Shadow of the Tomb Raider – Bellezza Letale

Il reboot di una delle serie più importanti della storia dei videogame, con l’intrinseca riscrittura di un’icona pop come Lara Croft, è stato un successo. Con l’ultimo capitolo di questa ideale trilogia, Shadow of the Tomb Raider, possiamo dirlo ma, diciamocela tutta: era più semplice sbagliare che fare bene.
Sin dal 2013, anno di debutto della nuova archeologa e delle sue avventure, Tomb Raider ha saputo a poco a poco abbattere i pregiudizi dei fan, portando capitoli interessanti dal punto di vista qualitativo (ricordiamo infatti l’eccellente Rise of the Tomb Raider) e soprattutto nella ricostruzione di una Lara Croft più umana, con un percorso di crescita che l’ha portata a essere (quasi) l’eroina che tutti conosciamo. Con Shadow of the Tomb Raider, il focus è incentrato sui tratti caratteriali e conseguenze negative dell’agire dell’archeologa, in un viaggio attraverso i suoi traumi infantili e insicurezze che finora, ha ben mascherato.

E se poi te ne penti?

Da quando Lara era formata da pochi e spigolosi poligoni, il suo agire non ha mai portato a conseguenze particolarmente fatali per il genere umano: si trovava una reliquia e la si prendeva, senza far troppe domande. Ma come Indiana Jones insegna, non è tutto oro ciò che luccica e questa volta, le conseguenza si faranno sentire. Sin dal prologo, assistiamo a un lato che poco si era visto nella trilogia: la superbia, il credere di essere fondamentale per il destino del mondo, unica protettrice dell’umana stirpe. Inutile dire come le cose prenderanno una brutta piega, dopo aver creduto di aver fatto la scelta giusta. L’avverarsi di un’antica profezia Maya getterà nel caos Messico e Perù e Lara, non potrà far altro che sentirsi in colpa per quanto sta avvenendo.
Comincia così un lungo cammino di redenzione per la protagonista, esplorando se stessa, la sua infanzia e il suo ruolo nel mondo, un cammino, come da tradizione, intriso di pericoli, a cominciare dalla Trinità, una presenza costante ma forse fin poco tangibile. L’avventura, tra esplorazione, stealth e azione frenetica, riesce a intrattenere anche grazie a una rinnovata regia non solo nelle cinematografiche cutscene ma anche in game, mostrando sempre i tratti più spettacolari o struggenti dell’azione. Da questo punto di vista Shadow of the Tomb Raider dà il meglio di se, trasponendo una campagna completa, suggestiva e contornata da missioni secondarie presenti nelle località che potremmo utilizzare quasi come degli hub. Queste missioni (forse un po’ troppo vecchia scuola), permettono, alla loro conclusione, lo sblocco di nuove armi ed equipaggiamento ma con l’effetto collaterale di frammentare fin troppo la narrazione. In qualche modo infatti, purché non obbligatorie, queste rallentano, sino quasi ad arrestare le quest principali, che appesantiscono ulteriormente il vero problema (e forse unico) di questo titolo: il ritmo. Se è vero che ci troviamo di fronte a un racconto maturo, con i giusti colpi di scena e la giusta dose di pathos, la narrazione non procede mai con ritmi costanti risultando veramente interessante solo in alcuni frangenti. In qualche modo, con le modifiche di gameplay adottate, non si è riusciti a bilanciare il tutto, anche perché allargare la natura del franchise verso l’open world, non sembra la scelta azzeccata.
A mostrare il fianco – a tratti – è anche la sceneggiatura, che riesce a esaltare molti momenti chiave ma anche a neutralizzare alcuni dei momenti più empatici della protagonista e dei comprimari, svolti forse con troppa fretta e superficialità.
Nonostante tutto però – soprattutto se avete giocato i due prequel – Shadow of the Tomb Raider vi terrà incollati allo schermo, proprio per poter vedere con i vostri occhi come una ragazza fragile, ingenua ma con tanti sogni nel cassetto, sia riuscita a divenire un donna forte, in grado di cambiare il proprio destino.

Sangue e Fango

Come prevedibile Shadow of the Tomb Raider è l’evoluzione (finale?) di quanto visto finora, dal 2013 a Rise of the Tomb Raider. Il cambio di location ha permesso alcune implementazioni, a cominciare dall’uso del rampino, necessario per raggiungere appigli altrimenti inaccessibili, agganciandosi alle pareti o permettendoci di salire o scendere in sicurezza. Questo attrezzo si dimostra utile anche nelle fasi stealth, in cui potremmo letteralmente impiccare il povero malcapitato tra i rami degli alberi, alla stregua di quanto avveniva in Assassin’s Creed III con protagonista Connor Kenway. Ma l’agire nell’ombra è facilitato anche dall’uso di altri nuovi elementi, come trappole da innestare nei cadaveri o speciali frecce in grado di mandare in delirio i nemici, uccidendosi a vicenda. L’approccio rimane dunque abbastanza libero e anche l’ambiente circostante arriva in soccorso, tra innumerevoli alberi e vegetazione in grado di fornire il giusto riparo. All’interazione ambientale consona, si aggiunge anche la possibilità di poter utilizzare del fango per ricoprire il corpo di Lara, rendendola invisibile (soprattutto la notte) a fugaci occhiate. È in questi frangenti che ci si toglie le grosse soddisfazioni, potendo sfruttare tutto l’ambiente a nostro vantaggio tra alberi, cespugli, pareti, alture e acqua. In questi frangenti Lara Croft è la cacciatrice, disposta a tutto pur di fermare la Trinità che, in questi frangenti, può contate su un’intelligenza artificiale leggermente sopra la media, in grado di stanarci con l’utilizzo di granate e di accerchiarci prendendoci alla sprovvista.
Come già accennato, l’avventura di Lara può essere arricchita da incarichi secondari più o meno interessanti, presenti all’interno delle città che visiteremo. In questi ambienti regna la tranquillità dove, interagire con gli abitanti, diventa fondamentale non solo per sbloccare nuovo equipaggiamento ma anche per scovare segreti e tesori sparsi per la mappa. Il problema di queste sezioni, benché ben congegnate, è che hanno l’effetto collaterale di diluire fin troppo la narrazione con elementi che in fin dei conti, non sono fondamentali. Aggiungere tali elementi, quasi da “open world”, in un’avventura nello stile di Tomb Raider è il problema più evidente: manca l’amalgama necessaria per apprezzare queste “pause” dalla narrazione principale e purché si tratti di location suggestive, la voglia di proseguire è fin troppo più grande rispetto a quella di eseguire piccoli incarichi secondari. Fortunatamente però, tornano, più grandi, più complesse e artisticamente più ispirate, le Tombe della Sfida e le Cripte. In questo terzo capitolo, esse assumono un ruolo attivo nello sviluppo della protagonista sbloccando, alla loro risoluzione, equipaggiamento (soprattutto vestiario) ma soprattutto abilità bonus e accessibili solo in questo caso, come la possibilità di trattenere maggiormente il respiro sott’acqua. Questo, regala finalmente la giusta importanza all’esplorazione delle tombe, ovviamente il punto focale dell’intero franchise, rispondendo alle critiche verso i capitoli precedenti in cui tutto ciò risultava del tutto secondario. Le abilità di Lara comunque, sono molteplici e suddivise in tre branche principali; la diversificazione delle capacità è la chiave per la sopravvivenza e in questo Crystal Dynamics ed Eidos Montreal hanno svolto un egregio lavoro dando l’opportunità al giocatore di “lavorare di fino” per personalizzare la nostra eroina. È tutto il gioco a invogliare a esplorare e a potenziale le abilità di Lara, sfruttando le capacità acquisite eventualmente nel new game + e nei contenuti aggiuntivi.
Dal punto di vista meramente action, dove la fasi shooting la fanno da padrone, non vi sono novità rilevanti: probabilmente il punto più debole del pacchetto, non riesce a risaltare quanto dovrebbe, contando su animazioni dedicate troppo legnose; cambiare arma, mirare, sparare e ricaricare non avviene con la giusta fluidità, finendo alle volte per preferire di gran lunga eliminare in silenzio i vari nemici. Nulla che intacchi l’avventura, ma forse è arrivato il momento di “svecchiare” queste sezioni, magari prendendo spunto dal suo rivale maschile (Nathan Drake, ndr).

Sinestesia

Come accaduto soltanto per la recensione di Hellblade: Senua’s Sacrifice, anche questa volta si parte dall’audio, un lavoro eccellente sotto tutti i punti vista. Le musiche, composte e dirette da Rob Bridgett, sono sempre adatte al contesto, creando atmosfere uniche non solo nei momenti riflessivi o nostalgici ma anche quando l’azione si fa via via più frenetica. Tutto viene enfatizzato anche dall’ausilio di alcuni strumenti tipici Maya, atti a ricreare probabilmente una delle migliori colonne sonore di questo 2018. Ma anche il doppiaggio (come da tradizione) non è da meno: l’ormai storica voce di Benedetta Ponticelli riesce a trasporre una Lara in costante conflitto con se stessa, attanagliata dai sensi di colpa senza andar mai sopra le righe. Tutti i dialoghi dell’archeologa restituiscono un personaggio reale, così come lo sono i comprimari, a cominciare dal suo fedele Jonah (Diego Baldoin), amico, guida e fratello maggiore di una Lara in via di maturazione. Ma il lavoro che lascia più di stucco è quello eseguito sugli effetti sonori e la loro tridimensionalità (consigliato vivamente l’utilizzo di un buon paio di headset). Tutti i suoni risentono delle varie superfici presenti, con un contrasto netto tra interni ed esterni; tutto è al posto giusto e in grado di generare ancor di più un forte senso di immedesimazione.
La parte meramente visiva invece spicca come una delle produzioni migliori degli ultimi anni e sicuramente il miglior Tomb Raider visto sinora. Tutti gli ambienti di gioco, dai piccoli villaggi alle intricate foreste godono di innumerevoli particolari, con l’attenzione minuziosa per i dettagli. Che siano baracche o semplici alberi, tutto è realizzato con cura, così come i modelli dei personaggi principali (Lara ovviamente splendida), esaltati da una regia che raramente è visibile in un videogioco. Il salto di qualità a livello narrativo, come detto, è forse mancato, ma il modo in cui vengono raccontate le vicende hanno subito un boost eccezionale, non solo per quanto riguardo le scene più adrenaliniche, mostrando ampie panoramiche in grado di risaltare l’impatto empatico con quanto avviene, ma anche un’attenzione particolare per i primi piani e durante alcuni momenti costruiti ad hoc per rimanere impressi per sempre nella mente dei giocatori. Tutto questo ben di dio, è purtroppo macchiato da qualche imprecisione nella fisica degli oggetti, qualche piccolo glitch e compenetrazione di troppo, quasi a segnalare un ultimo mancato intervento di “pulizia”. Nulla comunque che possa minare l’eccellente lavoro svolto da Crystal Dynimics.

In conclusione

L’ultimo capitolo della trilogia reboot dedicata a Lara Croft, riesce anche questa volta a fare centro. Nonostante la struttura narrativa soffra di alcuni cali di ritmo, dovuti anche all’introduzione di alcuni elementi di gameplay che forse mal si sposano con le caratteristiche dell’avventura proposta, il cammino di redenzione dell’archeologa più famosa al mondo riesce a trasmettere le giuste emozioni e il giusto grado di empatia. Il lavoro svolto da Crystal Dynamics dunque è di ottimo livello, riconfermando quanto di buono svolto dai precedenti  capitoli, migliorando in toto tutta la parte tecnico-artistica, in cui spiccano audio e regia. Shadow of the Tomb Raider chiude il cerchio su una Lara molto diversa dall’icona pop degli anni ’90, ma sicuramente più vicina a noi, tralasciando ricchezza, l’atletismo di Ercole e la bellezza afrodisiaca. Anche questa Lara, ci piace.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




Lara Croft, storia di un’icona

A volte capita che un brand, una volta creato, sfugga al controllo dei propri creatori, divenendo ben più importante rispetto a quanto preventivato. Questo è il caso di Tomb Raider e della sua eroina Lara Croft, divenuta una dei simboli più importanti della cultura pop degli anni ’90 e prima vera paladina di tutte le donne videoludiche.
In concomitanza con l’uscita di Shadow of the Tomb Raider, ultimo capitolo della nuova trilogia, che ha riportato al pubblico una Lara molto diversa ma sempre in gran forma, e nonostante gli svarioni precedenti, ripercorriamo la storia della prosperosa archeologa, della sua creatrice Core Design sino all’avvento di Square-Enix e l’ultimo lungometraggio con Alicia Vikander. Sarà un viaggio trentennale alla scoperta di aneddoti, scelte sagge e disastrose, in un percorso oggetto di studio in molte università.

Dalla Gran Bretagna con furore

Tutto ebbe inizio a Derby, una piccola cittadina inglese, che nel 1988 vide nascere Core Design, azienda fondata da Chris Shrigley, Andy Green e altri componenti, molti arrivati da Gremlin Graphic, altra software house con sede a Sheffield. Tra i primi lavori del developer spiccò Rick Dangerous, un platform che richiamava in maniera poco velata le gesta di Indiana Jones, riprendendone ambientazioni (I predatori dell’Arca perduta) e nemici, quei Nazisti tanto odiati dagli statunitensi quanto dai britannici. Il gioco ebbe un buon successo, tanto che, l’anno dopo (1990), arrivò il suo sequel diretto: Rick Dangerous II.
Le ambizioni di Core Design erano però molto più grandi e mentre il mondo del 3D cominciava a muovere i suoi primi passi, allo studio venne in mente di replicare quanto realizzato con l’archeologo Rick ma, fortunatamente, il lavoro prese quasi subito un’altra piega.
Nel 1993 i lavori per il nuovo progetto cominciarono a essere abbozzati da un team di sole sei persone, ma solo l’anno dopo si cominciò a entrare nel vivo. Toby Gard stava già lavorando sul protagonista che inizialmente doveva essere di sesso maschile, come da tradizione. È qui che a Core Design e Toby venne in mente un’idea rivoluzionaria e che avrebbe cambiato per sempre il futuro di entrambi. Il nuovo titolo avrebbe avuto per protagonista una donna, lontana dalla classica “principessa da salvare”, forte, indipendente e capace di tenere testa ai vari nemici uomini. Con una caratterizzazione sudamericana, Laura Cruz fu il primo nome scelto per la nuova eroina ma ben presto sostituito con Lara Cruise, più incline a un pubblico americano. Nel frattempo il background della protagonista cominciava a venir fuori e, pian piano, si decise di renderla “british”, una ricca ereditiera con la passione per l’archeologia, nata nel 1968. Dopo aver sfogliato a casaccio un elenco telefonico, il più era fatto. Lara Croft era nata. Ed era nata già… abbondante.
La caratteristica fisica più evidente – è inutile far finta di niente – è indubbiamente il suo seno, divenuto comunque più discreto nel corso degli anni. Tutto nacque da un errore – o almeno è così che ci raccontano – del suo creatore Toby Gard che durante la lavorazione sul modello 3D di Lara, accidentalmente fece scivolare la rotellina del mouse proprio sulla zona incriminata, aumentandone le misure del 150%. Dopo aver ripristinato il tutto, molti si accorsero che quell’abbondanza piaceva e così decisero ben volentieri di mantenere l’errore. La famosa treccia invece, fu rimossa dato che la sua gestione utilizzava fin troppa memoria a discapito della fluidità del gioco. Comparve infatti solo con Tomb Raider II, a seguito anche di una migliore ottimizzazione.
Lara era dunque pronta a farsi conoscere dal grande pubblico, ma non prima di un grande cambiamento per Core Design.

Girl Power

Le cose cominciarono a farsi più interessanti una volta che Eidos Interactive acquisì la compagnia, immettendo nuovi capitali da investire in uno dei progetti videoludici più ambiziosi di sempre. Dopo 18 mesi di lavoro dunque, Tomb Raider fece il suo debutto su Sega Saturn per poi approdare su PlayStation (che inizialmente bocciò la prima versione del progetto) e PC il mese successivo. Fu un successo su vasta scala con un’avventura mozzafiato tra le Ande peruviane e le rovine di Atlantide, fluido e innovativo sotto ogni aspetto, con un eccellente level design e la possibilità di muoversi sott’acqua,  tutto in uno spazio 3D. Ovviamente a colpire sin da subito fu Lara, grazie anche alla doppiatrice Shelley Blond, in grado di caratterizzare un’eroina forte e determinata, capace di conquistare immediatamente il pubblico. L’esplorazione, la risoluzione di enigmi ambientali e le fasi action erano qualcosa di sbalorditivo per l’epoca, e questo non fece altro che aumentare il successo di Lara Croft. Ben presto, infatti, la procace archeologa avrebbe conquistato il mondo, apparendo dappertutto, dalla riviste fino ai concerti degli U2 con il loro PopMart Tour; il suo successo però non piacque al suo papà Toby Gard che non apprezzò l’eccessivo sfruttamento commerciale della sua creatura, decidendo di lasciare di punto in bianco Core Design, cosa che probabilmente lo salvò dalle critiche di qualche anno più tardi.
Nel 1997 infatti, è il turno di Tomb Raider II, titolo nato – per così dire – da una costola del suo predecessore: infatti, il sequel venne realizzato per lo più sfruttando asset mai utilizzati per il primo capitolo, spiegando in parte, la mancanza di novità di rilievo.
L’introduzione di effetti d’illuminazione dinamica e location più ampie, oltre ai veicoli guidabili, bastò a bissare il successo, divenendo vera e propria killer application per PlayStation, essendo divenuta nel frattempo sua esclusiva. Fu tra l’altro il primo a essere doppiato in italiano. In questo episodio, Lara si presentò meno spigolosa e con la treccia, grazie anche al lavoro di Stuart Atkinson, nuovo designer della protagonista. Ma questo successo non poteva durare: solamente un anno dopo arrivò il terzo capitolo, Tomb Raider III che, nonostante un buon successo commerciale, cominciò a far storcere il naso a critica e pubblico, che fecero notare come le caratteristiche del franchise cominciavano a risultare ripetitive. In fin dei conti, si è cercato di spremere il successo di Lara sino allo svilimento, come del resto accaduto – anche se con le dovute proporzioni – per altri brand come Call of Duty e Assassin’s Creed. Evidentemente imparare da quanto avvenuto può risultare complicato, eppure i problemi per Eidos e Core Design dovevano ancora arrivare.

Ferro freddo

Battere il ferro finché è caldo non è sempre una buona strategia. Per una piccola compagnia come Core Design, il successo di Tomb Raider fu qualcosa di eccezionale, ma l’incapacità di gestire l’impatto mediatico di Lara Croft e le vendite esagerate cominciarono a portare la società verso il declino. Il ferro era ancora caldo, ma aveva ancora bisogno di essere battuto?
Solo poco tempo dopo arrivarono in versione speciale i primi due capitoli, una collezione di Tomb Raider e Tomb Raider II denominati Gold, che comprendevano alcune migliorie e nuovi livelli. Ma le vere attenzioni erano tutte rivolte al quarto episodio, Tomb Raider: The Last Revelation, arrivato anche su SEGA Dreamcast e criticato aspramente in quanto, tolta la nuova ambientazione, di novità effettive non ve ne erano. La morte di Lara Croft, avvenuta in questa avventura e festeggiata dal team di sviluppo con un paio di birre avrebbe potuto sancire la fine di questo franchise, ma le cose andarono molto diversamente, con l’uscita di Tomb Raider: Chronicles, avvenuta nel 2000, probabilmente il peggiore titolo della saga sino a quel momento, tecnicamente arretrato e ultimo bagliore di luce prima del spegnersi della fiamma.
Se le avventure di Lara Croft su console erano in pausa, sul grande schermo invece era più viva che mai: Lara Croft: Tomb Raider fu il primo film del franchise ad arrivare al cinema, con protagonista un’Angelina Jolie in piena forma e che seppe interpretare un Lara molto simile alla controparte videoludica, anche se forse con una leggera spinta verso l’esaltazione delle “forme” dell’attrice. Fu un successo e questo diede nuova linfa a Core Design, che, nel frattempo, stava preparando il suo debutto su PlayStation 2 ( purtroppo, vien da dire col senno di poi).
Tomb Raider: The Angel of Darkness fu un vero disastro. L’idea di rinnovare il franchise, portandolo al passo con le tendenze del nuovo millennio non trovò mai la giusta direzione: lo sviluppo, infatti, venne affidato a un team interno, cosa che ne decretò l’insuccesso prima ancora di cominciare. I ritardi si accumularono, il gioco venne rimandato per ben tre anni, e quando finalmente uscì pagò il fio di tutti i disaccordi interni e le scelte errate di Core Design. Numerosi problemi di direzione artistica e narrativa impallidivano di fronte ai molteplici bug e alla mancanza di rifinitura, e chi vi scrive lo sa fin troppo bene. The Angel of Darkness è uno dei titoli che non potei mai completare a causa di un bug che ne impediva il prosieguo, portandolo ogni volta all’inevitabile crash. Era il 2001, niente patch riparatorie. Tra i tagli più evidenti, confessati a Edge nell’Agosto 2006 dal team di sviluppo, vi erano un prologo che collegava Last Revelation a questo e molti livelli tra Parigi, Germania e Praga.
Nonostante le buone vendite iniziali, grazie a una campagna marketing aggressiva, il nuovo Tomb Raider fu il colpo di grazia: uno dei cofondatori diede le dimissioni e metà del personale fu licenziato. Ma non c’è mai limite al peggio. Nel 2003 infatti, uscì anche il secondo capitolo cinematografico, intitolato Tomb Raider: La Culla della Vita, stroncato da critica e pubblico, con Angelina Jolie candidata come peggior attrice protagonista ai Razzie Awards dello stesso anno.
Nonostante questo però, Lara Croft non abbandonò mai il cuore dei giocatori. Serviva una scossa, e fortunatamente, avvenne grazie all’intervento di Crystal Dynamics.

Una Fenice dalla breve vita

Viste le enormi perdite e le grosse difficoltà di Core Design, nel 2003 Eidos decise di passare la responsabilità del progetto a Crystal Dynamics, assieme all’ormai storico creatore di Lara, Toby Gard. A dir la verità, nemmeno la società subentrante godeva di un buono stato di salute ma, ciononostante, Eidos era sicura che per dare la svolta necessaria al franchise il nuovo team fosse la scelta giusta. A molti deve essere sfuggito, ma Tomb Raider Legend fu un vero e proprio reboot, in cui venne riscritto – o aggiunto – un nuovo background narrativo e una revisione completa del modello di Lara, più realistico ma mantenendo sempre un non so che di caricaturale. Legend fu un successo, divenendo il Tomb Raider più velocemente venduto della storia, mostrando finalmente una Lara distante dalle gesta di Steven Seagal, divenendo più umana anche caratterialmente e a cui i giocatori poterono legarsi anche empaticamente. Gli anni intorno al 2006 (anno d’uscita) erano contraddistinta dalla moda dei quick time event, che permisero anche a Toby Gard di sviluppare finalmente il desiderio di realizzare un “film interattivo”, idea che mosse i primi passi dell’originale Tomb Raider ma che per ovvie limitazioni tecniche non venne mai realizzato; almeno sino al nuovo progetto, in concomitanza con i primi 10 anni del brand. Tomb Raider Anniversary fu un vero regalo per tutti i fan: realizzato con il nuovo motore di gioco di Legend, si trattava di un remake del primo capitolo a cui, agli ovvi miglioramenti tecnici, furono aggiunti alcuni cambiamenti di gameplay e narrativi oltre che sonori, con una versione riorchestrata del tema e le musiche originali (Nathan McCree), a cura di Troels Folmann. Toby Gard venne promosso da “semplice” consulente a Capo Designer, apparendo anche nel documentario dedicato alla storia di Tomb Raider, presente all’interno della confezione. Anche Anniversary ebbe un buon successo e questo spinse Eidos a dare il via libera a Crystal Dynamics per un nuovo capitolo, che avrebbe preso vagamente spunto anche dai lungometraggi con Angelina Jolie. Il sequel di Legend, Tomb Raider Underworld, portava Lara Croft ad affrontare gli enigmi della mitologia norrena ma, nonostante Toby Gard alla direzione e alla co-sceneggiatura, quest’ultimo capitolo, purtroppo, non seppe conquistare completamente i fan, creando grossi problemi a Eidos.
La compagnia britannica infatti, si trascinava ormai da molti anni alcune difficoltà economiche, tra investimenti falliti e acquisizioni che non furono indolori. Il fallimento era dietro l’angolo ma, nel 2009, Square-Enix lanciò un salvagente dal valore di 84 milioni di sterline, acquisendo l’intero controllo della software house.

La luce in fondo al tunnel

L’arrivo di Square-Enix cambiò le carte in tavola: serviva un taglio netto col passato, un nuovo Tomb Raider, una nuova Lara contornata da nuove idee. A capo dei nuovi progetti rimase Crystal Dynamics che si mise subito a lavoro su un nuovo titolo, più uno spin-off che un capitolo ufficiale: Lara Croft and the Guardian of Light arrivò solo sul mercato digitale, offrendo ai giocatori una nuova avventura cooperativa e con visuale isometrica. Nonostante il diretto collegamento al brand Tomb Raider mancasse, il nuovo lavoro ebbe un buon successo su tutti i fronti, dando linfa al progetto principale, un reboot totale che avrebbe finalmente portato Lara Croft ai nostri giorni. Scritto da Rhianna Pratchett e con il semplice nome di Tomb Raider, il nuovo capitolo si presentava molto lontano dagli stilemi classici del franchise, presentando una Lara alla prime armi (nata nel 1992) e inesperta, una ragazza costretta ad affrontare mille avversità. Il titolo era più maturo e sopratutto più realistico, non solo nel gameplay ma anche nella costruzione di un personaggio che ormai non era più l’icona pop degli anni ’90. Plasmata sulla modella Megan Falcar, la nuova Lara conquistò i cuori degli appassionati ma anche il gioco in sé seppe sorprendere: ambienti più ampi che favorivano l’esplorazione, una giusta dose d’azione e di sovrannaturale facevano pendant purtroppo con la limitata proposta di tombe ed enigmi che in un gioco dal nome di Tomb Raider esigevano altra cura. Il successo del reboot spinse anche Metro Goldwyn Mayer ad acquisirne i diritti per una trasposizione cinematografica, uscita proprio quest’anno e con protagonista il Premio Oscar Alicia Vikander. Basato proprio su questo reboot, il film non ha avuto però il successo sperato a causa di alcune scelte narrative e di una caratterizzazione di Lara Croft non proprio riuscita.
Il successo del nuovo Tomb Raider (videoludico) fu solo l’inizio: nel 2014 Lara Croft and the Temple of Osiris  continuò quanto realizzato con The Guardian of Light, ma è il 2016 l’anno importante, con un Rise of the Tomb Raider che continuò quanto di buono fatto, elevando la qualità di tutti gli aspetti del gioco su livelli eccellenti. Rise fu un successo su tutta la linea, preparando il pubblico all’imminente Shadow of Tomb Raider che dovrebbe concludere questa nuova trilogia.

L’importanza di Lara

Come detto, Lara Croft è stato un personaggio fondamentale per la scena videoludica, ritornato in auge con i recenti reboot, anche se lontana dai fasti degli anni ’90. Una donna protagonista in un videogioco d’azione sembrava una follia, eppure il ragionamento dietro a tale scelta può portare a delle riflessioni. Ian Livingstone, Creative Director di Eidos e ora Presidente onorario, ha spiegato molto bene come si è arrivati a Lara Croft:

«I giochi avevano sempre avuto personaggi maschili, perché i giocatori erano ragazzi. Ma questi ragazzi non avevano smesso di giocare; erano solo cresciuti e cosa preferirebbero guardare: un riccio, un idraulico o il sedere sodo di Lara Croft? Col senno di poi, la risposta era ovvia.»

Nonostante l’intervento nella scena di Lara e il periodo del “Girl Power” portato avanti dalle Spice Girls, le protagoniste femminili facevano fatica a emergere. Ci volle probabilmente un’evoluzione della società e del pensiero per sdoganare le nuove eroine che ora diamo per scontate, da Aloy di Horizon Zero Dawn alla prorompente Bayonetta. Lara Croft aveva anticipato i tempi: tutti volevano Lara e il merchandising era qualcosa da tenere sotto controllo. Tra le cose più curiose in tal senso, come raccontato nel documentario, un fantino provò a chiamare Lara il suo cavallo da corsa, chiedendo a Eidos di poter pubblicizzare il brand Tomb Raider. La risposta fu no, dettata semplicemente dal rischio che un cavallo con il nome del momento sarebbe potuto cadere alla prima curva, diventando un perdente; l’associazione non era dunque possibile. Al contrario, fu concesso il nome Lara a una variante di Tulipani, del resto sembrava un’idea carina. Ma non finiva quì. Ben presto Lara Croft apparve anche sulla prima pagina di The Face Magazine, famosissima rivista rivolta alla cultura pop dell’epoca e in varie pubblicità, da quelle Visa a Seat. Nel 2006 ricevette anche una stella alla Walk of Fame di San Francisco, una via a Derby, chiamata Lara Croft Way e il Guinness dei Primati per essere l’eroina dei videogame più famosa al mondo. Non mancarono nemmeno i fumetti prodotti da Top Cow per ben cinque anni e alla naturale trasposizione porno (ne abbiamo parlato qui) o “semplicemente” erotica di Lara: Nell McAndrew, modella e testimonial di Tomb Raider III, posò per la nota rivista Playboy, con dicitura “Lara Croft nude“. Questo non piacque a Eidos, che decise di fare causa, imponendo un cambio di copertina. Tralasciando quest’ultimo dettaglio, dunque, fu un successo su tutta la linea, e questo successo non fu solo utile a Core Design ed Eidos, ma all’intera industria videoludica fino a quel momento rinchiusa in un micro cosmo a sé stante e che, grazie a Lara, era all’improvviso al centro della ribalta. Inoltre, uno degli impatti più evidenti fu l’avvicinamento di ulteriore pubblico femminile al mondo videoludico, potendo finalmente contare su un’eroina con la quale identificarsi. Ma era davvero così?
Lara Croft non poteva che aprire dibattiti anche tra le esponenti del femminismo. Ad esempio Jennifer Baumgardner, ex editor della rivista Ms e direttrice e publisher di The Feminist Press, è, ed è tutt’ora, una delle più attive su questo fronte, favorevole alla figura di Lara. L’archeologa rappresentava una donna forte, in grado di competere con i rivali uomini e dunque una figura positiva. Anche l’esaltazione delle forme per Jennifer non fu un problema: «se lo può permettere, perché non farlo. Non credo che le donne si paragonino a un personaggio immaginario di un videogioco».
Di tutt’altro avviso era invece Ismini Roby, all’epoca caporedattrice e fondatrice di WomenGamers.com, un portale dedicato a tutte quelle ragazze che avevo sviluppato la loro passione per i videogame. Secondo Ismini, Lara non era altro che un oggetto sessuale, che sminuiva la figura della donna, cosa che trovò sostegno anche in Germaine Greer, una delle maggiori esponenti del femminismo del XX secolo, considerando l’archeologa come una mera fantasia per adolescenti, un «maresciallo con palloni infilati sotto la maglietta». Inoltre la Greer tornò anche sul fisico, sottolineando come Lara fosse una donna “perfetta”, assolutamente non realistica, cui le donne potevano prendere come modello sbagliato da imitare.

Le polemiche intorno a Lara Croft non cessarono nemmeno con con il reboot del 2013, in cui era presente una scena di tentato stupro su una Lara ferita e spaventata. Immediatamente, riviste, telegiornali, femministe urlarono allo scandalo, scagliandosi su una scena che non era nemmeno esplicita. La risposta di Crystal Dynamics non si fece attendere, raccontando di come Lara, attraverso le difficoltà che comunque una donna affronta oggigiorno, riesce a cavarsela da sola contro le avversità di qualunque natura. Queste polemiche si placarono e non diedero problemi nello sviluppo di Rise of the Tomb Raider ma un altro piccolo “dibattito” si venne a creare, in concomitanza con l’annuncio di Alicia Vikander come attrice protagonista nel film Tomb Raider: “non ha le forme!”, “era meglio Angelina!”, “non somiglia per niente a Lara Croft!”. Risparmiando i commenti più volgari, questa era una buona parte della “voce di internet”, ad avvenuto annuncio. Inutile dire come Alicia Vikander sia una delle migliori attrici attualmente in circolazione, e forse l’insuccesso del film è anche derivato da questi pregiudizi e possibilmente dall’ignoranza sul tema, non essendosi accorti in molti come il film si rifacesse al recente reboot e alla nuova Lara Croft.

Tutto questo è dovuto all’incredibile impatto mediatico dell’eroina, che ha cambiato per sempre la visione dei videogame da parte del pubblico, trasformando il mondo videoludico in un universo di oggetti di culto, ammesso che ci sia della qualità dietro un titolo, sia ben chiaro. Lara Croft rimarrà per sempre un’icona, qualunque sia la sua versione, la sua storia e il suo aspetto. L’esplosione del successo e la sua gestione sono un insegnamento per tutte quelle software house che sognano di fare il grande colpo, ma è incredibile notare come alcuni errori commessi più di vent’anni fa si perpetuino tra problemi di comunicazione, gestione delle critiche, titoli annuali senza reali novità e così via. La storia di Lara, di Core e di Eidos è un esempio di come un’idea che può essere considerata semplice può in realtà rivoluzionare il mondo, e di come, a volte, bisogna anche sapersi fermare prima di combinare qualche guaio di troppo.




Tomb Raider

Diciamoci la verità: appena si ha il sentore che una casa di produzione canematografica stia per lanciare un lungometraggio tratto da un videogioco, comincia a salire qualche brivido lungo la schiena. Di certo non siamo abituati bene: innumerevoli sono ormai i film a tema videoludico che, tra il pessimo e mediocre, ci hanno continuamente delusi, lasciandoci quasi senza speranza. C’è da dire però, che qualche eccezione c’è stata, dal Prince of Persia con Jake Gyllenhaal a Silent Hill sino, perché no, anche al primo Mortal Kombat. Adesso ritocca a Lara Croft, divenuta negli anni ’90 vera icona pop ed eroina con cui tutto il genere femminile ha potuto finalmente interfacciarsi: forte, indipendente e superiore alla maggior parte dei comprimari maschili.
I film che hanno visto come protagonista Angelina Jolie, rispettivamente Lara Croft: Tomb Raider e Tomb Raider: La Culla della Vita, hanno saputo solo dare lustro alla prorompenza fisica dell’archeologa, divenendo veri e propri spot alle “doti” fisiche dell’attrice. Ma con il reboot videoludico del 2013, uscito con il semplice nome di Tomb Raiderle cose erano cambiate: la nuova Lara era figlia dei tempi che viviamo, una ragazza più reale, con un buon background narrativo e con le fragilità di qualunque essere umano. Oltre a questo, sia il primo capitolo che il secondo, Rise of the Tomb Raider, sono anche ottimi videogiochi, dal buon successo di critica e pubblico. Era naturale che prima o poi gli occhi della cinematografia si sarebbero posati ancora una volta su Lara Croft.

Il Tomb Raider videoludico ha segnato profondamente i fan, spostando il focus più su azione e avventura che sulla risoluzione di enigmi e sezioni platform. Queste nuove caratteristiche, oltre a una profonda rivitalizzazione di Lara, ben si sposano con un film da 90 milioni di dollari di budget, che può incentrare tutto sul realismo senza l’impiego di eccessivi – e costosi – effetti speciali. A dir la verità, questo è un punto su cui ci soffermeremo più avanti, ovvero la resa dell’indole del videogioco.
Questo significa anche dire addio alla giunonica Angelina per abbracciare la super atletica e “semplice” Alicia Vikander, vincitrice del premio Oscar come miglior attrice non protagonista per The Danish Girl. L’attrice svedese ha già fatto parlare di sé per il suo talento – di molto sopra la media – che in Ex Machina ha trovato terreno fertile dal quale sbocciare. La sua Lara è una ragazza che un po’ si discosta dal personaggio che abbiamo avuto modo di conoscere: manca in qualche modo l’estrema passione per l’archeologia trasmessa dal padre, scelta se ci pensate un tantino forte, visto che è un perno fondamentale della sua caratterizzazione. Ma ciò che funziona per il pubblico videoludico non è detto che funzioni al cinema, ed ecco quindi Lara Croft, che cerca di farsi da sola, non accettando di prendere in eredità la fortuna della famiglia. La figura del padre è elemento fondamentale anche se un po’ in contrasto col canone ufficiale, non solo rispetto ai reboot, ma anche ai titoli originali. Scelte quindi azzardate ma che non inficiano su trama e protagonista in maniera drammatica, soprattutto per chi conosce le vicende del videogioco.
La trama dunque si snoda tangendo quella videoludica: la giovane Croft, decisa a sapere quanto accaduto al padre, si recherà su un’isola misteriosa al largo del Giappone, in cerca della verità. Le vicende, scritte a quattro mani da Geneva Robertson-Dworet e da Alastair Siddons, scorrono via senza particolari intoppi nonostante la durata di circa un paio d’ore, risultando a conti fatti Tomb Raider un buon film di intrattenimento ma senza particolari picchi. Tutto poggia sulle incredibili e robuste spalle della Vikander che, seguendo le orme del buon Tom Cruise, ha svolto la maggior parte delle scene d’azione senza l’ausilio di una stuntman. In questo film ne ha subite di ogni, come del resto la iellata controparte videoludica, dalle cadute da altezze proibitive alla lotta a mani nude passando per le arrampicate e chi più ne ha più ne metta; se c’è una cosa da sottolineare è la voglia di Alicia di interpretare questo personaggio al suo meglio, e di questo bisogna dargliene atto. L’irrisolto rapporto padre-figlia sarà al centro della personalità della protagonista così come del comprimario – e molto anche – Lu Ren (Daniel Wu); questo, oltre ovviamente a tutta l’esperienza sull’isola, darà alla giovane Lara motivo di crescita e di accettazione del suo ruolo, facendo quel piccolo passo verso l’eroina che noi tutti conosciamo.

Il regista norvegese Roar Uthaug è riuscito a impacchettare un film senza difetti evidenti, con una classica regia da “mestierante” ma che ben si sposa con l’azione e la location del film. Anche le scene d’azione, seppur non perfettamente coreografate, riescono a intrattenere e sono chiare la maggior parte delle volte. Quello che manca è appunto quel “guizzo” verso l’alto ma, come potete aver capito, è un po’ il problema di tutto il film. Anche la fotografia di George Richmond non fa altro che richiamare i toni del videogioco, un andare sul sicuro che, per come è stato indirizzato il lungometraggio, è anche comprensibile. Siamo stati abituati ad avere, infatti, due scuole di pensiero: una parte di pubblico chiede a gran voce nuove storie basate sui vari brand, altri, invece, vorrebbero un copia e incolla dall’opera videoludica a quella cinematografica. Inutile dire che entrambe le idee abbiano prodotto risultati discutibili.
Tomb Raider è furbo, mettendo in scena sì una storia che lambisce i temi della controparte originale ma anche capace di regalare scene clou precise al millimetro rispetto al videogioco, una via di mezzo che in fin dei conti accontenta tutti: i fan hanno con cosa interfacciarsi e i “casual” posso godere di buone scene d’azione.
Segnalando personaggi completamente assenti, come l’equipaggio dell’Endurance, e personaggi completamente stravolti, come il “cattivo” Vogel, arriviamo al più grande problema del film: la particolarità dei Tomb Raider risiede nel rendere tutte le leggende createsi lungo il corso della storia, mera realtà, portando in scena elementi sovrannaturali e metafisici che ben si sposavano con il contesto del gioco ma anche – incredibilmente – con i lungometraggi con protagonista Angelina Jolie. L‘isola Yamatai è un luogo ricco di misteri e a tratti di angoscia, all’interno del reboot del 2013, con tombe nascoste e ambientazioni mozzafiato. Nel film purtroppo manca tutto questo, in favore di ambienti più semplici ma poco caratterizzati; anche quando si arriva finalmente al tempio della Regina del Sole Himiko, la musica non cambia. Manca completamente quel senso di stupore e meraviglia derivante da una nuova scoperta fuori da ogni logica e che mal si discosta da ciò che rappresenta il brand. La mazzata finale arriva dalla completa assenza di elementi sovrannaturali, derivati in questo contesto dal risveglio e dalla potenza di Himiko e del suo culto, in grado di controllare il destino dell’intera isola. Se da un lato tutto questo è spiegabile da un budget che qualcuno definirebbe basso e la voglia di non strafare, con il rischio di allontanare pubblico, ecco che sorge la domanda fondamentale, alla quale non risponderemo “42“: ma abbiamo veramente visto Tomb Raider?

In fin dei conti questo risulta un film normale per gente normale, che vuol passare un pomeriggio al cinema senza particolari sussulti. Diffidate da chi elogia il film come un capolavoro: la pochezza dei lungometraggi tratti da un videogioco può rendere un film del genere di poco migliore, ancor più importante, solo perché mancano paragoni degni (“effetto Wonder Woman“). È indubbiamente un buon film di intrattenimento e sicuramente la migliore trasposizione cinematografica di un videogioco, grazie soprattutto ad Alicia Vikander che, a dispetto degli infelici paragoni scaturiti alla notizia del suo ruolo, porta una Lara Croft credibile e segna un buon inizio di saga, qualora si prosegua con questo brand.
Il contraltare è una storia che non prende mai realmente il volo e che ha poco a che fare con Tomb Raider. Troppe scelte conservative hanno fatto viaggiare il film con il freno a mano tirato e, al sopraggiungere dei titoli di coda, tirando le somme se ne sente il peso.