StarBlood Arena

StarBlood Arena

StarBlood Arena è uno shooter 3D in prima persona a bordo di una navetta spaziale, ambientato in dodici arene da combattimento al chiuso.
Il titolo si piazza in quel filone inaugurato da RIGS: Mechanized Combat League, offrendo ben poche innovazioni al genere. Gli sviluppatori della WhiteMoon Dreams, provano a cavalcare l’onda della realtà virtuale per proporre un titolo che, senza un visore addosso, tende a svuotarsi di significato.
Starblood Arena è un prodotto ricco di difetti e probabilmente senza alcuna pretesa, carente sotto diversi aspetti, e nel migliore dei casi ci regala brevi momenti di divertimento, alternati a lunghe pause di caricamento.

StarBlood Network Reality Show

Il gioco ci introduce a un improbabile futuro popolato da diverse razze extraterrestri e dove letali reality show televisivi vanno per la maggiore.
Una ben assortita coppia di simpatici presentatori alieni, chiacchierando spesso degli affari propri, ci introdurrà alla scoperta dello studio televisivo del “famosissimo canale” StarBlood Network, guidandoci così a conoscere i comandi di guida delle astronavi che andremo a pilotare, senza dimenticarsi di prenderci un po’ in giro.
Il controller preposto allo scopo è il classico joypad, che con l’analogico sinistro ci permetterà di ruotare e muoverci, mentre con i tasti L1 e R1 sarà possibile traslare sull’asse Z.
Già dal tutorial si avverte un senso di malessere, “motion sickness” a cui sarà difficile sottrarsi.
Il più grave difetto del gioco è rappresentato proprio dalla chinetosi, difetto che, malgrado gli sforzi fatti dal team della WhiteMoon Dreams, non sembra sia stato del tutto risolto ma, a voler esser buoni, soltanto lievemente mitigato.
È proprio il “motion sickness” insieme alle lunghe attese tra un match e l’altro a spezzare l’unico aspetto divertente del gioco, rappresentato dal ritmo frenetico degli scontri nelle arene.

Pregi vs Difetti

La storia lascia molto a desiderare, costituendo soltanto un mero pretesto per i combattimenti tra razze aliene su delle mini astronavi, non assolvendo neanche al compito di fungere da collante alle varie modalità di gioco.
Per un imprecisato motivo, ci troviamo a partecipare a un letale reality show televisivo, dove impersoneremo uno dei 9 piloti disponibili fra le diverse razze aliene e umane. Ogni pilota comanderà una specifica navetta, che avrà differenti caratteristiche di difesa, velocità, ecc. e differenti armi primarie e secondarie ( laser, missili, bombe, ecc. ).
Le ambientazioni dei vari livelli, sono le 12 arene messe a disposizione per i combattimenti tra cui Catacombe, Miniera, Fabbrica, Grotta e Silo.
Gli scenari (interamente al chiuso) risultano così decisamente claustrofobici (caverne, cunicoli, anfratti), fattore che tende a intensificare i fastidi legati al “motion sickness”.
Superando i primi segni di chinetosi, con un po’ di buona volontà, si riesce a giocare qualche partita degna, a tratti persino divertente. In breve, l’iniziale sensazione di caos, si trasforma in una battaglia adrenalinica per lo più istintiva, senza richiedere grandi sforzi strategici e organizzativi.
Purtroppo il ritmo frenetico di StarBlood Arena – che di per sé rappresenta la caratteristica più entusiasmante del gioco – viene spezzato da lunghe fasi di caricamento tra un match e l’altro.
È possibile giocare in single player, in multiplayer e in modalità co-op: le sfide sono i classici deathmatch tutti contro tutti o a squadre, una versione del “capture the flag” con una palla e una sfida dove bisogna difendere le proprie basi da ondate di nemici che arriveranno all’infinito, anche questa affrontabile in solitaria o a squadre.
Il primo impatto con il comparto grafico è di certo positivo, grazie alla cura dei personaggi e ai loro dettagli nell’interfaccia di selezione dei piloti, ma si fa poi deludente durante le sfide nelle arene, dove presenta una grafica grossolana e spesso scarna.
Le mappe, seppur lievemente claustrofobiche, sono studiate abbastanza bene, concedendo lo spazio necessario per qualche discreta evoluzione tridimensionale.
Superato l’iniziale smarrimento e senso di caos, il gameplay vero e proprio risulta abbastanza divertente, e una volta presa confidenza con la mappa si tende ad approfittare di ogni anfratto per colpire il nemico, rimanendo comunque protetti.
Il sistema di puntamento risulta comodo e preciso: guidati dal movimento del PSVR, sarà sufficiente guardare direttamente il nemico, facendo collimare il mirino con la sua navicella e potremo colpirlo senza troppa difficoltà.
Assolutamente degno di nota è il comparto audio, che vanta sia delle azzeccatissime musiche metal, ottime per scandire il ritmo incalzante dei combattimenti, sia dei dialoghi in italiano con un doppiaggio di buona qualità.
I disagi legati al “motion sickness” rendono il gioco tutt’altro che gradevolmente fruibile: anche dopo aver superato l’iniziale chinetosi e aver fatto un po’ l’abitudine al movimento a 360°, di tanto in tanto si incorrerà in spiacevoli momenti dove potrà ripresentarsi il malessere, costringendoci così ad abbandonare temporaneamente il campo di battaglia, rompendo ancora una volta il ritmo del gioco.

Try before you buy

StarBlood Arena è, in definitiva, un titolo del quale si può tranquillamente fare a meno senza timore di star perdendosi un’impareggiabile esperienza VR, portando a sconsigliarlo con decisione chiunque abbia riscontrato in passato qualche episodio di “motion sickness”.
Gli “stomaci d’acciaio” che vorranno mettere alla prova le proprie doti di immunità alla chinetosi, prima dell’acquisto, potranno provare la demo gratuita scaricabile dal Playstation Store, mentre per i possessori di Playstation Plus il titolo è disponibile nella line-up di febbraio, figurando per il secondo mese consecutivo (come già accaduto nei due mesi precedenti con Until Dawn: Rush of Blood del quale trovate qui la nostra recensione).




Dreams: il videogioco che risveglia la creatività dei giocatori

La maggior parte delle case ha al proprio interno oggetti artistici che non vengono utilizzati, dalle chitarre ai  kit da origami. Nonostante siano a portata di mano, la maggior parte delle volte non verranno mai utilizzati perché imparare a utilizzarli completamente da zero, molte volte, intimidisce i più. Media Molecule, game developer di Guildford, pensa che i videogiochi possano aiutare. Lo sviluppatore è lo stesso della nota IP Little Big Planet, serie di giochi di stampo platform che ha permesso agli utenti di creare e rimodellare il mondo a proprio piacimento con un editor composito e giocoso. Con quest’idea di fondo, Media Molecule ha speso gli ultimi cinque anni lavorando su Dreams, esclusiva Playstation 4 che permetterà di creare e condividere i propri piccoli mondi. Il gioco dovrebbe uscire durante il 2018 e offrirà un potenziale di libertà e creatività che nessun videogioco è riuscito a portare fino ad oggi.
Si potranno creare sculture di persone, oggetti, animali. Sarà possibile creare la propria musica, le proprie case, stazioni ferroviarie e tutto ciò che si vuole. Dopo la fase di creazione, sarà possibile camminare e interagire con il proprio mondo. Si potranno creare anche dei mostri, dei personaggi, livelli con delle piattaforme. Lo stile artistico rende il tutto molto più interessante, per cui anche un oggetto molto spartano può sembrare una meraviglia. Sarà letteralmente possibile creare e rendere “reali” i propri pensieri, per poter poi interagire con essi.

Minecraft, come Lego: Worlds, permette al giocatore di assemblare nuovi oggetti da alcuni blocchi già esistenti. Vari titoli hanno seguito questa falsariga, mischiando anche altri elementi che talvolta hanno dato vita a felici combinazioni (vedi Portal Knights, uscito a metà dello scorso anno); Dreams permette di creare i blocchi stessi, così da avere una libertà totale sulla creazione di qualunque cosa. Kareem Ettouney, il direttore artistico di Media Molecule, dice:

«I bambini sono nati liberi. Non hanno nessuna idea di ciò in cui sono bravi o meno. Gli dai in mano un pennarello e loro disegnano. Nessun bambino vi dirà “non ne sono capace”. Il talento, la capacità, è un concetto degli adulti, ed è stato creato da noi attraverso la visione dei risultati a scapito del puro divertimento. Il concetto in Dreams è quello di provare ad avvicinare le persone all’idea che tutte le discipline creative sono possibili per chiunque. La tecnologia è arrivata a un punto tale da poter esprimere noi stessi: potrebbe avvenire un rinascimento, e le persone sono pronte. Sono gli strumenti a non esserlo.»

La creatività ha comunque un prezzo. Prima o poi, se si vuole la qualità, si dovranno utilizzare i mezzi e gli strumenti opportuni. Gli illustratori e gli artisti utilizzano Photoshop, per esempio, per creare dei videogiochi sono utilizzati strumenti come Unity. Ovviamente ogni mezzo ha difficoltà di utilizzo. Questo è il punto in cui si fermano molte persone, poiché non hanno il tempo, il modo o la possibilità di poter utilizzare certi strumenti. Dreams punta proprio a evitare queste situazioni rendendo il tutto il più intuitivo possibile. Fare delle sculture utilizzando un controller Playstation 4, può essere molto intuitivo, oppure poter creare suoni o le animazioni più banali, come quello dell’apertura delle porte, con grande libertà, in aggiunta al fatto che per poter svolgere compiti diversi non si dovranno usare software o interfacce diverse. Kareem ha effettuato una “piccola” dimostrazione di ciò che si può fare su Dreams, creando una gigantesca città al neon su un terreno arido in circa venti minuti. Ovviamente i giocatori non saranno capaci di creare qualcosa di simile portata sin da subito, ma imparare fa parte del gioco stesso, ed è divertente a suo modo, poiché si potranno vedere i risultati del proprio duro lavoro.

Siobhan Reddy, il direttore dello studio di Media Molecule, dice:

«Io sono una di quelle persone che ha deviato dalla strada maestra dopo l’università, creativamente parlando. Sono diventato un produttore, quindi la maggior parte delle mie giornate non le passo creando , ma organizzando e dirigendol Dreams mi ha dato una possibilità di tornare dentro quel mondo. Dreams stesso è principalmente frutto dei tuoi sensi e dei tuoi pensieri, che è effettivamente ciò che sono la musica e l’arte e non ti impone di combattere contro un’interfaccia. Stiamo cercando di portare all’interno del mondo digitale tutto ciò che conosciamo riguardo la creazione e l’arte e che abbiamo acquisito con le nostre mani, i nostri occhi e le nostre orecchie. Ciò dà la possibilità di creare anche piccoli giochi.»

Reddy continua dicendo che ha iniziato a utilizzare Dreams per raccontare delle storie:

«Non so nemmeno da dove vengano fuori. Ho creato un gioco basato sul post-sbornia dopo la nostra festa di Natale. Mi dà moltissima libertà di espressione. E se ciò può accadere a me, allora può accadere agli altri. È il modo che intimidisce meno per portare a galla il mio amore per la creazione, perché sono capace di spingermi molto lontano nonostante io sappia davvero poco.»

Tutto ciò che viene creato su Dreams può essere trasferito e salvato in una gigantesca libreria virtuale. Se si è collegati online e qualcuno scolpisce una bellissima statua, per esempio, c’è la possibilità che essa appaia in altri mondi. Dreams incoraggia la collaborazione poiché nessuno, a parte un genio, può creare tutto da solo partendo da zero. Le persone che creeranno i propri mondi e i propri giochi avranno bisogno di una vastissima immaginazione e fonte di ispirazione da cui trarre spunto. I giocatori che non vogliono creare nulla, invece, potranno semplicemente godersi i mondi altrui giocando online e vivendo le avventure e le esperienze che offrono gli altri giocatori. In ogni caso, Dreams sfida il concetto di videogioco come qualcosa che viene consumato passivamente. David Smith, uno dei co-fondatori di Media Molecule e direttore tecnico, dice:

«Non penso che il desiderio di creare qualcosa svanisca. Tutti lo tratteniamo in qualche modo e sotto qualche forma. Quando scegli che vestiti indossare, che musica ascoltare, questi sono atti artistici. Sono atti umani molto importanti. Penso che noi ci mettiamo dei limiti a mano a mano che diventiamo vecchi, abbiamo più paura di fallire, o abbiamo meno tempo da investire su ciò che ci piace per vedere se porta a qualcosa. Per imparare a suonare il violino ci vogliono centinaia di ore prima di produrre dei suoni che non siano terribili. Ciò a cui punti inizialmente è suonare il violino e produrre dei suoni che siano buoni, ma a poco a poco diventerai sempre più bravo, con l’allenamento.»

Ciò a cui mira Media Molecule con Dreams è creare soddisfazione mettendo in collaborazione pensieri e sensazioni, con tutti i vantaggi che offre un videogioco: condivisione, interattività e uno scambio reciproco di conoscenze. Dreams non è creato al semplice scopo di far creare le cose al giocatore, ma per fargli credere e capire che loro possono effettivamente farlo e che ne hanno le capacità.
Di Dreams non si conosce ancora la data di rilascio, ma lo sviluppatore ha recentemente dichiarato che sarà compatibile anche con PSVR, rendendo l’esperienza creativa ancora più immersiva.




PUBG vs. Fortnite: i re della Battle Royale

Il mondo del gaming si è arricchito di nuovi giochi che hanno lanciato un genere adesso in auge in ambito videoludico, la Battle Royale. Il primo è PlayerUnknown’s Battleground, titolo basato su precedenti mod sviluppate da Brendan “PlayerUnknown” Greene su svariati giochi (ARMA 2 su tutti) prendendo ispirazione dal film giapponese Battle Royale. Ne è venuto fuori lo stand alone che è diventato nel 2017 il titolo più giocato di Steam, che ha infranto ben 7 Guinness World Record, e che vede il giocatore affrontare online 99 avversari in un deathmatch su un’isola gigante.
La storia del successo di PUBG e di questo genere, non nasce soltanto dall’intuizione di una sola persona che ha magicamente creato il gioco del momento; dopo il film del 2000 infatti il concept dell'”ultimo sopravvissuto” che deve aver prima ucciso tutti gli altri per continuare a vivere è stato ripreso più e più volte nel mondo del cinema, non lasciando indifferente l’universo videoludico nel quale ritroviamo le medesime meccaniche, senza seconde chance per i giocatori, come in Counter Strike.
Contemporaneamente un primo concept di battle royale nei videogiochi si presenta come mod per Arma 2, poi riadattato per Arma 3. Ovviamente non era ancora conosciuto come tale, ma era soltanto un assaggio di quello che Greene avrebbe creato con PUBG. Nel frattempo abbiamo un altro esempio di questa formula: stiamo parlando di H1Z1, che ha al suo interno una battle royale costituita da ben 150 giocatori e che ha permesso a Greene di muovere i primi passi in ambito professionistico come consulente, prima di essere chiamato dai Bluehole Studios per lo sviluppo di PUBG.

Il secondo è invece Fortnite, un gioco completamente oscurato da tutti i competitor all’uscita ma che ha saputo rilanciarsi, ispirandosi al sistema di PUBG, creando la Fortnite Battle Royale. La storia di Fortnite è singolare, anche se abbiamo poche informazioni a riguardo: sappiamo che il progetto è nato circa 6 anni fa e che durante gli anni è stato ripreso e abbandonato varie volte fino a quando, Epic Games, lo ha salvato dal completo oblio sfruttando la formula dell’early access per poterne portare avanti lo sviluppo. Di base doveva essere un gioco survival, in cui salvare il mondo da una apocalisse zombie. Ci si aspettava un buon successo di vendite ma, paradossalmente, non per la meccanica della battle royale.
Essendo giochi dello stesso genere hanno molti punti in comune. Analizziamoli uno alla volta.

La tensione

Senza tensione, un gioco di questo genere non avrebbe senso di esistere; tensione in grado di far restare accovacciato cinque minuti dietro un albero e in  grado di farci preoccupare del numero di superstiti round dopo round. Questa tensione è alla base del genere battle royale. Sia in PUBG che in Fortnite quindi, il silenzio è il vostro miglior amico: muoversi con attenzione è essenziale e, al primo cenno di rumore, un brivido salirà lungo la schiena per la paura di essere scoperti. È possibile giocare come ne I mercenari di Stallone ma si rischierebbe di snaturare il gioco, visto che in una Battle Royale si sopravvive con l’astuzia e non con la forza.
Questa sensazione tende a variare tra i due titoli: in Fortnite l’azione è più veloce; il cerchio velenoso che vi circonda si restringe più velocemente che in PUBG e la mappa è più piccola. PUBG  è al contrario un gioco nel quale i nervi vanno tenuti ben saldi perché semplicemente la partita dura di più. Difficile decretare il migliore in questo ambito, dipende dalle vostre preferenze, soprattutto in termini di durata.

Le mappe

La mappa in questo tipo di titoli, fa la differenza. Come già accennato, in Fortnite si ha la sensazione di giocare a qualcosa di già visto, con un po’ Minecraft e un po’ Team Fortress per citarne un paio, mentre grazie alla vastità della sue mappe PUBG si distingue. Andando più nello specifico nel titolo Epic vi è una sola piccola mappa rispetto a quella del rivale e inoltre, PUBG ha ormai introdotto Miramar, la mappa desertica che si va ad aggiungere a Erangel. Dalla sua Fortnite offre un design più cartoonesco, che per alcuni può risultare più gradevole.
Riguardo le mappe, è visibile a occhio che quelle in Player Unknow sono molto più vaste, offrendo molteplici strategie ma anche molti più rischi; implica anche una certa percentuale di fortuna poiché, se si sbaglia punto di atterraggio, si dovrà prendere un veicolo e rischiare di essere uccisi. In Fortnite questo non accade per un semplice motivo: come detto la mappa è più ridotta e facile da attraversare, e questo aiuta e non poco i giocatori a trovarne altri e a ucciderli facendosi strada per la vittoria.
PUBG offre più ripari sul territorio ma questo viene compensato in altro modo da Fortnite, che approfondiremo di più analizzando la tattica dei due giochi.

La tattica

La tattica da imbastire, se si vuole sopravvivere è differente, ma in tutti e due i casi fortemente rilevante. In Fortnite bisogna “craftare” per riuscire a costruire le proprie difese e per sopravvivere si ha bisogno di fantasia e inventiva; in PUBG è fondamentale trovare la posizione giusta e non si ha nulla a disposizione oltre la mappa e i loot già pronti.
Ma andiamo nel dettaglio per capire meglio cosa fare in uno e cosa nell’altro. In Fortnite, non appena a terra, avremo la possibilità di costruire quel che serve e, prima che inizi il livello; si avrà anche l’opportunità per creare il materiale distruggendo elettrodomestici, auto, ecc. Durante la fase di combattimento vero e proprio quindi, potremo creare delle posizioni rialzate e mura per proteggere noi stessi o il nostro team. Questo, darà vantaggio ai più veloci a costruire, per esempio, ripari rialzati che offrono una visuale migliore sul nemico.
In PUBG dovremo cavarcela con ciò che si trova in giro e non si avrà tempo di cercare nuovo equipaggiamento; saremo subito scaraventati nell’azione e molta importanza verrà data quindi ai ripari e agli edifici rialzati che danno ai cecchini l’opportunità di sopravvivere più facilmente. Comune a entrambi i titoli, è lo spostamento continuo, dato che si è circondati da una nube circolare di gas velenoso e, ogni posto ritenuto sicuro,  non lo sarà per molto.

Il combat system

Nonostante i due giochi siano molto simili, il sistema di combattimento è alquanto diverso, anche se valido per entrambi. In Fortnite vi è un solo tipo di mira, mentre in PUBG il tutto è strutturato diversamente: ne abbiamo di tre diversi tipi: l’Hip Fire che offre la possibilità di sparare a dispetto della precisione, ovviamente la classica opzione di mira, sempre in terza persona, e infine, quella che possiamo definire la modalità cecchino, medio/lungo raggio, l’ADS (aiming-down-sights) che trasposta il tutto in prima persona offrendo la possibilità di mirare in maniera precisa.
Per quanto riguarda le armi quest’ultimo stravince a mani basse su Fortnite: la loro quantità  è molto più ampia e a tratti, tende alla simulazione, mentre il sistema delle armi è più semplificato in Fortnite. Inoltre in Player Unknow, troviamo i veicoli che possono aiutare o danneggiare il giocatore durante il combattimento esplodendo.

Gli ultimi cinque minuti

Gli ultimi cinque minuti di gioco, sono quelli che decidono le sorti di una battle royale, dopo la “selezione naturale” susseguitasi e dove più forti hanno prevalso. È il momento in cui bisogna rimboccarsi le maniche e fare sul serio. Su Fortnite, gli ultimi minuti si svolgono all’interno di fortezze molto vicine e questo non fa altro che aumentare la frenesia da combattimento, dando una motivazione in più ai giocatori a migliorare il più possibile l’equipaggiamento prima di questo momento, poiché sarà essenziale sul finale di partita. L’ultima fase di PUBG, seppur piena di tensione è priva d’azione, i giocatori tendono a muoversi con poca avventatezza.

Le conclusioni

Sembra che la battaglia all’ultimo sangue tra Fortnite e PlayerUnknow’s BattleGround sia terminata. Si tratta di videogame molto validi e molto simili, anche se differiscono per alcune meccaniche il cui loro apprezzamento deriva essenzialmente dal gusto personale. Questo non ci esime dal dare un parere oggettivo: per quanto riguarda la mappa, nonostante la grandezza, PUBG offre meno spunti strategici mentre, discorso analogo, ma a parti invertite, per il combat system, dove, rispetto a Fortnite, bisogna agire con una tattica più articolata. La scelta è ardua e per questo motivo consigliamo entrambi i titoli: Fortnite  va benissimo per un divertimento più rilassato, mentre PUBG per una vera e propria sfida competitiva.




A metà della guerra: come attrarre nuovi giocatori?

Siamo in un periodo in cui gran parte dei giocatori più assidui hanno già operato una scelta: chi ha optato per Playstation 4, chi per Xbox One e chi per Nintendo Switch, senza contare quei tanti giocatori che hanno saltato la console per l’acquisto di un PC. Le tre grandi case produttrici stanno facendo di tutto per amplificare le utenze delle loro rispettive stazioni di gioco, abbassando i prezzi e cercando di portare nuovi titoliche possano attrarre l’utente medio.
Microsoft non ha iniziato questa generazione col piede giusto e la strategia di marketing, nonché alcune scelte azzardate come l’obbligatorietà di Kinect, gli si è rivoltata contro; al volgere di una nuova generazione è fondamentale che l’utenza della precedente passi alla nuova. Switch si trova in una posizione diversa rispetto a PS4 e Xbox One, sia perché è l’ultima arrivata, sia per la sua natura ibrida; Nintendo Labo è il chiaro segno che la storica compagnia giapponese sta tentando di andare oltre gli storici utenti, la cui media oscilla fra i 25 e i 40 anni, e attirare a sé nuovo pubblico. Switch sarà certamente arrivata tardi ma sta riuscendo a ritagliarsi uno spazio nelle case degli giocatori che già possiedono PS4 o Xbox One come seconda console.
Arrivati a questo punto nel mercato gli utenti sono diversissimi gli utenti, tutti con bisogni e storie diverse: quelli che hanno acquistato una console al lancio e sono in cerca di una seconda console, bambini che finora si sono arrangiati con le console della generazione precedente, casual gamer che vogliono comunque trovare un modo comodo e moderno per poter giocare a Call of Duty, FIFA o Madden di tanto in tanto… Esistono poi diversi modi per appellarsi a queste fasce di pubblico e per farlo bisogna prendere in considerazione dei punti fondamentali.

Fascia di prezzo

I soldi non fanno la felicità ma averli è necessario per considerare l’acquisto di una console! Per questo un buon prezzo è una delle chiavi per attirare nuovi utenti all’acquisto di un nuovo dispositivo. Per quanto PS4 Pro e Xbox One X sono i combattenti di un match senza esclusione di colpi, le vere protagoniste sono le console slim e ridisegnate, solitamente in bundle con qualche gioco particolare, che aprono la porta ai giocatori più squattrinati. Nintendo si trova in una posizione diversa in quanto, essendo la console più recente sul mercato, sta tentando di mantenere il prezzo di lancio il più a lungo possibile, dando agli utenti un nuovo modo di giocare; si sa, Nintendo è da sempre un brand che riesce ad attirare a sé hardcore gamer e famiglie e, Switch ci sta decisamente riuscendo.

Software per un pubblico più ampio

Siamo stati tutti testimoni del fatto che Nintendo Wii e i popolarissimi Wii Sport, Wii Fit, Wii Music e molti altri abbiano avvicinato giocatori mai presi in considerazione. Sony, che in passato era riuscita nell’impresa grazie a titoli come Buzz e EyeToy, a oggi sta faticando a ritagliarsi una fetta in questo mercato e ci sta provando tramite l’iniziativa PlayLink; anche se questi titoli si rivolgono potenzialmente a qualsiasi persona con uno smartphone, è improbabile che Sony indirizzi questa fascia di mercato verso l’acquisto di una console per piccoli titoli digitali, che dunque non godono di una buona visibilità. Certo, sono dei titoli molto divertenti ma probabilmente questi titoli non hanno certamente lo stesso appeal di titoli come Singstar.
Tuttavia, è da notare che Sony è la compagnia con la più ampia fascia di pubblico e dunque è quella che più si sta mettendo in gioco per soddisfare i giocatori più svariati: hanno potuto sviluppare titoli esclusivi sia per i giocatori più casual, come il remake di Ratchet & Clank, la serie dei titoli PlayLink, i svariati titoli VR, i giochi di baseball MLB,, sia per gamer più indirizzati verso generi specifici con titoli come Gran Turismo Sport, God of War, Horizon: Zero Dawn e The Last Guardian. Di certo Sony conta di più su titoli come questi ultimi ma il fatto di non lasciare indietro i giocatori più casual, e il fatto che queste siano esclusive PS4, è certamente un loro punto a favore.

E Nintendo Labo?

Tanti sono stati quelli che hanno visto con scetticismo la nuova mossa Nintendo quanti quelli che ne sono rimasti affascinati. Molti genitori potrebbero vedere in Labo una vera e propria fregatura e potrebbero essere molto scoraggiati a comprare essenzialmente dei pezzi di cartone molto costosi. Tante volte si tende a vedere Nintendo come una compagnia di giocattoli, intenti a consegnare il “giocattolo dell’anno”, e il NES mini ne è la prova; Nintendo Labo sicuramente non sarà da meno e con quasi certezza vedremo presto, magari il prossimo Natale, le vetrine dei negozi colme di questi stravaganti giochi/accessori. Quello a cui punta Nintendo è far sentire la propria presenza sul mercato, essere dappertutto per poter attirare l’attenzione di giocatori e non e spingerli verso l’acquisto di Switch e Labo. Il vero problema però sarà convincere i genitori a comprare questa nuova stravaganza, specialmente in combinazione con Switch; se i prezzi rimarranno gli stessi allora sarà molto difficile che i bambini troveranno Nintendo Labo e Switch sotto l’albero di natale.




Monster Hunter World: il contributo di Nintendo non va dimenticato

È un po’ triste vedere un franchise tipicamente associato alle console Nintendo spiegare le ali per migrare alla volta di altri sistemi videoludici; tuttavia siamo contentissimi di sapere che Monster Hunter World, uscito per Xbox One e Playstation 4, venda come il pane e si trovi in testa alle classifiche di tutto il mondo. L’ultima incarnazione della serie potrebbe non essere perfetta ma è comunque un ottimo sequel.
Per quanto possa essere difficile da accettare, la famosa serie Capcom aveva bisogno di passare alle console casalinghe e, dunque, a un utenza più ampia come quella su Xbox One e PS4 (nonché potenza, cosa che Switch non può permettersi); l’ultima volta che la saga è apparsa in una console casalinga è stato con Monster Hunter 3 per Wii nel 2009, dunque quasi dieci anni visto che il successivo Monster Hunter 4, rilasciato nel 2013, uscì per il portatile Nintendo 3DS. Il salto su Xbox One e PS4 potrebbe certamente dare più credibilità al brand e ampliare, decisamente, la già larghissima fan base a livelli mai visti prima.

La serie ne ha certamente goduto ma tutto ciò è forse un po’ difficile da accettare per Nintendo: il titolo è arrivato presto in cima alle classifiche inglesi durante la settimana di lancio e a oggi Monster Hunter World ha superato le cinque milioni di unità fra versioni fisiche e digitali (non dimentichiamoci che questo titolo dovrà ancora uscire per PC, il che porterà ancora più giocatori); le azioni Capcom hanno avuto un incremento del 4.9%, registrando il picco più alto in diciassette anni, e questo sottolinea i limiti della console Nintendo (sia in termini di potenza che di utenza).
La decisione di portare la serie su altre console si è rivelata vincente ma ciò non significa che la relazione fra Monster Hunter e Nintendo sia finita; la serie deve molto alla “Grande N” e giocatori e critici di tutto il mondo lo sanno. Questo nuovo titolo non è comunque esente da difetti: il matchmaking non risulta efficiente, almeno al lancio, tanto che i giocatori di vecchia data rivendicano le gesta dell’online sulle console portatili.

Quando la serie arrivò per la prima volta su Playstation 2 nel 2004 non fu un grande successo; fu con il passaggio su PSP che Monster Hunter definì il suo imperfetto online e si concentrò di più sul multiplayer. La serie riscontrò un modesto successo ma fu solo con il passaggio su 3DS e gli esclusivi titoli Nintendo (come Monster Hunter Generations) che ridefinirono la formula senza stravolgere il gioco di base, riscontrando così il successo meritato.
Ci duole ammetterlo, ma non vedremo mai Moster Hunter World per Nintendo Switch; sicuramente Capcom non vorrà fare un porting al costo di sacrificare il buon comparto tecnico che sta caratterizzando il suo successo nelle altre piattaforme. Tuttavia, Switch non avrebbe bisogno di questo specifico titolo, ma bensì una “sub serie” per la console Nintendo.

Un opzione per Capcom sarebbe quella di portare in occidente Monster Hunter XX, uscito in Giappone nell’Agosto 2017; questo titolo, essendo fondamentalmente un porting, non ha riscontrato un grosso successo. Capcom aveva grosse aspettative per la versione Nintendo Switch però, essendo uscito praticamente 5 mesi prima su 3DS, capirono che Monster Hunter XX, con le soli 100.000 copie vendute dopo la settimana di lancio, non avrebbe ottenuto risultati migliori sulla console ibrida, pur essendo un’esclusiva.
Tuttavia il successo di Monster Hunter World in occidente potrebbe convincere Capcom a rilasciare il titolo Switch nei rimanenti territori (lasciando perdere la release su 3DS); potrebbe essere un percorso rischioso e costoso per Capcom però, potrebbe rivelarsi un ottimo investimento per introdurre la saga ai possessori di Nintendo Switch di oltremare.
Un altro modo per rivedere Monster Hunter su Swich potrebbe essere il rilascio di un nuovo titolo esclusivo. Fra le due alternative è in realtà la strada più rischiosa e Capcom, solitamente, non è un publisher che scommette i propri soldi su uno spin-off quando può ottenere le stesse entrate, se non più grosse, con il rilascio di altri titoli classici (vedi Resident Evil su PS4 e Xbox One); tuttavia è un publisher che, con buona probabilità, avrà già preso in acconto il successo del nuovo titolo e il nuovo status tripla A di Monster Hunter. Inoltre Capcom sa benissimo quanto il contributo Nintendo sia stato decisivo per la saga, quindi è improbabile che una console come Switch, la cui utenza aumenta di giorno in giorno, rimanga senza un Monster Hunter per l’occidente.
Per adesso, possiamo solo incrociare le dita e sperare che un nuovo titolo della saga arrivi su Switch il prima possibile.




Teslagrad

Impugnate i joycon con dei guanti di gomma in modo da non prendere la scossa, arriva Teslagrad. Puzzle platformer veramente singolare, caratterizzato da un art style ben curato e molto delicato, è uscito originariamente per Steam nel 2013 e dopo essere apparso su Playstation 3, Playstation 4, Playstation Vita, Wii U, Xbox One, il titolo di Rain Games è approda anche su Nintendo Switch, una delle console che più sta valorizzando certi titoli indie e che sta dando grandi soddisfazioni agli indie developer e ai fan.

C’era una volta

Anche se quel “grad” nel titolo e gli omoni dalle uniformi rosse e i berretti in stile sovietico potrebbero farci pensare che il titolo possa essere ambientato in Russia durante la rivoluzione del 1917, Teslagrad ci propone un mondo fantastico con elementi, sì, propri dell’Europa, ma re-immaginati in una visione più libera e con sfumature steampunk. Vestiremo i panni di un ragazzino orfano che, in una notte buia e tempestosa, viene affidato ancora in fasce a una famiglia; il tempo passa, il ragazzo cresce, ma un giorno, in tutta sorpresa, la sua casa viene assediata dalle guardie reali. Sarà l’inizio di una fuga che ci porterà a una torre, un luogo misterioso nel quale si sveleranno di volta in volta tutti i retroscena di questo strano mondo in cui un potente re governa con pugno di ferro il suo regno.
Entrati nella torre, troveremo il primo oggetto che ci permetterà di risolvere i primi enigmi; capiremo presto che la meccanica principale di Teslagrad è basata su puzzle basati su polarità positivo/negativo, energie che potremo sfruttare per muovere blocchi caricandoli di una o dell’altra polarità e che ci permetteranno di compiere salti sfruttando l’attrazione o la repulsione e, col tempo, anche di controllare quasi totalmente le energie fino a dominare ciò che ci circonda; un concetto semplice ma molto interessante. Se si è un po’ pratici dei principi del magnetismo, si capiranno con molta facilità le meccaniche di questo titolo. Le nostre abilità ci porteranno sempre più in alto nella torre, collezionando man mano dei potenziamenti e scoprendo poco per volta i risvolti della lore di questo mondo, sia con i rotoli che andremo trovando progressivamente, sia con i siparietti con le marionette (delle vere e proprie “sale teatrino” in cui assisteremo a un piccolo spettacolo) e sia con i murales, i poster e le vetrate che svelano parti della trama; si può benissimo confermare che in Teslagrad nulla è espresso con le parole, lo storytelling è affidato interamente al comparto visivo che allieterà in tutto e per tutto i nostri occhi; lo stile grafico ricorda in qualche modo lo stile delle illustrazioni fiabesche europee, con colori cupi ma con qualche tonalità accesa che fa “vibrare” il disegno, e persino stampe di propaganda, ma tutto viene consegnato con una delicatezza tale da smorzare i temi malinconici della trama con dolcezza senza smontarne la serietà e restituendo, fiabescamente, una sorta di morale.

Due anime ma un identità povera

Il gioco si pone come un metroidvania ma, in realtà, al di là della mappa e del backtracking occasionale, ha ben poco in comune con i titoli più famosi del genere: la componente puzzle sovrasta quella action platformer: pochi, quasi nulli, i nemici durate le fasi d’esplorazione così come pochi sono i boss e sempre annientabili con una sorta di puzzle. Elemento inusuale per un metroidvania è il meccanismo “trial and error“, nonché l’assenza di barra della salute; questo sistema in Teslagrad è un po’ un’arma a doppio taglio in quanto permette, sì, un approccio progressivo al gameplay, totalmente personale e senza l’ausilio degli odiosi tutorial ma, in sede di boss fight, sarà solo motivo di fastidio, e ricominciare da capo una battaglia che richiede abilità anziché ingegno risulta veramente seccante, anche perché le sfide di fine livello sono parecchio lunghe.
La meccanica puzzle funziona, risulta vincente considerando il semplice e originale concetto di partenza, ma purtroppo serba in seno delle caratteristiche poco convincenti. Cominciamo dai controlli, un po’ “scivolosi”, “floaty” se vogliamo usare un termine anglofono forse più appropriato: il personaggio si aggrappa spesso ai bordi anche quando non serve, e controllarlo in fase di salto, specialmente quando una delle polarità è impiegata, è impresa tutt’altro che facile; per lo più, quando dobbiamo usare uno dei tasti d’azione, non sempre questi sembrano attivarsi alla nostra pressione. A volte certe azioni non vengono triggerate bene senza apparente motivo, tutto questo rovina l’esperienza di gioco frustrando il giocatore non perché il puzzle sia troppo difficile ma perché qualcosa non ha funzionato per via dei controlli. Il sistema di polarità, inoltre, per quanto possa sembrarci chiaro e semplice, non sempre funziona a dovere: spesso  la repulsione o l’attrazione dovute a una polarità convergente o opposta non hanno sempre la stessa “intensità”, dunque l’effetto che si crea non è sempre ciò che ci si aspetta e questo costringe talvolta a ripetere i puzzle (e, ahimè, le boss fight) più e più volte, a volte anche alla cieca perchè le nostre intuizioni a riguardo si esauriscono presto. Il gameplay si fa spesso frustrante, bisogna mettere insieme la pazienza necessaria per ricominciare e questo lede la rigiocabilità del titolo, che non gode, fra l’altro, di gran longevità: il vero finale di Teslagrad è fra l’altro accessibile collezionando tutti i rotoli presenti nella torre, e l’idea di tornare indietro alla ricerca degli oggetti mancanti non risulta piacevole per le considerazioni appena fatte. Inoltre, in osservanza al titolo del gioco (chiaro tributo al fisico Nikola Tesla), l’elemento fondante i puzzle, e dunque anche dell’azione platform, sono solo i giochi di polarità. Abbiamo già ribadito quanto la meccanica sia originale ma, tuttavia, duole notare come questo unico elemento di puzzle solving comporti una certa ripetitività; i giocatori che dunque sono alla ricerca di un gameplay vario e di più azione non troveranno certo pane per i loro denti. Abbiamo inoltre incontrato dei problemi spiacevoli per un gioco dei nostri tempi: è capitato più di una volta che in una delle stanze che l’intero sistema di visualizzazione venisse meno, che lo schermo del televisore si oscurasse completamente mentre di sottofondo restava il rumore dei passi e di altri movimenti; è il bug è risolvibile solamente tornando nel menù di Switch, che verrà visualizzato senza problemi, chiudendo e riavviando il software. Fortunatamente il gioco salva automaticamente a ogni stanza e perciò, anche se è un problema non da poco, almeno i progressi saranno al sicuro.
La colonna sonora è ben composta, le musiche non si impongono mai sulle scene e abbracciano totalmente lo stile grafico del gioco, anche se, tuttavia, nessuna delle melodie composte per il gioco spicca per bellezza, consegnando dunque una colonna sonora certamente bella ma in fondo piatta e canonica.

Un’esperienza non perfetta ma godibile

Teslagrad è certamente un bel gioco, con visual spettacolari e una meccanica di gioco semplice ma intrigante anche se purtroppo parecchi aspetti del gioco rovinano l’esperienza generale. L’idea di base è molto buona ma è lesa da peccati d’esecuzione; come dicevamo, troviamo qui un buon mashup di elementi da metroidvania e da puzzle game. Purtroppo entrambe le componenti non sono realmente definite: è come se il gioco restasse sospeso nel mezzo, non riuscendo a decidersi se essere un metroidvania o un puzzle game, se essere un esperienza lunga e macchinosa o una breve ma intensa,  e non sfornando un ibrido solido. Un vero peccato visto che la grafica del gioco, le cui animazioni sono state realizzate a mano, conferisce al titolo un’anima forte e decisa. Non è affatto un gioco da buttare in quanto i giocatori alla ricerca di un’esperienza diversa troveranno in Teslagrad un’avventura affascinante, dalle meccaniche semplici ma originali; il prezzo nello store non è tale da rappresentare un investimento oneroso e dunque chi è intenzionato a provare questo titolo potrà farlo senza spendere una cifra rilevante. Tuttavia Teslagrad non è un esperienza per tutti e probabilmente, per apprezzarlo veramente, bisognerà accettare la ripetitività dei puzzle nonché i controlli scivolosi e mal programmati. Nulla vi vieta di provarlo, e tirando le somme, ci sentiamo di consigliarne la prova.




Rivelata la data di uscita di Vampyr

Annunciata la data di uscita di Vampyr da parte di Dontnod Entertainment e Focus Home Interactive, uscirà il 5 giugno 2018 su PC, Playstation e Xbox One.

La notizia è stata data attraverso la webserie Stories from the Dark, basata sulla trama del videogioco, ambientato a Londra nei primi del ‘900 durante un’epidemia che ha trasformato tutti gli abitanti in vampiri assetati di sangue

Vampyr non presenterà DLC, multiplayer o microtransazioni, ma, al contrario delle tendenze degli ultimi tempi si baserà esclusivamente sul singleplayer.




Shu

Shu è un titolo sviluppato da Coatsink uscito nel 2016 su PS4 e PC e adesso giunto anche su Nintendo Switch. Il protagonista, da cui il gioco prende il nome, è costretto a intraprendere un lungo viaggio a causa di una tempesta che ha distrutto il suo villaggio e che lo costringerà a superare svariati ostacoli che sono diretta conseguenza degli enormi danni causati dalla tempesta, da precipizi a pareti ricoperte da spuntoni e oggetti letali che cadono dall’alto.

Shu potrà saltare e planare grazie alle sue ali, e durante il suo viaggio, incontrerà vari personaggi, ben caratterizzati, che lo accompagneranno nella sua fuga dall’imminente disastro e che lo aiuteranno con abilità come la possibilità di camminare sull’acqua, di effettuare uno doppio salto a mezz’aria, di abbattere ostacoli altrimenti insormontabili, arrampicarsi su muri e addirittura di fermare il tempo per qualche secondo. Durante i livelli capiterà di dover usare due o più personaggi alla volta, dovendone alternare le abilità per risolvere i vari puzzle tramite semplici combinazioni di tasti.

Nel gioco sono presenti 15 livelli suddivisi in 5 mondi. Esplorare i livelli costituisce un vero piacere, non solo sul piano visivo, ma anche su quello uditivo, grazie a una colonna sonora del gioco appropriata e ben curata. L’utilizzo del 2.5D nel gioco caratterizza gli scenari al meglio rendendoli unici nel loro genere. I controlli sono sempre semplici e immediati, capire come utilizzare le abilità dei vari personaggi sarà estremamente semplice.

Il protagonista dispone di 5 vite, ricaricabili avvicinandosi i diversi checkpoint presenti nei livelli. Nonostante la relativa frequenza di punti di salvataggio, il gioco non risulta affatto semplice perchè gli inseguimenti da parte dei nemici, presenti quasi in ogni livello, rendono il gameplay abbastanza arduo. La presenza di farfalle da raccogliere e di altri collezionabili nascosti favoriscono la rigiocabilità dei vari livelli. I collezionabili, proprio come le prove a tempo sbloccabili dopo aver completato per la prima volta un livello, non hanno una vera e propria utilità, non servono ad accedere ad aree o livelli segreti, faranno solamente differenza nel punteggio alla fine di un livello. Inoltre non è possibile confrontare con altri giocatori il tempo impiegato nelle varie prove.

Shu risulta nel complesso un buon platform, dotato di un buon level design e di sfide atte a tenere lontana la noia, che ha fra i pochi difetti semmai quello di non godere di gran longevità in relazione a quanto offre e al suo potenziale, puntando forse anche sui collezionabili per intrattenere più a lungo il giocatore. Come molti titoli indie, Shu dà il proprio meglio su Nintendo Switch rispetto alle altre console, sia grazie a un sistema dei comandi molto funzionale, sia grazie al valore aggiunto della portabilità che ha permesso alla console Nintendo di valorizzare tanti titoli del panorama indie.

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Monster Hunter World e la strategia vincente di Capcom

Monster Hunter non è di certo una delle saghe più famose in Occidente, ma l’ultimo capitolo ha riscontrato un successo ragguardevole in tutto il mondo.
Capcom da anni cerca di creare una forte community globale, come già successo in Giappone; infatti, dalla pubblicazione del primo titolo per PS2, nel 2004, e soprattutto dall’avvento della PSP, moltissimi ragazzi hanno cominciato a giocare insieme a Monster Hunter incontrandosi nei vari caffè, fast food e centri commerciali di tutto il Sol Levante.
Monster Hunter ha incontrato moltissima difficoltà a trovare un pubblico al di fuori della Madre Patria, e questa difficoltà è ancora, seppur in minima parte, presente. Non è raro che alcuni giochi riescano facilmente a trovare seguito in Giappone e, al contempo, che abbiano difficoltà all’estero (o viceversa); solitamente sono sempre titoli minori, di nicchia, e non saghe del livello di Monster Hunter.
Uno dei pochi grandi franchise che funziona in Giappone ma che delude gli occidentali è sicuramente Dragon Quest, semplicemente perché si tratta di una saga che gioca bene sulla nostalgia verso i giochi del passato per vendere, una nostalgia che non fa presa sul pubblico occidentale (che volge lo sguardo ad altri oggetti del passato), stessa sorte che ha incontrato la saga di Monster Hunter.
Capcom ha trovato in Giappone una vera fortuna e non sorprende che Capcom abbia l’ambizione di ripetere il proprio successo anche oltreoceano. Il dato davvero singolare, però, è che lo sviluppatore di Street Fighter abbia continuato a provare, nonostante diversi fallimenti, a ottenere per la propria IP un mercato forte e stabile anche in Occidente. Molte aziende del settore avrebbero desistito ben presto dall’intento di diffondere un franchise come Monster Hunter nel mondo, e avrebbero più comodamente abbandonato il mercato giapponese per concentrarsi su altri mercati.
Capcom, con la propria scelta di in termini di strategia di business, non ha spinto così tanto Monster Hunter in Occidente, in questi anni, ma ha battuto la strada per renderlo un franchise globale, trattandolo da asset chiave della propria strategia aziendale.

Le scelte del team di Capcom per assecondare i gusti di un pubblico internazionale, e quindi molto eterogeneo, ha investito le scelte sul piano creativo, ma anche le decisioni aziendali fondamentali per il lancio di Monster Hunter: World. Il gioco è arrivato  di recente su PlayStation 4 e Xbox One, ma il mercato console del Giappone è del tutto differente da quello del resto del mondo: PS4 ha venduto più di 6 milioni di console in terra nipponica, ma resta comunque un numero inferiore al potenziale di vendita di Nintendo 3DS, che è stata la piattaforma principale per la saga dal 2013. Xbox One, invece, è una console quasi inesistente sul mercato giapponese. Questo significa che Capcom ha sviluppato il gioco per piattaforme di certo non popolari nell’unico paese che in precedenza ha rappresentato uno dei più importanti mercati per la saga, con la piena consapevolezza che avrebbero dovuto affrontare varie difficoltà per vendere il gioco.
Capcom ha deciso di sviluppare sulle piattaforme Sony e Microsoft perché così avrebbe attratto il mercato occidentale, ma c’è anche un’altra ragione: in Giappone 3DS è ancora una piattaforma di successo, ma le possibilità per Monster Hunter di espandersi e svilupparsi sulla handheld di Sony erano ormai minime; Switch non era stato annunciato quando iniziò lo sviluppo di Monster Hunter: World. La società avrà sicuramente ritenuto che PS4 fosse la migliore opzione in questo momento, indipendentemente dal basso numero di console vendute in Giappone, così da poterla sfruttare per le vendite in occidente.
La decisione presa da Capcom alla fine è stata azzardata, ma ha pagato: avrebbe potuto fallire irreparabilmente. La saga ha riscosso molto successo anche nel resto del mondo, e fortunatamente Capcom ci ha creduto: ha dato fiducia alla saga di Monster Hunter e quella fiducia, adesso, ha dato i suoi abbondanti frutti. Nelle ultime settimane, l’ultimo titolo di MH, ha fatto discutere molto positivamente di sé, sia dai fan, sia da chi, la saga, non l’aveva mai giocata prima.
A questo coraggio di uscire dai propri confini non si può che far un plauso.




Kaz Hirai si dimette dal ruolo di CEO di Sony

Dopo sei anni alla guida come presidente e CEO di Sony, Kaz Hirai abbandona la carica a favore dell’attuale vice-presidente esecutivo e capo del settore finanziario dell’azienda Kenichiro YoshidaHirai resterà in Sony con funzioni onorarie dal 1 Aprile, data in cui tutte le modifiche verranno rese effettive.
Stando alle dichiarazioni di Sony, il cambio di leadership è stato proposto dallo stesso Hirai, che ha caldamente consigliato di scegliere Yoshida come suo successore: «Dalla mia nomina a presidente e CEO nell’aprile del 2012, ho dichiarato che il mio obbiettivo sarebbe stato assicurarmi che Sony continuasse a essere un’azienda che assicura ai propri clienti  “kando” – che significa “coinvolgere qualcuno sul piano emotivo”– e che li ispiri e soddisfaccia la loro curiosità. Per perseguire questo scopo, ho dedicato me stesso a trasformare la compagnia e accrescere il profitto, e sono veramente orgoglioso che ora, nel terzo e ultimo anno del nostro piano aziendale a medio raggio, ci aspettiamo di superare il target di guadagno che ci eravamo imposti. È bello per me sentire sempre più persone entusiaste del fatto che Sony sia tornata»

Sony presto inizierà un nuovo piano aziendale a medio raggio, che sarà guidato dal nuovo CEO Yoshida, che ha dichiarato: «Costruiremo sul metodo di business stabilito da Mr. Hirai, ed eseguiremo ulteriori cambiamenti atti a migliorare la nostra competitività come azienda globale e che ci permetta di avere una crescita dei profitti a lungo termine.»

Hirai prese il comando della Sony sei anni fa, dopo un lungo periodo di successi come direttore del settore Playstation. Con lui i giochi sono diventati per Sony il motivo più grande del suo successo, dovuto soprattutto alla leadership di PS4 nel settore.