Fear the Wolves: un battle royale, un perché
Le mode sono una brutta bestia: da quando il genere battle royale ha cominciato la scalata verso il successo, sembra essere l’unica caratteristica che possa spingere un progetto verso sogni di gloria. Inutile raccontare della diffusione di Fortnite o Playerunknown’s Battlegrounds, o di come persino Electronic Arts e Activision siano sottostate alle spietate leggi di mercato, inserendo questa modalità – forse in ritardo – negli imminenti Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII ma una cosa possiamo dirla: anche i titoli più acclamati non vantano elementi qualitativamente eccelsi; sì, qualche idea di fondo è interessante ma diciamoci la verità: tutto ruota intorno al marketing, spietato e anche “manipolatore”, capace di portare il pubblico da una sponda all’altra in men che non si dica. E gli altri? Si, ci sono altri battle royale e Fear the Wolves è uno di questi, ancora in early access ma che, senza dilungarci tanto, probabilmente è già morto.
C’è nessuno in casa?
Partendo dalla personalizzazione del proprio avatar, con la possibilità di acquistare pacchetti con moneta in game (almeno per ora), i problemi cominciano già dal matchmaking, capace già di segnalare la qualità dell’infrastruttura online ma soprattutto del traffico, ovvero il numero di giocatori presenti sul server desideroso di darsi battaglia. Quando venne annunciato l’early access, lo stato di salute di Fear the Wolves era già preoccupante visto che normalmente la community, solitamente senza freni inibitori, invade l’internet con commenti, immagini, hype e tanto altro ancora ma, per sfortuna di Vostok Games, tutto sembra essere caduto nell’anonimato, facendo sorgere un’annosa domanda se sia meglio in questi casi l’insulto o l’indifferenza.
Nonostante l’influenza di S.T.A.L.K.E.R. si faccia sentire, l’anonimato è il punto dolente del titolo: l’obbiettivo dei 100 giocatori è praticamente impossibile da raggiungere arrivando alla quindicina – se tutto va bene – dopo aver aspettato anche decine di minuti la creazione di una partita. È già chiaro che non si comincia con buoni presupposti.
E quindi?
E quindi si arriva alla partita, paracadutati su una mappa che propone una Chernobyl distrutta dalle radiazioni. Comincia dunque la corsa agli armamenti, per nulla faticosa, visto le tanti abitazioni presenti, insediamenti industriali e così via. La mappa dunque è molto vasta e al suo interno possiamo scovare un paio di differenze quantomeno interessanti: oltre allo scontro con altri giocatori potremmo aver a che fare anche con entità guidate da intelligenza artificiale, dei mostri generati dall’avvelenata terra ucraina. L’aggiunta di meccaniche PvE all’interno di un battle royale è effettivamente una difficoltà in più in quanto gestire le già risicate risorse a nostra disposizione risulterà più difficoltoso. Possiamo dunque utilizzare proiettili per difenderci ma creando l’eventualità di rimanere senza colpi durante lo scontro a fuoco con il nemico, oppure darsela a gambe e pregare di non essere seguiti. Ma tecnicamente ci sarebbe una terza via, solo immaginata visto il risicato numero di giocatori: nel caso in cui potessimo avvistare in tempo questi NPC, potremmo sfruttarli a nostro vantaggio, sfruttando la derivata disattenzione del malcapitato nei nostri confronti ed eliminarlo senza problemi. Oltre a questo, intervengono anche alcuni modificatori ambientali, oltre al ciclo giorno/notte: la componente survival, anche se non molto approfondita, ci costringe a star attenti anche alla temperatura e soprattutto alle radiazioni, che possono diventare letali qualora non riuscissimo ad allontanarci in tempo o curarci. Questi modificatori inoltre fungono anche da restrizione territoriale, sostituendo il cerchio di fuoco convergente verso gli ultimi superstiti.
Ma queste differenze sono ben poca cosa quando di giocatori non ce ne sono. Anche il feeling con le armi è pressoché simile alle altre produzioni, fornendo feedback risicati e per nulla soddisfacenti. Per lo meno una volta defunti potremmo divertirci ancora un po’: come per The Darwin Project, gli spettatori possono decidere alcuni cambiamenti da apportare alla mappa, come una violenta variazione meteo in grado di modificare leggermente il gameplay.
Escludendo dunque questi fattori, di Fear the Wolves rimane molto poco, davvero troppo simile alla concorrenza e, con uscita prevista per il 2019, servirà tanto lavoro per rendere questo titolo appetibile. Da non dimenticare anche la pericolosa concorrenza dei top di gamma come Battlefied V e Call of Duty: Black Ops IIII, che con le loro modalità Firestorm e Blackout potrebbero stravolgere il mercato da qui in avanti.
In conclusione
È veramente difficile valutare Fear the Wolves, anche se in versione early access. Almeno finora, il titolo sembra affetto più da problemi che riguarderanno il marketing e chi dovrà lanciarlo sul mercato, non proponendo qualcosa di realmente nuovo. Le poche differenze presenti infatti, non giustificano la migrazione dal vostro battle royale preferito a questo e, se il buongiorno si vede dal mattino, il lavoro di Vostok Games potrebbe arenarsi ben prima di partire. Vedremo come si evolverà la situazione, sperando che questo team sappia convergere i propri sforzi verso un gioco quantomeno autorevole.