoro e ciò significava salire a bordo di tanti aerei: ai tempi erano molto stretti e molti dispositivi elettronici, come il popolarissimo Walkman o i primi computer portatili, non potevano essere accesi durante il volo. Anche se non ci fosse stato alcun divieto, era impossibile portare un computer portatile all’interno di un aereo e poter continuare a lavorare in viaggio: questi dispositivi esistevano già ma erano molto inferiori ai computer fissi, serviva un’alimentazione fissa e, per quanto portatili, era impossibile usarli negli angusti sedili degli aerei dei tempi.

Di lì a poco, Allen Becker si mise a lavorare a un qualcosa che potesse funzionare come un PC ma che fosse piccolo e comodo da usare in ogni situazione. L’idea era quella di costruire qualcosa composto da due pezzi: un piccolo computerino da attaccare a un piccolo schermo. Ma come fare? I monitor CRT a tubo catodico, la migliore tecnologia per l’epoca, richiedevano troppa potenza ed erano troppo ingombranti, e gli LCD, per quanto impiegati in oggetti come calcolatrici, radiosveglie e orologi da polso, non erano al passo coi tempi in quanto serviva ancora molta ricerca e sviluppo. La scelta così cadde sul LED, strumento con la quale Becker lavorò proprio per il suo scanner. Intorno a quei anni un famoso scienziato e inventore di nome Raymond Kurzweil, una delle menti più grandi degli ultimi secoli, usò il suo scanner per creare una macchina che potesse aiutare i ciechi a leggere; ispirato da questa idea, la sua intenzione era quella di utilizzare i LED, che muovendosi velocemente scannerizzavano un testo per poi trasmetterlo allo schermo del PC, per proiettare le immagini direttamente alla retina dell’occhio umano. Per proiettare un immagine serviva che questi LED fossero in costante movimento, cosa che poteva provocare forti danni alla retina; con un colpo di genio, Allen Becker decise di far proiettare l’immagine dei LED a degli specchi che oscillavano per 50 volte al secondo, in modo da non nuocere all’utente e trasmettere un immagine ancora più nitida e chiara. In assenza di finanziamenti per poter avviare un prototipo, l’ingegnere cominciò ad utilizzare pezzi di alcune stampati per poter creare delle bozze e fu proprio in questo periodo che la scelta cadde sui LED rossi: per quanto all’apparenza fosse una scelta poco saggia, in quanto per funzionare avevano bisogno del buio, in realtà si poteva rivelare una scelta vincente, poiché i LED rossi erano i più comuni e i meno costosi e dunque la sua invenzione finale poteva essere prodotta economicamente e venduta a prezzi competitivi. Inoltre, essendo ancora nel 1986, da lì alla realizzazione del prodotto finale, la tecnologia poteva migliorare ancora di più, perciò non c’era bisogno di preoccuparsi più di tanto. In sei mesi di lavoro, utilizzando la tecnologia che venne in seguito da lui battezzata come “Scanned Linear Array“, Alan Becker creò il primo prototipo del Private Eye nel 1987, un micro schermo per computer composto da un cerchio, da appoggiare alla testa esattamente come una corona, che regeva un piccolo dispositivo che si andava a posizionare davanti all’occhio dell’utente.
Il Private Eye non nasceva come videogioco, Alan Becker visionava la sua creazione per scopi ben diversi dal gaming: egli sperava infatti che i chirurghi potessero utilizzarlo per tenere sempre sotto controllo la scheda del paziente e gli esiti delle risonanze magnetiche durante le operazioni, che i meccanici potessero utilizzarlo per tenere i manuali delle auto (letteralmente) sott’occhio e che l’utente comune potesse utilizzarlo per altri usi, come ad esempio alla guida per dare una sbirciata alle mappe. Se ci pensate, Allen Becker anticipò il concetto dei Google Glass di quasi ben 25 anni!
Fondata la Reflection Technology nel 1987 Allen Becker andò subito alla ricerca di investitori ma, sebbene il Private Eye attrasse qualche interesse da parte di alcune compagnie aeree, nessuno finanziò questo rivoluzionario progetto perché era troppo difficile immaginarne degli impieghi reali – in questo caso si può dire che la sua invenzione era davvero “troppo avanti”. Tuttavia nulla era perduto, bisognava solamente trovare un altro impiego per questa tecnologia.

Verso il gaming

Negli anni ’90 si assistette a grandi rivoluzioni tecnologiche: la grafica 3D diventava sempre più facile da processare, gli effetti speciali al cinema si facevano sempre più reali e film come Il Tagliaerbe (The Lawnmower Man) non facevano altro che alimentare le fantasie degli appassionati di tecnologia, computer e videogiochi di tutto il mondo. Nelle fiere come il Consumer Electroincs Show veniva dedicato dello spazio per i visori per la realtà virtuale ma il tutto era a uno stadio primitivo: Reflection Technology creò un prototipo di un visore letteralmente mettendo due Private Eye su un casco da saldatore e, nonostante la bizzarra idea, il loro fu uno dei visori più apprezzati durante le fiere. Veniva avviata una demo di un gioco in cui si era alla guida di un carro armato, esattamente come in Battlezone di Atari (alcuni pensano che il gioco fosse proprio quello) e, fra i tanti stand, il loro riscosse un grande successo fra appassionati e non. Reflective Technology aveva creato, quasi accidentalmente, una realtà virtuale con pochissime risorse, facile da produrre e persino divertente! Per tale motivo servivano investimenti, ma compagnie come Hasbro e Mattel, per quanto interessate, non volevano ancora nulla a che fare con gli headset VR, specialmente per il fatto che la tecnologia per l’headtracking era agli albori: era lenta, imprecisa e per tanto avrebbe avrebbe assicurato motion sickness agli utenti. A questo punto, visto che ormai il suo scopo era chiaro, era meglio presentare il Private Eye direttamente alle compagnie videoludiche.

(Eh… Non ci sono più gli headset di una volta!)

Alan Becker raggiunse per prima Sega, dove fu accolto da uno scettico Tom Kalinske che respinse il progetto. Il motivo principale, oltre ai problemi relativi al motion sickness, fu proprio il singolo colore: Sega aveva già lanciato il Sega Game Gear cui era in grado di gestire una palette capace di 4096 colori. Lanciare un prodotto così, dopo l’incredibile Sega Mega Drive, e il Game Gear che riscuoteva un buon successo grazie alla promozione dei suoi vantaggi rispetto alla concorrenza, rappresentava un grosso rischio per la compagnia, e così Sega decise di tirarsene fuori (magari avesse pensato così prima del lancio del 32X).
Becker non si scoraggiò e invece andò dalla concorrenza per riscontrare il risultato opposto: Reflection Technology mostrò a Nintendo le capacità del loro visore e tutti ne rimasero sorpresi, soprattutto una delle persone chiave della compagnia, Gunpei Yokoi, il padre del Ultra Hand, dei Game and Watch e del magistrale Game Boy. Il sistema di Becker sembrava realmente ispirato dalla sua filosofia (che a tutt’oggi influenza Nintendo): utilizzare una tecnologia superata per poterla riutilizzare in modi diversi, sfruttandola al limite delle sue capacità, guadagnando bene con una produzione che si manteneva a costi contenutissimi. Il Nintendo Gameboy, in poche parole, era la perfetta rappresentazione della sua filosofia: grazie allo schermo monocromatico riuscì ad avere il più grosso vantaggio sui competitor, punto sulla quale né SegaAtari col loro Lynx si concentrarono, ovvero la più lunga durata delle batterie (per giunta ne servivano due in meno rispetto alla concorrenza, che ne utilizzava sei), nonché una piattaforma semplicissima per ciò che riguardava la programmazione da parte delle 3rd party. Le aree create tramite l’uso dei LED potevano dare un senso di profondità potenzialmente infinito in quanto il contrasto per gli oggetti era semplicemente il buio stesso, un vuoto di colore; era esattamente quel tipo di cose che interessavano a Gunpei Yokoi che, prossimo alla pensione, odiava il fatto che il mondo del gaming si stesse interessando troppo alle tecnologie e meno al core gameplay, alla fantasia e la genialità dei giochi e dei dispositivi stessi. Un secondo meeting fu organizzato con i piani alti di Nintendo, in cui Yokoi e Becker presentarono il prototipo di quello che poteva essere un nuovo prodotto da lanciare… durante l’incontro, Hiroshi Yamauchi si addormentò! Becker e Reflection Technology non potevano fare altro che interpretare che quel gesto come disinteresse per il loro prodotto, un ulteriore fallimento, ma Gunpei Yokoi e altri funzionari Nintendo li rassicurarono dicendogli che in realtà… era una reazione più che positiva! Il business in estremo Oriente è ben diverso da quello di stampo americano o europeo e Yamauchi ne incarnava tutte le caratteristiche: il fatto che dormisse significava che stava letteralmente facendo “sogni tranquilli”, era così confidente in Gunpei Yokoi che non c’era alcun bisogno di intervenire (una cosa simile accadde quando Nintendo accolse i funzionari Atari per una possibile distribuzione del Famicom in Nord America, meeting in cui Hiroshi Yamauchi entrava e usciva dalla stanza per sottolineare quanto fosse impegnato e che se Atari non avesse colto l’occasione al volo avrebbero potuto perderla). In poche parole quel gesto si traduceva con “totale approvazione“, e così fu: Reflection Technology ricevette 10 milioni di dollari per avviare il segretissimo “Dragon Project“, che fu subito dopo rinominato “VR32“.

(Gunpei Yokoi)

Il travagliato sviluppo: tagli e compromessi

Il prodotto in quello stato (un casco per saldatori con due Private Eye collegati a un unità centrale) non poteva assolutamente essere venduto, e pertanto doveva essere ridisegnato. Gunpei Yokoi avanzò l’idea di costruire un visore con la console stessa inserita al suo interno, insieme a un sistema di head tracking che avrebbe permesso al giocatore di avanzare nel mondo 3D camminando nella realtà; il leggendario inventore di casa Nintendo descrisse il concetto come una “Virtual Utopia” e fu considerato come uno dei nomi finali per la console (ciò è riflesso nelle cartucce dei giochi del Virtual Boy che includono la sigla VUE nei numeri seriali). Per il processore si optò per un chip 32 bit (NEC V810), la scelta ideale per creare della grafica poligonale ma, per via delle radiazioni emesse da questo dispositivo, tenendo in considerazione che la console doveva essere tenuta in testa per giocare, furono costretti a chiuderlo in una sorta di scatola di metallo spesso per evitare danni di qualsiasi tipo. L’aggiunta di questo componente rese il visore pesantissimo e così si optò per una sorta di tracolla mista a uno stand per mantenere il sistema di head tracking e movimento. A questo punto i legali Nintendo misero in alt il progetto di Gunpei Yokoi: si preoccupavano soprattutto per i più piccoli che sarebbero potuti inciampare per casa con il visore in testa, il Virtual Boy poteva diventare una vera e propria causa di infiniti incidenti domestici. La ricerca sull’head tracking non andava neppure bene in quanto non era ancora perfettamente sincronizzata coi movimenti della testa e provocava ancora motion sickness; fu così che il Virtual Boy fu relegato a quel buffo stand che oggi conosciamo (e amiamo, in qualche modo), rendendolo così a tutti gli effetti una console casalinga (nonostante sia stata promossa più in là come console portatile, con il nome rafforzato per altro da quel “Boy” che lo legava al retaggio dell’incredibile Gameboy).

I primi giochi sviluppati utilizzavano una grafica 2D abilmente disegnata per dare quel senso di profondità che ci si poteva aspettare, dunque un finto 3D. Gunpei Yokoi voleva comunque implementare un ulteriore chip per poter rendere elementi 3D pienamente poligonali e mappati ma ancora una volta fu bloccato: Nintendo aveva già speso considerevoli somme di denaro per lo stampo fisico della console, perciò non si poteva tornare indietro, e fu così che la console rimase solo con un unico chip 32 bit non capace di poter rendere quelle immagini 3D che tutti quanti si aspettavano. Nonostante lo scetticismo che cominciava a crescere in Gunpei Yokoi, Nintendo era così confidente sul Virtual Boy che sperava di lanciarlo come quarto progetto principale; fu addirittura aperta una nuova fabbrica in Cina per produrre esclusivamente il nuovo prodotto!

Cambi di programma e il disastroso lancio

Seppur l’arrivo del Virtual Boy fu accompagnato con un particolare entusiasmo, Hiroshi Yamauchi sentiva la pressione dei competitor Sega e Sony che avrebbero lanciato i loro Saturn e PlayStation alla fine del 1994; l’Ultra 64 (precedente nome del Nintendo 64) sarebbe stato pronto solamente nel 1996, quindi era necessario immettere un prodotto nel mercato il prima possibile. In tutto questo però le cose al dipartimento di ricerca e sviluppo 1 (R&D 1), dove veniva sviluppato il Virtual Boy, non andavano per niente bene, e piano piano i fondi necessari per il miglioramento di questo dispositivo (molto difficile da gestire in quanto doveva produrre grafica 3D senza poligoni, con due schermi all’interno del visore e con meno elettricità possibile per mantenere la sua “portatilità”) furono trasferiti al più concreto progetto del Ultra 64 gestito dal R&D3, il quinto prodotto. L’attenzione per il Virtual Boy calò gradualmente dal 1995, e ciò lo si può riscontrare a tutt’oggi nella libreria dei giochi della console: la presenza di Mario nella console fu limitata a soli due giochi, mentre di The Legend of Zelda, Metroid e altri franchise principali non se ne parlava neanche, eppure questa strana macchina doveva essere lanciata nel mercato nonostante tutto. Ultimata la console, questa finì fra le mani del dipartimento marketing che doveva promuovere la console evitando ad ogni modo di non distogliere l’attenzione dal Nintendo 64. Le pubblicità lanciate più in là per il Virtual Boy, nonostante fossero molto strane, riscontrarono un buon successo in quanto puntavano al (reale) fatto che senza provare la console di persona non si poteva neanche avere un idea di come fossero i giochi. Il lancio era prossimo e il Virtual Boy doveva competere con Sega Saturn e Sony PlayStation, console ben fuori dalla sua portata e con… più colori!

(Perché scappare dal Virtual Boy? Non dovrebbe essere una console rivoluzionaria?)

Il Virtual Boy fu rivelato al pubblico in Giappone il 15 Novembre 1994, per lo Shoshinkai Software Expo, esattamente una settimana prima del lancio del Sega Saturn. Le reazioni del pubblico furono miste: da un lato la gente apprezzò la grafica (simil) 3D ma dall’altro rimase delusa per il singolo colore rosso e l’esorbitante prezzo di 15.000¥ (199,99$), molto più alto del prezzo di un Gameboy o persino di un Super Nintendo, macchine che offrivano un alternativa già visivamente superiore (pur essendo 8 e 16 bit rispettivamente).
Qualche mese dopo il Virtual Boy riscontrò gli stessi pareri negli Stati Uniti ma lì gli venne dato il beneficio del dubbio: il NES non riscontrò grandi pareri positivi alla presentazione, né il landscape videoludico sembrava a loro favore ma alcuni erano sicuri che il Virtual Boy avrebbe venduto almeno 3 milioni di unità. Tuttavia c’era un punto ancora non chiaro sulla vita di questa nuova console, ovvero la sicurezza della console stessa. Quei pochi che comprarono le prime unità sia in Giappone che negli Stati Uniti nelle date del lancio (21/07/1995 e 14/08/1995) trovarono una confezione colma di avvertenze per la salute dei giocatori, persino sulla facciata principale della scatola! Si sparse immediatamente la voce, soprattutto in Giappone, che il Virtual Boy fosse un dispositivo tremendo per gli occhi dei giocatori e che avrebbe potuto portare persino alla cecità. In realtà, a questo punto bisogna spezzare una lancia a favore del Virtual Boy e sfatare un mito che da sempre avvolge questa console:  Nintendo chiese a Reflection Technology di condurre ricerche sulla sicurezza di questa nuova console e pertanto un Virtual Boy fu mandato allo Shepens Eye Research Institute a Boston. I risultati furono più che normali, il Virtual Boy era a ogni modo sicuro ma era comunque raccomandabile non farlo usare ai bambini sotto i sette anni poiché lo sviluppo dell’occhio, a quell’età, non è ancora completo. Tuttavia Nintendo rilasciò il Virtual Boy prima ancora che le ricerche fossero concluse ed è per questo che la console fu imbottita di avvertenze (probabilmente se avessero aspettato i risultati dei test probabilmente ne avrebbero potuto mettere meno); il tutto era aggravato inoltre da una nuova legge approvata intorno alla metà del 1995 in Giappone con la quale le compagnie produttrici di beni di consumo diventavano più facilmente imputabili in caso di malfunzionamenti o incidenti di varia natura che coinvolgessero i loro prodotti. Nonostante fosse possibile sistemare il contrasto e calibrare le lenti del Virtual Boy, i legali Nintendo non volevano correre rischi e perciò armarono la console di avvertenze e convinsero gli sviluppatori ad inserire nei loro giochi un cronometro al termine del quale fa apparire dei messaggi che invitano il giocatori a fermarsi per un break.
Il lancio in Giappone passò quasi inosservato e la produzione della console fu già fermata nel Dicembre dello stesso anno; queste furono in realtà “buone notizie” per gli Stati Uniti, nei quali si può dire che la console ebbe una vita migliore. Durante la prime settimane vendette addirittura di più del Sega Saturn e tagliando la produzione in Giappone si poterono permettere un price drop drastico di soli 99$ per il Natale del 1995. Ciò non bastò per salvare questa macchina e, nonostante gli sforzi, la console non decollò mai, né ebbe mai una fanbase solida o un parco titoli interessante (giochi nettamente migliori erano reperibili su Sega Saturn, Sony PlayStation e persino Gameboy e Super Nintendo); le figure di vendita si chiusero per 770.000 unità totali fra Giappone e Stati Uniti, il Virtual Boy non raggiunse mai né l’Europa né l’Australia.

(Un overview di tutti i giochi presenti su Virtual Boy da parte dell’utente Dubbloseven)

Chiusa una porta, si apre un portone

Anche se nuovi giochi furono annunciati per l’E3 del 1996 (un gioco di Worms, un porting di Goldeneye 007, un gioco di carri armati ispirato alla demo di Reflection Technology e altri) Nintendo interruppe la produzione del Virtual Boy di lì a poco in modo che sia loro che i suoi utenti si potessero concentrare sul Nintendo 64, vero successore del Super Nintendo; i rimanenti Virtual Boy rimasti nei negozi furono venduti intorno ai 20$. Insieme ai giochi, altri prodotti non arrivarono mai a quei pochi consumatori, come lo stand aggiustabile e il link cable che, esattamente come quello del GameBoy, avrebbe permesso di collegare due Virtual Boy per il multiplayer. Nintendo riuscì a spostare l’attenzione dei fan al Nintendo 64 e il Virtual Boy, essendo stato una vera e propria meteora, fu dimenticato di lì a poco. All’interno della compagnia il Virtual Boy fu visto come una disgrazia, e Gunpei Yokoi si sentì responsabile di ciò che successe; Hiroshi Yamauchi però era tranquillo e, nonostante Yokoi si addossasse la colpa del fallimento dell’intero progetto, non diede mai la responsabilità di ciò che successe al suo collaboratore.

Yokoi si sentiva ugualmente coperto di vergogna. Il Virtual Boy doveva essere il suo ultimo prodotto prima del suo programmato (e meritatissimo) pensionamento a cinquant’anni ma l’insuccesso di quest’ultimo lo spinse a restare in Nintendo ancora per un po’. In molti riportano che il Virtual Boy sia stata la causa del suo presunto licenziamento, ma non è così (in quanto in primo luogo non fu licenziato, ma si ritirò di sua spontanea volontà): Gunpei Yokoi di lì a poco tornò a interessarsi del GameBoy, e presto lanciò nel mercato il GameBoy Pocket, un nuovo successo per Nintendo nonché suo vero ultimo prodotto nella compagnia.
Di solito, in Giappone, quando persone chiave come Gunpei Yokoi vanno in pensione è tradizione lasciare un ultimo segno della loro permanenza nella compagnia, sia come lascito sia per dare un ultimo sprint prima del meritato riposo; non poteva di certo andar via col Virtual Boy, il GameBoy Poket si rivelò il prodotto perfetto con la quale uscire di scena. L’abbandono di Gunpei Yokoi ebbe ripercussioni persino sulla borsa di Kyoto in quanto le azioni di Nintendo calarono drasticamente già dal giorno in cui andò via! Tuttavia i giornali di settore speculavano al licenziamento avvenuto sulla base dell’insuccesso del Virtual Boy. Yokoi sentì la pressione dell’opinione pubblica e decise di non darsi sotto: di lì a poco il leggendario inventore fondò la Koto Laboratory e la loro nuova console, il WanderSwan, fu presa in considerazione e successivamente prodotta dalla grandissima Bandai. Tuttavia Gunpei Yokoi non poté assistere né lancio nel 1999 in Giappone né al successo del WanderSwan in quanto morì in un incidente stradale nel 1997.

La Reflection Technology uscì distrutta dall’insuccesso del Virtual Boy, ma tentò di rifarsi con un nuovo prodotto chiamato Faxwiew, un piccolo dispositivo che permetteva di visualizzare i fax guardando attraverso un piccolo schermo, esattamente come il Private Eye o lo stesso Virtual Boy. Tuttavia nessuno finanziò questa invenzione e la Reflection Technology chiuse i battenti di lì a poco. Allen Becker cominciò invece a lavorare nel campo della purificazione delle acque per le nazioni in via di sviluppo, ma purtroppo si spense nel 2001, all’età di 53 anni.

(Allen Becker)

Per correttezza

Il Virtual Boy fu una console terribile, con una dubbia tecnologia e una grafica in grado di far venire il mal di testa a chi la usa, ma non è tutta da buttare.
Per quanto la si possa schernire, i giochi, nonostante la semplicità, sono ben lungi dal fare schifo, e perciò vogliamo rendere giustizia ad alcuni titoli di questa console, mai rilasciati per nessun’altra console. Esistono giochi che hanno davvero provato a trarre il massimo da questa console e dimostrato, per quanto possibile, che il Virtual Boy poteva realmente dare la sensazione di essere immersi in una realtà virtuale. Uno di questi giochi è certamente Teleroboxer, considerabile come una specie di spin-off della saga di Punch Out!!. Oltre al fatto di giocare con una visuale POV, dando già da subito l’impressione di essere all’interno del gioco, questo titolo sfruttava soprattutto lo strano controller del Virtual Boy che, in un certo senso, può essere considerato come una sorta di precursore dei controlli dual analog in quanto fu il primo ad includere due D-pad; al di là dei metodi di gioco, Teleroboxer è soprattutto un gioco molto divertente e se c’è un gioco per cui provare un Virtual Boy è proprio questo. Fondamentalmente, per quanto superficiale possa essere l’immersione, altri giochi che includono la visuale POV come Red Alarm, Bound High, Innsmouth no Yakata e Niko-Chan Battle meritano di essere provati con la console reale. Altri titoli come Mario Tennis, Mario Clash, Galactic Pinball e Waterworld (unico gioco basato su un film prodotto su questa console) sono  abbastanza interessanti e possono essere anche giocati anche con un emulatore, visto che gli effetti 3D non sono mandatori per questi titoli.
Discorso a parte va invece fatto per Virtual Boy Wario Land, altro grande titolo per i collezionisti di questa console; questo è considerato una vera e propria gemma del Virtual Boy e il fatto che sia rimasto relegato alla libreria della console e mai più rilasciato per nessun’altra riempie il cuore di tristezza (potrete comunque giocarlo con un emulatore). Per questo ci piacerebbe un giorno trovare per Nintendo Switch una collection con tutti i giochi mai usciti per Virtual Boy da giocare col nuovo headset VR della linea Nintendo Labo! Chissà se arriverà mai.

Non ci sono grandi premesse da fare per un collezionista o amatore che abbia intenzione di acquistare un Virtual Boy: assicuratevi solamente che il tutto funzioni regolarmente, soprattutto il sistema dei vetri riflettenti. Tuttavia, per voi che vi siete incuriositi leggendo queste righe, il Virtual Boy è raro e costoso e per quanto sia possibile trovarlo in vendita su siti come Ebay, e non ci sono grossi rischi di riceverne uno non funzionante, dovrete pagare ben più del suo prezzo originale. Certi titoli, essendo usciti alcuni solo in Giappone e altri solo negli Stati Uniti, sono rari e costosi e ancora non esiste, diciamo, una fanbase così grande che si stia mettendo a l’opera per produrre nuovi accessori, everdrive e pezzi di ricambio per questa console (e probabilmente non ci sarà mai). Esiste un sito in grado di produrvi una sorta di flashdrive per la console ma dovrete fornire al tecnico una cartuccia da sacrificare (e inoltre non sappiamo quanto sia affidabile). Acquistare questa console è solo una particolarissima e costostissima chiccheria ma… insomma, potreste dire di avere un Virtual Boy!




Hi, my name is… Hideki Kamiya

Dopo una breve pausa, riprende la nostra consueta rubrica sulle più importanti personalità del mondo del Game Design. In occasione dell’uscita del quinto capitolo della saga action più apprezzata degli ultimi anni, Devil May Cry 5, ci occupiamo della mente che ha dato i natali alle avventure di Dante: Hideki Kamiya. Classe 1970, Kamiya ha avuto l’arduo onere di provocare un violento scossone all’interno del genere d’azione in terza persona, da anni ormai stagnante nelle sue vecchie meccaniche logore e non al passo con i tempi. Facciamo però qualche passo indietro.
Kamiya inizia la sua gavetta in casa SEGA e successivamente passa alla Namco ma, nonostante una buona partenza nel settore, il nostro Hideki non si sente pienamente realizzato, costretto dalle case produttrici a lavorare come semplice artista senza alcuno spazio nelle scelte di game design. Decide così di migrare verso altri lidi di sviluppo, riuscendo a ricoprire il ruolo di designer in Capcom nel 1994. Il suo primo incarico con la casa di Osaka comporta una notevole dose di responsabilità sulle spalle di Kamiya, il quale si ritrova a dover portare avanti una saga che si preannunciava iconica già fin dal primo titolo: il designer viene affiancato al maestro Shinji Mikami nella lavorazione di Resident Evil 2, sequel dell’apprezzatissimo capostipite, ricoprendo il delicato ruolo di director.
Il nuovo capitolo della saga horror di Capcom doveva rivoluzionare le meccaniche alla base del precedente capitolo ed espandere l’universo di gioco, pur rimanendo fedele a se stesso. Mikami in prima persona era stato messo al comando dello sviluppo ma i vertici di Osaka non rimasero soddisfatti del lavoro compiuto, motivo per cui il team venne affidato al giovane Kamiya alla sua prima esperienza come direttore. Il prototipo di Mikami, lo storico Resident Evil 1.5, viene messo da parte dal nuovo team di sviluppo e il progetto prende una piega completamente diversa. Viene rivisto il gameplay, rendendolo più dinamico rispetto al primo episodio, viene stravolto l’impianto scenografico conferendogli un respiro hollywoodiano e ampliato enormemente il numero di nemici su schermo superando il limite di 7 zombie per schermata, aspetto che mette a dura prova le capacità tecniche della prima PlayStation. Vengono introdotti nuovi personaggi per dare continuità ai fatti raccontati nel primo capitolo, grazie all’apporto in sceneggiatura di Noboru Sugimura e per la prima volta fanno la comparsa i temibili Licker , divenuti presto le icone di Resident Evil 2.
Il gioco è apprezzato dai capoccia di Capcom e anche in termini di vendite e critica viene accolto positivamente, stabilendo numeri che permisero al lavoro di Kamiya di entrare a far parte della lista dei best seller Playstation. Uscito nel 1998, Resident Evil 2 è stato il primo grande passo per il designer che ha saputo dimostrare all’intero mercato il suo valore e la grande capacità di unire novità e tradizione, incontrando anche i favori di un pubblico che si faceva sempre più esigente e diversificato.

La carriera del giovane Kamiya è soltanto agli albori e l’esperienza al fianco di Mikami non è del tutto archiviata. Agli inizi degli anni 2000 gli viene affidato il compito di lavorare al quarto capitolo della saga di RE con l’obiettivo primario di dare una svolta totale alle meccaniche di gioco; ripartire da zero nel tentativo di allargare sempre di più l’utenza senza rinunciare all’altissimo livello qualitativo richiesto dal publisher. Un compito per niente facile a cui il nostro Hideki non si sottrae.
Aiutato un’altra volta da Sugimura alla scrittura, il progetto prende una piega totalmente diversa rispetto alle idee iniziali. Lo scenario di gioco viene stravolto a favore di una ambientazione più gotica e medioevale; le meccaniche da survival horror abbandonate per fare spazio a un approccio più votato all’azione e al dinamismo, gli sfondi prerenderizzati che caratterizzavano i capitoli precedenti vengono del tutto sostituiti da ambientazioni completamente in 3D, e di conseguenza anche la telecamera fissa lascia il posto a una camera più attiva e veloce. Del classico Resident Evil insomma rimane veramente poco ed è Mikami a suggerire di dare la luce a una nuova IP, sfruttando le grandi potenzialità del nuovo progetto e mettendo la sua creatura al sicuro da possibili contaminazioni che avrebbero portato la serie verso altri lidi.

Il team capitanato da Kamiya viene soprannominato Team Little Devils ed è proprio da qui che il director prende spunto per battezzare il suo ultimo lavoro: Devil May Cry. Uscito esclusivamente su PS2, il gioco diventa subito una devastante killer application per la casalinga di Sony e con il tempo raggiunge lo status di vero e proprio cult riuscendo a stupire per l’incredibile audacia di Kamiya nel saper unire alla perfezione meccaniche hack’n’slash con l’azione in terza persona. Adrenalinico, divertente e con un forte carisma, la prima avventura di Dante ha dato il via a una saga che oggi conta 5 episodi e un reboot distribuiti su tre generazioni di console. Tra alti e bassi, Devil May Cry è diventato velocemente un titolo di punta per la casa di Osaka, anche se il suo padre ideatore ne ha curato solamente il primo episodio per poi focalizzarsi su altri progetti.

Dopo il grande successo ottenuto con DMC, Capcom ripone piena fiducia nelle capacità del giovane designer tanto da concedergli carta bianca per i futuri progetti, ma non abbastanza da affidargli esosi budget. Così Kamiya mette in cantiere un prodotto atipico, unendo la sua passione per i vecchi giochi a scorrimento orizzontale con quella per i supereroi. Nasce un gioco talmente bizzarro da riuscire a trovare soltanto una piccola fetta di pubblico entusiasta, ma viene totalmente ignorato dalle grandi masse. Previsto inizialmente come esclusiva per Nintendo Game Cube e un anno dopo approdato anche sui lidi PlayStation, nel 2003 la Capcom distribuisce Viewtiful Joe. Seguendo le vicende di Joe e della sua compagna Go-Go Silvia, Kamiya imbastisce un beat’em up a scorrimento orizzontale che fa della sua cifra stilistica il maggior punto di forza. Tra citazionismi da otaku e scelte di gameplay atipiche, basate su una sorta di slowmotion controllato dal giocatore, il gioco racchiude in sé un potenziale che verrà fuori pienamente soltanto con il secondo capitolo. Purtroppo la saga non avrà lunga vita e dopo due capitoli principali, uno spin off sulla falsa riga del picchiaduro Super Smash Bros. e qualche exploit su portatile, Viewtiful Joe e soci sono stati presto dimenticati dal pubblico e da Capcom stessa, che riserverà al supereroe in calzamaglia rossa soltanto sporadiche apparizioni in altri titoli, come a dire “sì, ci piaci ma non così tanto da concederti un’ulteriore possibilità”.

Intanto, nei corridoi di Capcom, alcuni sviluppatori cominciano a sentire una certa insofferenza verso la casa produttrice, riguardo le sue scelte aziendali. Molti dei progetti in cantiere in quel periodo sono indirizzati con l’obiettivo di rischiare il meno possibile in termini di risorse ed investimenti. La dirigenza preferisce spendere budget in sequel di saghe che hanno dimostrato un ricavo sicuro e le creazione di nuovi brand non viene neanche preso in considerazione. Autori come lo stesso Mikami, Keiji Inafune, Atsushi Inaba e Masafumi Takada cercano di svincolarsi dal controllo dei vertici attraverso la creazione di team di sviluppo interni che rivendicano la loro indipendenza concettuale. Nasce così il leggendario Clover Studio, una piccola bottega delle meraviglie dove presero vita, oltre a Viewtiful Joe lo sfortunato God Hand e un secondo gioco di Kamiya: Okami.
È il 2006 quando il gioco viene pubblicato e fino ad oggi risulta essere il titolo tecnicamente più ispirato di tutta la produzione del designer giapponese. Okami è un vero e proprio tributo d’amore alle saghe preferite di Hideki, prima fra tutti un immancabile The Legend of Zelda, se non altro per le meccaniche di gameplay che strizzano continuamente l’occhio al capolavoro Nintendo; Kamiya non si limita a una vuota riproposizione degli stilemi classici della serie, ma aggiunge tasselli nuovi e originali, come la capacità del giocatore di pennellare letteralmente gli oggetti su schermo e di attaccare i nemici tramite questo magico strumento. E se un solidissimo adventure non dovesse bastare, i ragazzi Clover regalano ai giocatori uno spettacolo per gli occhi prendendo a piene mani dall’arte tradizionale del Sumi-e, ovvero la pittura a inchiostro e acqua. Uscito come esclusiva PS2, Okami non ha mai realmente brillato sul piano delle vendite, ma è stato così apprezzato nel lungo periodo che sono stati numerosi i porting operati da Capcom nel corso degli anni, portandolo su Wii e su tutte le console di attuale generazione attraverso i corrispettivi store digitali, dando la possibilità agli utenti di poter giocare a questa piccola gemma senza tempo.

Dopo la parentesi Okami, Clover Studio viene chiuso definitivamente da Capcom e gran parte del team si riunisce sotto un nuovo nome: lo stesso anno infatti viene fondata PlatinumGames, oggi famosa nell’intero globo per aver dato i natali ai migliori action degli utlimi anni. Grazie alla nuova indipendenza conquistata, i membri di Platinum iniziano a sviluppare giochi multi piattaforma sotto diversi publisher, mantenendo un buon margine di libertà creativa. Nel 2009 è sega la casa a finanziare i primi giochi del nuovo team a partire dal divertente Mad World uscito in esclusiva su Wii, passando per lo strabiliante Vanquish su PS3 e X-box 360.
Ed è sotto la nuova software house che Kamiya concepisce, a giudizio di chi scrive, il suo capolavoro: pubblicato per le console casalinghe di Sony e Microsoft, Bayonetta sarà la summa totale di ciò che il designer ha sempre cercato di raggiungere, l’action game definitivo. Il gioco è l’esatta evoluzione di quanto fatto con Dante su PS2: con un colpo di spugna Kamiya setta un nuovo standard per tutta la concorrenza e crea un manuale perfetto per le software house che da quel momento in poi vogliano cimentarsi nello sviluppo di un gioco d’azione. Con un palese riferimento allo storico Team dei “piccoli diavoli”, il designer chiama a raccolta i suoi migliori sviluppatori e crea il Team Little Angels lanciando più di una frecciatina alla sua ex compagnia, la Capcom. Kamiya alleggerisce i toni rispetto al più serioso e oscuro Devil May Cry: i personaggi si prendono meno sul serio e la storia, nonostante raggiunga momenti drammatici, non risulta mai pesante. Il gamepla è d’altro canto quanto di meglio si possa desiderare da un gioco di questo genere, la componente di attacco è incredibilmente bilanciata con la pericolosità e velocità dei nemici. Inoltre per poter uccidere un determinato tipo di avversari sarà necessario sbloccare il climax, ovvero una sorta di dimensione parallela dove Bayonetta può indistintamente colpire senza dare la possibilità al nemico di difendersi. Stilisticamente il gioco si discosta dalle avventure di Dante, preferendo un’ambientazione gotica che convive con strutture Liberty in grado di dare eleganza e un giusto tocco di femminilità e grazia. Tutto il gioco è un continuo ammiccare verso il giocatore e più di una volta vi ritroverete a parlare direttamente con la protagonista come se fosse cosciente della vostra presenza al di là dello schermo del televisore, una rottura della quarta parete inserita con intelligenza e grazia. Al momento della sua uscita il gioco riscosse un discreto successo di pubblico, purtroppo limitato dalla sventurata versione PS3 convertita in fretta e furia e senza le adeguate attenzioni. Il risultato fu talmente disastroso da inficiare il gameplay, con FPS ballerini e una resa grafica mediocre. Nel corso del tempo, e grazie alla mano vigile di Nintendo sul brand, il capolavoro di Kamiya ha ritrovato una seconda giovinezza passando da multi piattaforma a esclusiva totale per le console della casa di Tokyo, fatto che ha portato Bayonetta 2 (diretto da Hirono Sato) a essere una killer application per WiiU nel 2014 e che vedrà un terzo capitolo in esclusiva per la ibrida Nintendo nei prossimi anni.

L’ultimo gioco diretto da Kamiya risale però al 2013 ancora una volta su WiiU e rappresenta l’esperimento più bizzarro dell’ex Capcom: The Wonderful 101, un particolare incrocio tra un RTS e un gioco d’azione, basato sui riflessi e la coordinazione del giocatore. Il gioco chiama in causa un gruppo di supereroi determinati a salvare la terra dall’attacco di terroristi alieni nominati Geathjerk. Assurdo e improbabile, il gioco è un concentrato di idee geniali che sfruttano pienamente il paddone del WiiU. Graficamente piacevole e dal ritmo sfrenato, purtroppo non è stato considerato dal pubblico relegandolo nel girone dei giochi dimenticati troppo velocemente. È notizia recente però la volontà del designer giapponese di riportare la sua creatura all’attenzione del mercato attraverso un porting su Switch, occasione perfetta per incontrare il favore del pubblico su una piattaforma molto più popolare della precedente.

Il lavoro e la grande passione di Hideki Kamiya hanno portato una importantissima rivoluzione all’interno del genere action , creando due brand che hanno spinto i limiti fino ad allora raggiunti e che ancora oggi sono considerati dei veri e proprio cult nel settore. Nonostante la sua versatilità, il designer non sempre è riuscito a catturare l’attenzione del mercato mondiale pur continuando a regalare ai suoi sostenitori prodotti di una qualità estremamente elevata. In attesa di farci stupire ancora una volta dal padre di Dante non possiamo fare altro che augurare un futuro radioso all’intero team, abbracciando pienamente la loro filosofia di sviluppo che ha saputo donarci più di una soddisfazione da videogiocatore.




Hi, my name is… Michel Ancel

Nella storia dell’industria videoludica la maggior parte dei giochi in grado di trainare intere generazioni di designer e giocatori nascono da un’idea semplice, elementare ma che nella loro immediata intuitività lasciano un solco indelebile, un passaggio obbligato per tutto quello che verrà da quel momento in poi. È l’esempio della saga, ormai diventato uno dei franchising più redditizi del mercato, di Super Mario Bros. o quella di Sonic the Hedgehog rispettivamente di Nintendo e Sega. Prodotti che hanno saputo creare due icone indelebili del videogioco e che ancora oggi vengono facilmente identificati come simboli dell’intero settore. Come si può mai pensare di arrivare a concepire un personaggio con una forza iconica tale da essere accostato a questi due giganti? Un buffo omino francese è riuscito nell’impresa nell’ormai lontano 1995, ritagliandosi un piccolo spazio nella legenda: stiamo parlando di Michel Ancel, il papà di Rayman.

Classe 1972, Michel Ancel inizia la sua avventura come graphic artist alla Lankhor curando l’estetica dei mecha in Mechanic Warriors. L’abilità di riuscire a sfruttare la pochezza dell’hardware corrente riuscendo a disegnare splendidi sprite in pixel art convince la dirigenza di una giovane Ubisoft a chiamarlo tra le sue fila, affidandogli il delicatissimo compito di sviluppare un gioco che potesse donare alla compagnia un’identità, in grado di distinguerla dalla concorrenza. Ancel accetta la sfida e recupera il concept di un personaggio disegnato anni prima, influenzato da vecchie fiabe dell’est Europa. Inconfondibile, grazie al suo ciuffo biondo, il naso pronunciato e la pancia ovale dal colore di una melanzana; Ancel dà vita al personaggio di Rayman la prima vera e propria mascotte della compagnia transalpina. Il primo capitolo della serie si presenta come un classico platform a scorrimento 2D con tratti adventure. Lo scopo dell’eroe è quello di salvare il mondo dalle forze del male scatenate dal pericoloso Mr. Dark e per riuscire nell’impresa, Rayman dovrà salvare tutti gli Electoons e ripristinare l’equilibrio attraverso il Grande Protone, il cuore pulsante del mondo. Con questo primo capitolo Ancel entra a gamba tesa in un mercato in piena fibrillazione (la nascita del dominio Sony con PlayStation) e lancia in tutto il globo la sua nuova creatura, ridefinendo il concetto di platform 2D. Rayman è in grado di correre, arrampicarsi, attaccare i nemici dalla distanza, planare col suo ciuffo giallo in scenari pregni di una fantasia creativa spiazzante. Il mondo di gioco è curato nei minimi dettagli, i personaggi sono carismatici e divertenti e le composizioni musicali di Didier Lord e Stephane Bellanger, in grado di mescolare generi totalmente differenti tra loro in maniera impeccabile, stupiscono per la freschezza e originalità. Rayman entra prepotentemente nell’immaginario di moltissimi giocatori facendo la fortuna di Michel e sicuramente quella di Ubisoft che decide di lanciare il prodotto su più piattaforme, dall’ Atari Jaguar al Sega Saturn dimenticando però le sue origini: il 3 Luglio 2017 viene rilasciata una ROM contenente il prototipo di quello che sarebbe stato il primo episodio dell’uomo melanzana, confermando di fatto la tesi che il progetto in origine doveva sbarcare sui lidi del Super Nintendo abbandonandolo all’ultimo momento per un supporto su CD-rom molto più economico e funzionale. Ciò nonostante la creatura di Ancel fa il botto con le sue 10 milioni di copie vendute in tutte le edizioni, garantendo lunga vita a quella che sarebbe diventata una delle saghe più amate dagli utenti e consegnando alla storia un grandissimo capolavoro degno del suo successo.

Subito dopo la fine della produzione del primo capitolo, Ancel e il suo team si resero conto della mole di idee accumulate durante lo sviluppo; tante quante ne basterebbero per una seconda avventura. Tuttavia agli inizi dei lavori ci fu una svolta inaspettata: l’idea di un platform bidimensionale fu messa da parte per concentrarsi in qualcosa di nuovo al passo con l’evoluzione della grafica 3D. La concorrenza aveva già dimostrato come fosse possibile incastrare le meccaniche del genere ampliandole a dismisura grazie alla tridimensionalità (Super Mario 64, Crash Bandicoot, Sonic Adventure). Così nel 1998 Ubisoft pubblica Rayman 2: The Great Escape su tutte le piattaforme casalinghe divenendo sin da subito un successo planetario di critica e pubblico. Ancel decide di allargare l’universo intorno Rayman aggiungendo nuovi personaggi, abilità inedite e scenari radicalmente differenti a quelli presenti nel predecessore; i toni sono più cupi e l’atmosfera si fa generalmente più seria, pur non mancando una divertente dose di humor, tra gag e battute al vetriolo, mai banale e ben congegnate conferendo spessore ai personaggi che si fanno amare sin dai primi momenti. Il designer decide di affiancare al protagonista un ottimo comprimario come Goblox, che dal secondo capitolo in poi diventerà una presenza fissa nell’universo dell’uomo melanzana, affidandogli gran parte dell’aspetto comico del titolo in contrapposizione con la maturità raggiunta dal protagonista. Fanno la prima apparizione anche i Teens strani ominidi dal naso lungo che si riveleranno utili per salvezza del mondo, la fata Ly La personaggio che non verrà più ripreso negli episodi canonici della serie ma che traccerà la via per tutti i personaggi femminili e un nuovo villain: l’ammiraglio Razorbeard un cattivissimo pirata robotico intento nella conquista di tutto ciò che lo circonda. Il lavoro partorito da Ancel e il suo team si rivela un prodotto perfetto in ogni suo aspetto e una validissima continuazione del percorso tracciato con il primo capitolo. Il designer crea un platform tridimensionale gigantesco, prendendo le dovute distanze con i suoi diretti oppositori per creare qualcosa di unico e in qualche maniera rivoluzionario. Universalmente riconosciuto come uno dei più bei giochi della storia, Rayman 2 aggiunge un ulteriore tassello al mosaico di Ancel, portando la sua creatura al massimo compimento concettuale. Con il secondo capitolo di Rayman il nome del designer esplode in tutto il mondo e da questo momento in poi gli viene conferita la più totale libertà creativa necessaria per sviluppare le sue opere future, senza limiti di sorta.

Arriviamo così agli anni 2000 nei quali Ubisoft sente la necessità di sfruttare al meglio il brand, inserendo il personaggio dell’uomo melanzana in inutili spin-off (Rayman M, Rayman Rush) che, pur non essendo un completo fallimento di vendita, nulla aggiungono alla saga che ormai si regge benissimo in piedi da sola. Nel 2003 la casa di produzione francese pubblica il terzo capitolo Rayman 3: Hoodlum Havoc questa volta senza la direzione del padre creatore. Il design della maggior parte dei personaggi viene ritoccato e modernizzato, la componente platforming leggermente ridimensionata per fare spazio all’aspetto più action e tattico. I toni vengono smorzati dalla continua ironia dei personaggi e da una sapiente rottura della quarta parete. Vengono introdotti power up ed un sistema di combo a punteggi per invogliare il giocatore a ripetere i livelli in cerca del massimo score possibile. Nonostante la mancanza di Ancel, il terzo capitolo si dimostra all’altezza della situazione, senza grosse sbavature nel gameplay e con un lato tecnico impeccabile per l’epoca. Il design dei personaggi e delle ambientazioni è piacevole e mai stancante. La trovata delle combo multiple si rivela azzeccata e spinge il giocatore a portare al massimo la sua bravura e i suoi riflessi. Il nuovo villain, il Lum cattivo Andrè, insieme ai suoi sgherri svolge egregiamente il suo compito e gli autori sono riusciti a dare il giusto carisma e simpatia senza risultare fuori contesto o ridondanti. Tutto risulta fresco e moderno grazie a un gameplay più frenetico rispetto al passato, riducendo di molto l’esplorazione del capitolo precedente. Ancel non ne fu pienamente convinto dichiarando che la sua idea era profondamente diversa, ma le vendite su tutte le piattaforme di quarta generazione furono soddisfacenti per i dirigenti Ubisoft che decisero di scommettere ancora su questa saga.

Nel frattempo Michel lavorava a quello che probabilmente è il suo più grande capolavoro, passato in sordina a causa di scelte commerciali di Ubisoft poco condivisibili; si tratta di Beyond Good & Evil, uscito lo stesso anno su PS2, Xbox e GameCube.
Nessuno si sarebbe aspettato da questo gioco una tale profondità nei temi e nelle intenzioni. Un’action adventure che va oltre la sua origine di medium d’intrattenimento, scavando nella natura umana/umanoide dei personaggi tirati in ballo. La storia si focalizza sulla protagonista Jane rimasta orfana in tenera età e accolta dal maiale senziente Pei’j. I due insieme fondano una casa di accoglienza per orfani dove vivono e trascorrono la maggior parte del loro tempo libero: Jane infatti lavora come fotografa d’inchiesta freelance per varie testate, Pei’j invece si occupa della manutenzione del casa e della creazione di congegni meccanici utili alla protagonista. L’apparente serenità delle loro vite verrà sconvolto a causa di un improvviso attacco da parte dei DomZ, entità aliene in grado di nutrirsi attraverso le energie vitali degli essere viventi. Con colpi di scena inaspettati e voltagabbana pronti a mettere in discussione le posizione e le ambiguità dei personaggi, Ancel descrive una realtà incredibilmente complessa ed efficace, arrivando a toccare corde emozionali raramente raggiunte in un titolo del genere. La psicologia e le relazioni tra i protagonisti ricorda i celebri lungometraggi di Hayao Miyazaki per la sensibilità con cui vengono proposte certe tematiche, senza mai incappare nell’errore di risultare pedante e retorico. Tecnicamente tutto si presenta in maniera superba, con modelli poligonali e animazioni dettagliatissime, un gameplay vario e sempre divertente, esente da momenti di stanca e ripetitività, un accompagnamento sonoro di primissimo livello con le musiche scritte dall’artista Cristophe Heràl che ritroveremo insieme al designer in progetti futuri, scenari straordinariamente vivi e complessi che strizzano più volte l’occhiolino a giganti della letteratura come il Fahrenheit 451 di Ray Bradbury o 1984 di George Orwell, con la loro paranoica chiave di lettura di un mondo oppresso e compiaciuto della propria obbedienza civile. BG&E è un titolo splendido, magistralmente diretto da una mano delicatissima e in stato di grazia; Ancel alza ancora una volta l’asticella qualitativa consegnando ai giocatori un gioiello più unico che raro. Un prodotto imprescindibile e di smisurata bellezza che purtroppo ha visto soffocare le proprie aspirazioni (originariamente concepito come una trilogia) a causa di vendite mortificanti, decretate da una finestra di lancio sbagliatissima per una nuova IP; il titolo si trovò a gareggiare con un altro prodotto Ubisoft sotto il periodo di Natale: Prince Of Persia: Le Sabbie del Tempo, maggiormente spinto da una campagna pubblicitaria assordante che lasciò nell’ombra dell’indifferenza da parte del pubblico il capolavoro del designer francese. La critica al contrario lo accolse con grande calore definendolo il gioco d’avventura più bello della generazione insieme al monumentale The Legend of Zelda: Wind Waker. A causa del flop, il titolo venne reso disponibile dopo pochi mesi con un significativo sconto del 70% sul prezzo di base, nella speranza di spingere le vendite in maniera piuttosto vana. Solo con la rimasterizzazione in HD del 2012 il gioco vide riconosciuti i suoi meriti dalla utenza che spianò la via alla produzione di un prequel, annunciato per la scorsa generazione e ancora in fase di sviluppo. Non si hanno notizie sulla sua eventuale data di uscita e su quale piattaforma sbarcherà definitivamente, ma rimaniamo fiduciosi in attesa di notizie da parte di Ubisoft.

Arriviamo così al 2005 anno in cui Ancel si trova lavorare a un progetto atipico rispetto ai suoi precedenti lavori. Infatti il designer viene contattato personalmente dal regista di blockbuster Peter Jackson, da sempre amante dei videogiochi e profondo stimatore del lavoro di Ancel, per lavorare al tie-in della sua ultima pellicola, ovvero il remake del classicissimo King Kong. Il team guidato da Michel sviluppa un first person shooter con l’intenzione di creare un’altissima immedesimazione da parte del giocatore, eliminando qualsiasi indicatore su schermo e lasciando tutto lo spazio libero alla visuale in game. Quello che ne viene fuori è un ottimo gioco su licenza, probabilmente uno dei migliori mai prodotti, che riporta fedelmente l’atmosfera della pellicola riuscendo a creare una genuina sensazione di scoperta e di costante precarietà, minacciati dai pericoli incombenti da ogni angolo. Tecnicamente, il team di sviluppo, spreme al massimo le capacità degli hardware disponibili, supportati anche da un cospicuo budget di fondo. Questa volta riesce ad accontentare tutti sia nei numeri che nella critica di settore, incassando vendite che riescono a soddisfare le aspettative di mercato (si parla di 5 milioni di copie, mica male per un gioco su licenza) e portando a compimento un altro grande lavoro del designer, che non si farà ricordare di certo per questo prodotto ma che dimostra ulteriormente la propria versatilità e lungimiranza nel campo.

Da qui in poi Ancel si prende una lunga pausa durante la quale da a battesimo lo spin-off più longevo della saga di Rayman; ovvero Rayman Raving Rabbids. Il titolo viene presentato nel 2004 come un possibile ritorno dell’uomo melanzana, questa volta alle prese con una invasione di massa da parte dei Rabbids, conigli dotati di un quoziente intellettivo pari a un comodino in grado però di creare problemi al nostro eroe di turno. Il gameplay era pensato per sfruttare i sensori di movimento dei nuovi controller del Nintendo Wii, ma le cose alla fine andarono diversamente. Ubisoft decise di mettere tutto in discussione e il franchise dei Rabbids prese una via autonoma e nettamente diversa dalle idee iniziali. La serie divenne presto un successo di vendite grazie alla decisione di sfruttare i nuovi personaggi in un contesto da partygame. I capitoli uscirono uno dopo l’altro perdendo presto lo smalto di novità e divertimento, uscendo a cavallo tra due generazioni di console. Gli unici titoli degni di nota sono il divertente puzzle platform Rabbids Go Home, uscito nel 2009 sulla piattaforma casalinga di Nintendo, che decise di staccarsi dalla schiera di giochi da festa riuscendo, meglio dei capitoli precedenti, a sfruttare la simpatica antipatia dei protagonisti conigli e lo strategico a turni Mario + Rabbids Kingdom Battle, giunto nel mercato nel 2017 come un fulmine al cielo sereno; sviluppato dalla italiana Ubisoft Milano su Switch in collaborazione con una Nintendo che stranamente si apre a nuove possibilità di sfruttamento dei propri marchi, il gioco sorprende per la capacità di sapere coniugare due titoli molto distanti tra loro in un contesto inedito e ben architettato. I Rabbids divennero rapidamente un fenomeno di massa nel mondo, con milioni di copie vendute, gadget e corti animati dedicati totalmente a loro mettendo in secondo piano Rayman che nel frattempo rifletteva in silenzio sul suo destino.

Nel 2011 Ancel riporta al centro dell’attenzione la sua preziosa creatura con il bellissimo Rayman Origins uscito su PS3, Xbox 360, Nintendo Wii e console portatili. Una sorta di reboot della saga, una partenza da zero ritornando alla essenza originale: il platform a scorrimento bidimensionale. Grazie al nuovo engine grafico proprietario (il versatile UbiArt Framework) il team  riesce nell’impresa di regalare ai giocatori un vero e proprio cartoon interattivo. Il tratto dei personaggi è disegnato a mano, così come gli scenari e qualsiasi altro elemento in game; differendo però concettualmente nello stile rispetto al capostipite; qui tutto è molto più caricaturale e smaccatamente ironico e autocitazionista. Il level design è quanto mai brillante e puntuale; ogni movimento è studiato nel millimetro e la sensazione di frenesia incontrollata è ripagata da una repentina soddisfazione da parte del giocatore nel vedere sbizzarrirsi in movimenti acrobatici e precisi. Tutto è studiato al minimo dettaglio, dalle divertentissime animazioni, al design esagerato dei personaggi, alle sonorità disimpegnate ma assolutamente orecchiabili e ben orchestrate (qui ritorna Christophe Heràl alla cabina di regia). Ancel da la possibilità di giocare in multyplayer locale scegliendo di porre come protagonista indiscusso non solo Rayman ma anche gli amici di lunga data, ritornano così Globox e i Teens più altre varianti dell’uomo melanzana. Ancora una volta il brand riesce a rinnovarsi ma anche a rimanere fedele a se stesso, portando nuovamente in auge un genere che molti davano per morto e superato, diventandone al tempo stesso uno dei maggiori esponenti moderni. Le vendite furono solamente discrete ma col passare del tempo e del passaparola anche Origins venne accolto positivamente dal pubblico. Sorte che capitò al suo sequel: Rayman Legends, uscito nel 2013. Ubisoft ebbe da affrontare una gestazione complicata del titolo, annunciato in pompa magna come esclusiva per lo sfortunato WiiU ma subito ritrattato e fatto uscire per tutte le altre console domestiche. Legends riprende il discorso lasciato da Origins e lo trasporta in un mondo atemporale, dove Medioevo e antica Grecia si ritrovano a confronto fra loro. Niente di innovativo e rivoluzionario rispetto al predecessore ma comunque l’ennesima ottima prova di una mente geniale come quella di Ancel che sembra non voler stancare mai. Un nuovo inizio di una saga che oggi non ha chiara la direzione da intraprendere. Vedremo presto un Rayman 4 o dobbiamo aspettarci un nuovo capitolo in due dimensione sulla fasla riga degli ultimi? Nell’attesa Ancel si concede un’ulteriore pausa dalla serie lavorando al secondo capitolo dell’incompreso Beyond Good & Evil e a Wild, un procedurale preistorico annunciato al Gamescom nel 2014 per PlayStation 4 ma misteriosamente sparito nel nulla.

In conclusione Michel Ancel pur non avendo lavorato a moltissimi titoli ha lasciato chiaramente una traccia nell’evoluzione del videogioco, confermandosi più volte come uno dei più importanti Designer contemporanei; riuscendo a innovare il genere del platform come solo il maestro Shigeru Miyamoto ha saputo fare (non è un segreto la loro stima reciproca) e a creare un’icona per moltissimi videogiocatori. Ancel ha sempre giocato sulla forza caratteriale dei propri personaggi infondendo tutto l’amore e la passione per il proprio lavoro. Una mente geniale che gioco dopo gioco riesce a rinnovarsi senza perdersi nel riciclo di se stessi; rispettoso delle esigenze del proprio pubblico e catalizzatore di ricordi ed emozioni che solo un mezzo come il Videogame riesce a trasmettere; attraverso un plasticoso Joypad e l’intimità del salotto di casa.




NOstalgia

Una delle notizie più importanti della settimana è sicuramente la line-up dei venti giochi annunciati per PlayStation Classic: una serie di titoli che, nella comunità videoludica, ha lasciato più dubbi che certezze, soprattutto in base all’elevato costo del prodotto (100€ tondi tondi). Ma andiamo ad analizzarli uno per uno:

  • Battle Arena Toshinden: è il primo picchiaduro 3D uscito per la console di casa Sony. All’epoca generò anche un piccolo interesse (addirittura la rivista Game Power gli diede un pazzesco 105/100!), ma diciamo la verità: era brutto allora, ed è incredibilmente brutto dopo più di vent’anni dalla sua uscita, soprattutto se paragonato a Tekken, che uscì poco dopo. Avrei preferito molto di più Soul Edge, la base dell’odierno Soul Calibur.
  • Cool Boarders 2: il migliore della serie, con molta probabilità… però, se proprio dovevamo buttarci sugli sport estremi, non era meglio un Tony Hawk’s Pro Skater, titolo molto più iconico?
  • Destruction Derby: qua non ho niente da dire. Anche se, preferisco il seguito che migliora le buone cose viste nel predecessore. Però una buona scelta, nel complesso.
  • Final Fantasy VII: capisco enormemente il valore storico di questo titolo per PlayStation. D’altronde, è stato il primo della serie “sbarcato” sulla console Sony dopo anni sulle console Nintendo… però, con un remake in arrivo (ok, non si sa quando, arriverà) avrei preferito una scelta più traversale come un Suikoden II o un Legend of Dragoon. Però, ripeto, capisco la sua presenza.
  • Grand Theft AutoRockstar lo rese abandonware su PC anni fa, insieme al secondo. Scelta illogica sotto ogni punto di vista, anche perché si parla di un titolo che nasce e diventa di culto su PC, per poi esplodere del tutto solamente col passaggio alla terza dimensione su PlayStation 2.
  • Intelligent Qube/Kurushi: qui voglio spezzare una lancia a favore di questo puzzle. Non è il migliore dell’intera libreria PlayStation (a quello ci arriveremo dopo), però apprezzo che abbiano messo un titolo contenuto nella storica Demo One. E poi, è pure un buon puzzle game, anche se non è invecchiato proprio benissimo.
  • Jumping Flash: stesso discorso fatto prima per I.Q., uno dei primissimi titoli PlayStation. Forse non invecchiato benissimo in alcune meccaniche, ma per il valore storico ci può stare.
  • Metal Gear Solid: niente da dire, imprescindibile. Senz’ombra di dubbio uno dei cinque titoli più importanti di tutta la sconfinata produzione PlayStation.
  • Mr. Driller: Bel puzzle, però qui avrei messo un Kula World che avrebbe accontentato molta più gente, essendo forse il puzzle più giocato dei tempi.
  • Oddworld: Abe’s Odyssee: altro titolo storico dell’epoca, e anch’esso contenuto nella Demo One. Peccato solo che Steam lo abbia offerto gratuitamente lo scorso Maggio, ed è almeno la seconda volta che succede.
  • Rayman: considerando la recente operazione remake per Crash Bandicoot, alla fine, proporre la “mascotte” Ubisoft è una saggia scelta. Anche perché, non vedo platform migliori del primo Rayman all’orizzonte, visto che le alternative sono tutte invecchiate malissimo (Pandemonium), sono titoli mediocri (Croc), oppure erano già orrendi ai tempi (Bubsy 3D).
  • Resident Evil: Director’s Cut: anche qui niente da dire. Titolo che ha segnato intere generazioni di giocatori. L’unica cosa che mi fa storcere il naso è che è tutt’ora disponibile sullo store PlayStation anche se solo per PlayStation 3, PS Vita e PSP. Stessa sorte condivisa anche dal sequel, altro titolo importantissimo nella libreria, che probabilmente avrebbe meritato uno spazio maggiore anche in questa lineup.
  • Revelations: Persona: capisco il clamore dato dal quinto capitolo, essendo stato uno dei migliori giochi del 2017, ma alzi la mano chi creda che il primo Persona sia un classico. Non era meglio un titolo veramente generazionale come Wipeout 2097 e che ai fatti rappresenta una delle assenze più gravi di questa line-up?
  • Ridge Racer Type 4: forse per correttezza storica avrei scelto il primo, ma RRT4 con molta probabilità è il migliore della serie. E in assenza di un pezzo da novanta come Gran Turismo, non presente per problemi con i diritti della colonna sonora, non si poteva scegliere altro.
  • Super Puzzle Fighter II Turbo: se proprio bisognava mettere un terzo puzzle (forse troppi?) non si poteva fare scelta migliore di questo spin-off di Street Fighter. Uno dei migliori titoli del genere per la console.
  • Syphon Filter: personalmente, lo ritengo la sorpresa inaspettata della line-up. Una buona mossa da parte di Sony che accontenta i tantissimi giocatori che chiedono ancora a gran voce un remake per PlayStation 4. Per testare le acque in prospettiva futura ci sta.
  • Tekken 3: IL picchiaduro per PlayStation, senza ombra di dubbio. Certo, stona un po’ vedere Tekken 3 insieme a Toshinden… a sfavore di quest’ultimo, ovviamente.
  • Tom Clancy’s Rainbow Six: ecco, questa è una scelta veramente incomprensibile. Davvero non c’erano titoli migliori a disposizione? Che poi, vorrei vedere chi riesce a giocare un FPS tattico con la sola croce direzionale, visto che PlayStation Classic non offre lo storico controller Dual Shock, scartato a favore del primissimo joypad. Schiaffo morale a tutti coloro che speravano in titoli storici come Wipeout, Tomb Raider o Castlevania: Symphony of the Night (sì, è uscito recentemente su Playstation 4 insieme a Rondo of Blood, ma è uno dei titoli più rappresentativi della console).
  • Wild Arms: stesso discorso per Syphon Filter, una gradita sorpresa per un gioco di ruolo che merita di essere riscoperto, visto che all’epoca arrivò in Europa in colpevolissimo ritardo rispetto all’uscita giapponese e americana.

https://www.youtube.com/watch?v=88ACUOvfDEw

Insomma, una lineup non proprio esaltante, soprattutto rapportata al prezzo elevato della console rispetto alle concorrenti del settore, come NES e SNES Mini di Nintendo o il C64 Mini. È altresì vero che è difficile scegliere venti classici di una libreria vastissima e piena di perle come quella della prima PlayStation, ma vedendo la lista citata poc’anzi, mi viene da pensare che Sony si sia limitata al compitino fatto giusto per entrare nell’ormai affollatissimo mercato delle retroconsole. In pratica, la possibilità di avere una lista fatta a nostro gusto e piacimento è in mano alla comunità hacker, esattamente com’è successo con le mini console di Nintendo. A questo punto la domanda è più che lecita: tralasciando il collezionismo, ha senso spendere 100€ per un oggetto che diventerà godibile solamente quando si apriranno le porte del modding? Se proprio si ha la necessità di rispolverare dei vecchi classici dell’era PlayStation, a proprio piacimento e senza spendere una cifra così alta, non ha più senso buttarsi su un Raspberry Pi, oppure una cara e vecchia PlayStation Portable, console che si trova a prezzi abbordabilissimi e che è considerata una perfetta macchina per l’emulazione? considerando la portabilità di quest’ultima, si ha pure una feature in più, rispetto a PlayStation Classic.
Indubbiamente la mini console di Sony sarà un successo di vendite e magari, in futuro, la casa giapponese ci riproverà con una ipotetica PlayStation 2 Classic. Dopotutto, Nintendo con il successo di NES e SNES Mini ha dimostrato che la nostalgia può trasformarsi in un’opportunità di mercato parecchio ghiotta. Ma, da videogiocatore trentenne che ha vissuto in pieno l’era della prima PlayStation, posso dire di esser rimasto parecchio basito (“F4”) davanti alla line-up della mini console e ho cominciato a pormi una domanda in particolare: qual è il target di PlayStation Classic? I trentenni, come me, che hanno vissuto quell’era? I ragazzini odierni che per motivi anagrafici non hanno giocato i classici di allora e che probabilmente, avranno riscoperto gran parte di essi tramite remake e remaster odierne, oppure tramite la vecchia e cara emulazione, cosa che di fatto offrono queste mini console?
Sono fermamente convinto che l’emulazione sia qualcosa di necessario per la preservazione videoludica, come dimostra il grande lavoro di Nicola Salmoria, creatore del MAME, progetto che continua ancora oggi grazie alla dedizione dell’omonimo team che ha permesso di salvare dall’oblio migliaia di giochi arcade che sarebbero stati persi nei meandri del tempo o come dimostra la grandissima scena abandonware su PC. Bella la nostalgia, ma sulle mini console metto l’enfasi sulle prime due lettere della parola:”no”.