RimWorld

Un’emergenza galattica. Una nave di linea viene distrutta, ma tre passeggeri riescono a salvarsi finendo nel pianeta più lontano della galassia. Questa è solo una delle storie di RimWorld, complesso colony sim ideato da Ludeon Studios sul modello di una vera e propria istituzione del genere come Dwarf Fortress.

Partiamo con ordine, visto la complessità del titolo: la schermata iniziale di RimWorld ci pone due scelte, ovvero il tutorial, consigliato ma non indispensabile per capire i meccanismi di gioco, e il fulcro di tutto, la nuova partita. Qui potremo decidere uno dei quattro scenari che il gioco ci offre: lo scenario base, ovvero quello dei tre sopravvissuti al disastro della nave di linea, la tribù perduta, con cinque umani sopravvissuti allo sterminio delle macchine, il ricco esploratore che vuole provare il brivido della sopravvivenza, e la cosiddetta naked survival, con un solo personaggio da controllare, ma completamente nudo e senza provviste. Quest’ultimo è lo scenario più difficile di tutto il gioco ed è consigliato solo a chi voglia provare un’esperienza davvero tosta, mentre crashlanded, il primo scenario, è consigliato ai novizi del titolo e a chi abbia avuto esperienze con giochi simili come Dwarf Fortress o Banished.
Il prossimo passo è quello di scegliere uno dei tre narratori, che fungono anche da selezionatori di difficoltà della nostra partita: abbiamo la “normale” Cassandra Classic, adatta a un’esperienza di gioco tradizionale con una difficoltà crescente, Phoebe Chillax che, come suggerisce il nome, è adatta a una partita più rilassata e concentrata sul building puro, e Randy Random, un vero e proprio anarchico capace di farci soffrire già nell’early game anche alle difficoltà più basse!
La meccanica dei narratori è uno dei punti di forza del titolo, regalando al giocatore una rigiocabilità davvero ampia, soprattutto se consideriamo che RimWorld è un titolo molto aperto alle mod di ogni tipo. Non ci sorprenderà vedere scenari pesantemente story-driven, come quelli ispirati a H.P. Lovecraft (dove troveremo il solitario di Providence come narratore) o al Signore degli Anelli, con protagonista J.R.R. Tolkien.
Dopo aver deciso l’ampiezza del nostro mondo, quest’ultimo generato da un seed casuale, sistema visto in giochi come Minecraft, e aver deciso il nostro bioma desiderato (si va dal deserto fino alla lastra di ghiaccio senza alcuna forma di vita), oltre alla nostra scelta di personaggi, rigorosamente casuali e ognuno con i vari pregi e difetti, sia fisici che mentali, si inizia finalmente a giocare!

In base allo scenario scelto, e soprattutto al bioma, si comincerà ad agire di conseguenza: sarà fondamentale raccogliere della legna o materiali analoghi sparsi per la mappa (e ce ne sono) per poter creare un rifugio, dei letti e soprattutto un armamentario di tutto punto. Quest’ultimo punto ricopre un ruolo fondamentale in RimWorld: che si parli di armi da melee come mazze o coltelli, oppure armi a lunga gittata come archi o pistole di ogni tipo (e la dotazione armamentaria del gioco è davvero vasta!), sarà importante per i nostri coloni avere qualcosa da usare per cacciare animali o, soprattutto difendersi dai raid di altre comunità. Proprio loro ricoprono un altro punto davvero importante del pianeta, visto che a ogni partita e a ogni generazione del mondo, verranno generate anche delle tribù con tanto di rapporti, siano essi amichevoli, neutrali o, nella maggior parte dei casi, vista la presenza di pirati, negativi. Ogni rapporto è mutevole nel tempo, in base a ogni nostra azione fatta: se attacchiamo una carovana mercantile di una certa tribù dovremo prepararci a subire tutta la loro ira, oppure, se cureremo e libereremo un prigioniero, potremo ottenere un aumento nell’amicizia col gruppo dato.
Descrivere ogni cosa possibile in RimWorld sarebbe veramente difficile, data la mole di contenuti disponibile nel titolo di Ludeon Studios: il sistema di combattimento ricalca quello di Dwarf Fortress, nessun exploit grafico particolare (anzi, lo stile grafico ricorda molto quello di Prison Architect), ma una libertà testuale letteralmente infinita. Potremo leggere per filo e per segno i colpi fatali messi a segno dal nostro tiratore scelto ai danni di un tacchino da cacciare, oppure di una cicatrice all’orecchio causata dal crollo di un tetto. Tutto è possibile!
E l’obiettivo finale? Pur potendo scegliere di poter affrontare una partita in modalità sandbox, il nostro destino è quello di riuscire ad arrivare all’astronave capace di farci tornare a casa. E se è dall’altra parte del mondo, come di solito succede? Nessun problema: possiamo fare tutto da soli, sfruttando i materiali e passando notti insonne al tavolo di ricerca, scoprendo nuove tecnologie per sbloccare oggetti più avanzati e migliorare il nostro tenore di vita.

Tirando le somme, dopo anni di lavoro e una lunga fase early access, finalmente RimWorld arriva tra noi in forma completa, facendo centro sotto ogni aspetto. Grafica e colonna sonora risultano semplici ma molto efficaci, e ben si sposano con il mood sci-fi misto western che abbiamo visto in serie televisive come Firefly oppure Westworld. Il gameplay è uno dei punti di forza, una vera evoluzione di Dwarf Fortress, che, grazie al motore grafico, tira fuori tutti i suoi punti di forza, con sessioni lunghe e che vi costringeranno a pronunciare la sempiterna frase “altri cinque minuti e poi stacco”. Il mostruoso supporto alle mod, poi, dona una longevità davvero impressionante al titolo tra miglioramenti delle meccaniche di gioco e scenari narrativi unici.
Se per anni il titolo di Bay 12 Games ha rappresentato un vero e proprio baluardo del colony sim roguelike, ora è arrivato il passaggio di consegne: RimWorld è l’evoluzione di Dwarf Fortress, ed è il momento che i fan del genere attendevano da almeno dieci anni.

 




P.A.M.E.L.A.

Ogni tanto capita di vedere sviluppatori indipendenti alla ricerca di Eldorado, con quel progetto cominciato dall’unione di tanti piccoli sogni e culminato con uno sviluppo più o meno travagliato ma capace comunque di vedere la luce, uscendo tra i vari store sia fisici che digitali. Nvyve Studios si aggiunge a tale novero dal 2015, anno in cui P.A.M.E.L.A cominciò il suo sviluppo, approdando nel 2017 in early access su Steam. Dopo alcuni aggiornamenti abbiamo deciso di testarlo, e il titolo pare presentarsi abbastanza bene nonostante ci sia ancora un po’ di lavoro da fare.

Tra Rapture e Wellington Wells

Negli anni abbiamo visto come a un certo punto qualcuno decide di lasciare la società in cui vive per fondare la propria città ideale, approfittando di alcuni mutamenti sociali, catastrofi o perché no, semplice voglia di cambiare aria. Questi paradisi però hanno una cosa in comune: hanno tutti fallito nel modo o in un altro. Nel mondo videoludico basta citare Bioshock e la sua Rapture, fallita miseramente nonostante la totale libertà da vincoli etici, morali, religiosi ecc, o la più recente Wellington Wells, protagonista in We Happy Few o qualche Vault in Fallout; tutte sono la rappresentazione dell’ego umano, incapace di gestire se stesso senza che si arrivi all’autodistruzione. E l’Eden, fulcro di P.AM.E.L.A., ha lo stesso destino, durando quanto la lettura delle prime pagine della Bibbia. La città ideale, massima espressione del Transumanesimo, è caduta in rovina sotto una misteriosa epidemia dilagata tra i suoi abitanti a seguito di esperimenti eugenetici non riusciti correttamente. Noi veniamo risvegliati dal sonno criogenico da P.A.M.E.L.A., un I.A. estremamente avanzata, in grado di gestire l’intero complesso urbano. Al contrario di quanto siamo stati abituati a vedere da HAL 9000 a Skynet, P.A.M.E.L.A. sembra un’entità benevola, che sin da subito ci aiuta, cercando di risolvere i misteri di Eden. Una volta coi piedi per terra, le associazioni con altri titoli saltano subito all’occhio, dal già citato Bioshock, a Prey fino a Dead Space, in un connubio di generi che già da adesso sembra discretamente funzionare. La narrazione del titolo sembra seguire i classici canoni di un souls like in cui, immersi in un mondo di cui siamo totalmente all’oscuro, abbiamo come unica possibilità di capire dove ci troviamo e cosa sta succedendo quella di leggere alcuni documenti o ascoltare diari di P.A.M.E.L.A. sparsi lungo le vie della città. Questo, assieme all’ambientazione a tratti claustrofobica e a tinte horror, riesce a creare un’ottima atmosfera, in cui cercare di sopravvivere con ogni mezzo diventa la nostra prerogativa. Non ci sono – almeno per ora – quest da seguire: ci siamo solo noi e l’Eden in tutto il suo splendore, capace di raccontarci visivamente quanto stia accadendo. Interessante è la presenza, oltre che di nemici di cui parleremo in seguito, di androidi progettati probabilmente per servire i cittadini e che ora senza uno scopo preciso vagano per le vie della città forse alla ricerca di se stessi; altri androidi adibiti alla protezione continuano invece a pattugliare, rimanendo sfruttabili per gli scontri, rendendoli molto più accessibili. La loro presenza pare segnalare una trama molto più articolata di quanto sembri, ma solo al day one potremmo avere un’effettiva risposta. Sulla carta il progetto sembra funzionare, eppure qualche criticità rischia di minare pesantemente i sogni di questo piccolo studio.

L’uomo deve essere superato

P.A.M.E.L.A. mischia tanti generi: un sandbox con elementi survival horror, FPS-RPG (probabilmente bisognerà creare una categoria apposita per questo tipo di titoli, che vada oltre la generica dicitura “action”). Sin da subito possiamo scegliere che tipo di bonus o malus saranno presenti in partita, dalla difficoltà in se sino al permadeath, in cui saremo costretti a ricominciare da capo una volta tirate le cuoia. La sua molteplice natura dunque salta subito fuori: è fondamentale raccogliere il maggior numero di risorse possibili per il crafting e per il potenziamento del proprio equipaggiamento, che consta in una speciale tuta, presente in diverse versioni e gradi di evoluzione, oltre a perk aggiuntivi e armi corpo a corpo e a distanza come del resto l’elemento survival, in cui rischieremo la morte se non si è mangiato o bevuto a sufficienza.
Il titolo sembra abbastanza vario, donando un buon senso di progressione, soprattutto durante le fasi di combattimento, forse il vero punto debole del lavoro Nvyve Studio. Al grido di “ho i pugni nelle mani” saremo costretti a farci strada attraverso combattimenti poco entusiasmanti: tutto sta nella gestione della schivata, poco intuitiva e che gioverebbe davvero di un buon sistema di targeting del nemico, in modo da rendere più semplice girare intorno all’avversario e scoprire eventuali punti deboli. Essendo comunque ancora il titolo in early access, si può chiudere un occhio e si spera vivamente che il combat system venga implementato a dovere. Purtroppo le cose non cambiano una volta ottenute delle armi a distanza, incapaci di restituire un feedback reale. I combattimenti sono dunque una danza in cui è necessario schivare i pochi pattern d’attacco nemici, abbastanza semplici da gestire anche se potrebbe capitare di affrontarne ben più di uno. In questo caso eseguire la “tecnica segreta della fuga” o attirare i nemici verso robot sentinella, potentissimi e in grado di gestire da soli una piccola orda. In generale questo funziona ma purtroppo ci sono da segnalare numerosi bug all’intelligenza artificiale, oltre a quelli tecnici: capiterà infatti di osservare strani comportamenti, come robot impassibili alle aggressioni o nemici capaci di rimanere ostacolati da oggetti insormontabili come una sedia.
Uno dei pochi obbiettivi chiari è quello di riportare Eden a esser quantomeno funzionante, cercando di riparare piccoli guasti all’alimentazione energetica, fondamentale per esplorare adeguatamente le vie della città in quanto, essendoci anche un ciclo giorno/notte, molte zone resteranno al buio, relegandoci all’ausilio della nostra fedele torcia. Insomma, si cerca di rendere il tutto quanto più immersivo possibile, anche grazie alla totale mancanza di HUD e l’utilizzo di menu e interfacce in tempo reale olografiche. Questo, come del resto l’intera struttura tecnica, poggia le sue solide basi sul motore Unity, estremamente versatile e qui sfruttato al suo meglio. Gli ambienti sono ben dettagliati, alcuni estremamente grandi e, nonostante il colpo d’occhio  generale sa di già visto, artisticamente sembra avere una propria, forte identità. A colpire è l’impianto luci, capace di regalare ottimi scorci sia di giorno che di notte fuori, ma anche all’interno, dove si fa uso di elementi olografici e simil-oled. Il risultato dunque è molto buono, anche se la componente audio sembra forse ancora indietro, in cui manca una vera profondità dei vari suoni presenti, ma anche componenti sonore di contorno, stile Alien Isolation o Dead Space, per intercederci: suoni ambientali sinistri, vento, vibrazioni, insomma, un campionario più vario in grado di esaltare quanto vediamo a schermo.

In conclusione

P.A.M.E.L.A. è forse ancora lontano dalla sua release definitiva ma già ora riesce a intrattenere e invogliare il giocatore a scoprire i piccoli segreti di Eden. Le meccaniche presenti sembrano ben studiate e frutto di una buona programmazione, mentre altri elementi, come il combat system, necessitano ancora di molto lavoro. Potenzialmente questo titolo potrebbe diventare davvero interessante e starà alle mani di  Nvyve Studio far si che ciò accada.




Far Cry 5 – La Storia del Grande Pdor, Figlio di Kmer

Il franchise Far Cry ha da sempre avuto un buon successo, sin dai tempi in cui Crytek e il suo CryEngine fecero sfoggio della potenza tecnica senza compromessi. Dopo un secondo capitolo e un lungometraggio alquanto discutibile, la serie ha conosciuto una lunga pausa sino al 2012, quando Far Cry 3 stravolse i sandbox portando enorme varietà d’azione e personaggi del calibro di Vaas Montenegro alla ribalta. Il quarto capitolo ha seguito la strada intrapresa, migliorando alcuni aspetti, e rendendosi in tutto e per tutto una semplice evoluzione di quanto visto in precedenza, mentre Primal è stato in grado di portarci nella preistoria e, nonostante alcuni evidenti difetti, ad apportare qualcosa di nuovo nel panorama videoludico.
Far Cry 5 non si allontana dal sentiero tracciato dai capitoli principali, replicando, ma in maniera ancor più esagerata, tutto il meglio della serie. Cominciano però a delinearsi gli stessi segnali che hanno poi portato alla pausa già di un franchise Ubisoft: Assassin’s Creed, e a Far Cry potrebbe toccare lo stesso turnover.

Justice League

Approcciarsi alle vicende narrate in Far Cry 5 non è così semplice: l’impianto narrativo vede le sue radici nella fittizia Hope County, piccola cittadina del Montana, sotto il controllo della famiglia Seed e il loro Eden’s Gate, una setta religiosa militarizzata, che “veglia” sui suoi credenti per salvarli dalla fine del mondo. Quel che contraddistingue questo capitolo è la totale serietà con cui sono raccontate e sviluppate le varie storie, il cui fulcro, Joseph Seed, Padre e guida del proprio “popolo”, risulta essere molto diverso da Vaas Montenegro e Pagan Min. La sua sana e controllata follia e la sua pacatezza, sia nelle parole che nei modi, rendono il suo personaggio quasi divino e a tratti magnetico.
Tutt’altro discorso riguarda i tre fratelli John, Jacob e Faith, ognuno con una propria precisa caratterizzazione e idee, tutte racchiuse nella cieca fede verso il culto. La forza di Far Cry 5 sta tutta qui, in un poker di personaggi ben scritti e che giocano un ruolo fondamentale all’interno di Hope County; la loro presenza è tangibile in ogni strada, accampamento e “nell’aria”, confermando ancora una volta la capacità di Ubisoft di creare personaggi memorabili.
Tutto ciò si contrappone però a un contesto molto caciarone e un set di compagni di viaggio molto sopra le righe. Proprio come il film del duo Snyder/Whedon, Far Cry 5 è un titolo schizofrenico, che alterna la massima serietà e una cupezza a tratti tragica, alla leggerezza disarmante che caratterizza la sua narrazione per la maggior parte del tempo. Manca appunto quell’amalgama perfetta presente nel terzo e quarto capitolo e, nonostante ci si trovi davanti a personaggi migliori, una storia più matura e ricca di colpi di scena, tra cucinare testicoli di toro e dar fuoco a edeniti sulle note di Burn Baby Burn, finisce per perdere efficacia. Un’ulteriore botta alla credibilità del titolo è data dall’isolamento forzato della cittadina nel bel mezzo degli Stati Uniti dei nostri giorni: per quanto si sia cercato di spiegarne i motivi, non risulta comunque sufficientemente credibile che al paese più potente al mondo, in un’era di telecamere, internet e satelliti in ogni dove, possa sfuggire una setta violenta, autrice di atti ai limiti del crimine contro l’umanità. Certo, l’ispirazione è chiara: il Tempio del Popolo era una setta realmente esistita a Jonestown, fondata e guidata da Jim Jones che indusse 909 credenti a suicidarsi con il cianuro, dopo l’omicidio di cinque persone, tra cui un deputato del Congresso degli Stati Uniti e l’imminente intervento dell’esercito.
Se già negli anni ’70 tutto questo era difficile da nascondere, figuriamoci alle soglie degli anni ’20 del XXI secolo.
A completare l’offerta ci pensano il multiplayer e soprattutto la Modalità Arcade, dove è presente anche un editor di mappe in cui è possibile utilizzare asset provenienti dagli ultimi successi di casa Ubisoft. Si possono selezionare classi predefinite ed essere catapultati in tantissime aree, sia per sessioni cooperative che competitive. Un’ottima aggiunta in grado di prolungare di molto la longevità del titolo.

La definizione di follia

Il feeling è sempre lo stesso: come detto poc’anzi non sono presenti particolari innovazioni e tutta la libertà che ha caratterizzato i precedenti capitoli è ancor più presente in Far Cry 5. La mappa di gioco è enorme, suddivisa in tre zone principali, ognuna controllata da uno dei fratelli Seed. Ogni zona è ampiamente caratterizzata ma ogni elemento di gameplay è riscontrabile un po’ dappertutto. Colpisce sin da subito la totale assenza delle classiche scalate delle torri radio per liberare sezioni della mappa, in favore di un’esplorazione più terragna e in fin dei conti piacevole. Tutto l’ambiente di gioco è costellato di piccole missioni secondarie, nuovi personaggi con cui interagire, luoghi segreti e tanto altro, fornendo un pacchetto ludico capace di intrattenere ben al di là della progressione principale.
Una delle più grandi novità riguarda il reclutamento di mercenari (classici NPC o personaggi originali) con determinate peculiarità caratteriali e di gameplay; potremmo assoldarli – una volta reclutati attraverso apposite missioni – due per volta, fornendo un supporto fondamentale in certi casi: alcuni arriveranno su un aereo o un elicottero da combattimento, altri saranno più improntati allo stealth, mentre altri ancora adorano farsi sentire fino ai confini della mappa. Questo sistema porta molta varietà d’approccio durante le missioni o durante i classici scontri per la conquista degli avamposti o in campo aperto, permettendo di gestire la posizione e quando aprire il fuoco. Purtroppo molte volte l’intelligenza artificiale non aiuta, rendendo le situazioni difficili più di quanto dovrebbero essere. Ogni AI avrà la propria specifica arma mentre noi, fortunatamente, potremo contare su un buon arsenale, anche se non estremamente vario: pistole, mitra, fucili e armi per così dire “esotiche”, sono personalizzabili sia nell’estetica che nella costruzione, aggiungendo mirini avanzati o caricatori più capienti. Visto l’andazzo del titolo, una maggiore personalizzazione degli strumenti di morte di certo non avrebbe guastato, aumentando ulteriormente il senso di possesso della propria arma. Stesso discorso vale anche per i mezzi di trasporto, molto vari ma “costretti a rimanere se stessi” per tutta la durata del gioco.
Sparisce anche il crafting in favore dei potenziamenti (Tratti) che potremmo accumulare aumentando la nostra esperienza: l’albero delle abilità dunque non conterrà solo il miglioramento delle “doti” del nostro protagonista ma permetterà lo sblocco di alcune feature come la tuta alare o la capienza delle munizioni, un tempo possibile solo con la costruzione di una borsa più grande. Questo ha permesso uno snellimento delle meccaniche, abbracciando ancor di più la natura arcade del titolo.
Anche i mezzi con cui ci muoveremo per le strade di Hope County risultano abbastanza semplici da guidare, soprattutto barche e veivoli. Ognuno di essi però possiede delle piccole differenze: l’intento di diversificare il comportamente delle vetture è ampiamenti visibile ma tutto questo sparisce, di fronte al caos che si genera nella tumultuosa cittadina americana.

Anche il gunplay rimane rimane ancorato ai suoi classici stilemi, dove tutto tende alla facilità d’uso. Ogni arma è però ben caratterizzata e non faticherete a trovare la vostra preferita. Potremmo portarne quattro, una volta attivato i potenziamenti necessari e questo, assieme al resto dell’arsenale fatto di granate, C4, esche per animali e chi più ne ha più ne metta, favorisce la massima libertà d’approccio; possiamo essere furtivi come un ninja, disattivando tutti gli allarmi e attaccare come un’ombra i nemici; possiamo bombardare e mitragliare dal cielo a bordo di elicotteri e aeri oppure, per i più smaliziati, l’approccio alla Rambo, con mitragliatrice pesante e lanciagranate.
Ognuno di questi approcci è estremamente appagante e spinge il giocatore a ingegnarsi per trovare nuovi modi di affrontare il pericolo. Far Cry 5 diverte, nonostante il forte senso di déjà vu, ma non si tratta comunque di un gioco semplice: trovarsi a corto di munizioni può accadere spesso e i nemici, benché non brillino di Q.I. digitale, sono numerosi e discretamente vari.

Cartoline interattive

L’evoluzione del Dunia Engine sembra aver raggiunto il suo apice. Gli splendidi paesaggi del Montana restituiscono meraviglia, quasi da indurre a fermarsi per ammirare i panorami. Ogni regione di Hope County è ben caratterizzata dal punto di vista delle ambientazioni, passando da praterie sconfinate a boschi nei quali perdersi, alte vette da scalare e fiumi da navigare. Insomma, il mix perfetto per una vacanza reale nelle wilderness areas statunitensi.
Tutto ciò fortunatamente è anche ben ottimizzato e senza problemi evidenti, dove l’utilizzo dei vari filtri regalano un’esperienza pulita e priva di cali di frame che possono compromettere la giocabilità, tralasciando un po’ di pop-up, soprattutto quando ci si ritrova in aria e qualche glitch qua e là. A colpire è l’impianto luci, in grado di rendere la cittadina quasi un paradiso, evocativo e idilliaco, visibile soprattutto in zone specifiche della mappa. La varietà di ambientazioni non combacia però con la varietà di flora e fauna, dove si è fatto davvero poco: nonostante l’enorme mappa a disposizione saranno pochi gli animali che incontreremo e le cui specie si contano su due mani scarse.
Il comparto audio si fregia dei migliori doppiatori, non solo per i protagonisti ma anche per i comprimari, restituendo credibili e freddi nella loro follia nel caso dei villain o del tutto fuori di testa per i nostri compagni. Peccato solo per la ripetitività dei dialoghi – quasi ossessivi – tra i membri della nostra crew e soprattutto l’interruzione delle conversazioni (che riguardano anche l’accesso a nuove missioni) nel caso in cui qualche nemico si trovi a moderata distanza senza rappresentare una minaccia. Un po’ di cura in più da questo punto di vista non avrebbe di certo guastato.
Per finire le musiche, perfette per accompagnare l’azione sia quelle create ad hoc per il titolo che quelle su licenza. Incredibilmente molto belle anche quelle Edeniti, nella loro versione di Radio Maria.

In conclusione

Far Cry 5 è la summa di tutto il meglio proposto dal 2012 a oggi nel franchise. Forse rappresenta anche l’ultima evoluzione possibile: sì, ci si diverte, intrattiene come pochi, portando su schermo personaggi assolutamente memorabili, ma è anche vero che molto sa di già visto e a tratti si percepisce una mancanza di idee o la voglia di andare sul sicuro. Ben vengano in questo caso i Blood Dragon e i Primal, così diversi eppure capaci di portare una ventata di aria nuova a una formula collaudata ma che rischia di fare la fine di un’altra setta, quella degli assassini.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.




Space Pirates and Zombies 2

Space Pirates and Zombies 2 è un titolo sandbox sviluppato da Minimax, team composto da soli due membri, ed è il secondo capitolo di una saga avviata nel 2011, con un primo capitolo che ad oggi vanta ben 600mila copie vendute.

In questo sequel, ci ritroveremo in mezzo al caos di un universo composto da avventurieri e mercenari che si ritrovano a dover lottare per la propria sopravvivenza, combattendo contro la piaga degli zombie. In pratica, l’obiettivo finale è quello di conquistare l’Universo intero e distruggere il virus che ha generato i morti viventi. Nelle prime ore di gioco andare avanti non sarà facile, ma con il tempo apprenderemo come controllare la situazione nella sua complessità.

La nave – la nostra “macchina” spaziale – avrà un’ampia scelta in termini di personalizzazione. Infatti, potremmo crearla da zero ma con un limite di componenti (dettati dal proprio livello). Grazie all’inventiva del team, potremmo aggiungere centinaia di differenti pezzi alla nostra nave, rendendola speciale e unica. Infine, oltre alla nave madre, avremo a disposizione delle navi “sentinella”, più piccole della principale ma in grado d’attaccare.  Possiamo trovare i pezzi da poter equipaggiare al nostro mezzo dopo aver abbattuto delle navi nemiche o tramite degli scambi.

La parte migliore del gioco arriva dopo l’assemblaggio della propria nave. Ci sono vari motivi per i quali scenderemo in battaglia (guadagnare il favore di altri personaggi, combattere i banditi ecc.), e ogni combattimento ci regalerà un bel po’ di frenesia e di sano e puro gameplay.

Infine, è d’obbligo parlare della mappa spaziale. Quest’ultima è presentata in modo circolare; è stata suddivisa in vari territori, ognuno dei quali ha a disposizione determinate risorse e può essere gestito da un generale. Il gioco in sè non gira semplicemente attorno a noi: infatti, gli altri capitani (circa 200) potranno conquistare le zone, prendere le risorse e combattere tra loro.
Inoltre, si ha la possibilità di unirsi ad altri o di creare una fazione. Infine, il gioco possiede una versione VR, cioè, sarà possibile giocarlo anche con il visore della realtà virtuale.

Space Pirates and Zombies 2, non possiede una grafica molto elaborata, ma nel contesto una grafica pulita e scarna calza a pennello. Il sonoro è nella media, nulla di memorabile ma, di base, orecchiabile e ben gestito.

Consigliamo il gioco se si è amanti del genere. Lo trovate disponibile su Steam, come il suo predecente capitolo.




The Kindred

Se la vostra vita ruota attorno al “farm and craft” e… e basta, non potrete che apprezzare il lavoro svolto da Persistent Studios con The Kindred, un simpatico, cubico e coloratissimo sandbox gestionale con il quale ci potremo cimentare nella fondazione di una cittadina agricola.

Prima una premessa

The Kindred è stato rilasciato nel febbraio 2016, ed è ancora in early access. Il gioco di per sé è sviluppato in maniera troppo semplicistica, forse si potrebbe definire  anche un po’ “nudo”. Non ci sono infatti obiettivi, missioni o sfide che possano mantenere viva la voglia di continuare a giocare. Questo è un po’ il motivo per cui alla lunga il gioco rischia di risultare noioso, ripetitivo e stancante sotto ogni aspetto: a conti fatti, The Kindred non rimane che un semplice e simpatico gestionale. Bisogna considerare  che il panorama indie videoludico, in questo momento, vede la presenza di diversi titoli dello stesso stampo già in commercio, ragione per cui il team di sviluppo dovrebbe impegnarsi a offrire un’esperienza il più variegata possibile, in modo da farsi strada tra gli altri concorrenti.

Mine & Craft

Lo scopo del gioco, a questo punto, diventa unicamente quello di far lavorare forsennatamente dei piccoli omini cubettosi chiamati “kin”. Inizialmente a ognuno di loro dovremo assegnare dei lavori in base alle loro caratteristiche: mining, crafting, researching, milking, etc… Questo perché durante il gioco, quando con l’ausilio del mouse si andrà a sezionare una  determinata azione da compiere (per esempio: far legna, cacciare, creare oggetti al banco da lavoro o cucinare) verrà svolta dal primo kin a disposizione a cui, in precedenza, sia stato assegnato quello specifico compito/lavoro.
Il fine ultimo di questo genere di giochi è sicuramente quello di stimolare l’estro creativo di ogni giocatore, dando libero sfogo alla fantasia, nella costruzione degli edifici e dell’intera struttura del piano di gioco.
L’interfaccia grafica è molto intuitiva, ci sono solo poche icone tra cui muoversi ma questo non limita la grande quantità di operazioni possibili durante il gioco, in effetti chi ha giocato almeno a uno dei capitoli di The Sims, noterà una leggera somiglianza con alcune funzionalità dell’editor.

Tirando le Somme

A dirla tutta The Kindred sarebbe potuto andare bene anche così com’è, qualora ci fossero stati almeno degli eventi o degli imprevisti che avessero messo un po’ di pepe al gameplay ma, ahimè, il casuale cambiamento climatico o il ciclo giorno/notte o ancora l’arrivo di un nuovo kin nella nostra comunità, non sono abbastanza per dare carattere al gioco che, purtroppo, rimane ancora povero di contenuti.
Dopo parecchie ore di pesante attività agricola rimane l’amarezza di non avere avuto mai uno scopo per tutta la durata dell’esperienza di gioco, ma non dimentichiamo che The Kindred è pur sempre un titolo ancora in fase di sviluppo, quindi non è detta ancora l’ultima parola: si spera che Persistent Studios abbia modo di farci ricredere con la versione definitiva.




Portal Knights


Portal Knights è il perfetto anello di congiunzione tra Minecraft e Dragon Quest Builders, che lascia libertà quasi totale lasciata al giocatore ma al contempo incanalandolo attraverso gli stilemi classici dei giochi di ruolo.
Un evento denominato “Frattura” ha diviso il globo in 47 distinti biomi, ora accessibili solo attraverso la scoperta di portali, ognuno dei quali necessiterà di diversi materiali per potere essere ripristinato. Il gioco ci presenta il suo carattere ruolistico fin dalla creazione del personaggio: avremo la possibilità di scegliere tra le classi Cavaliere, Mago e Arciere, ognuna contraddistinta con un apposito albero delle abilità. Portal Knights  dà la possibilità di affrontare il gioco in diverse modalità: sarà possibile costruire un nuovo equipaggiamento per uccidere i mostri e salire di livello o varcare i portali col solo scopo di prendere i materiali necessari e dedicarci esclusivamente al crafting.
Come ogni buon sandbox, il gioco permette di distruggere ogni singolo cubo sulla mappa e poi riposizionarlo dove meglio si ritiene per costruire edifici, fortificazioni, dungeon o fortezze volanti: quelli della propria fantasia saranno gli unici limiti per il giocatore.

Se il vostro scopo è unicamente quello di saltare da un’isola all’altra il più velocemente possibile costruendo i portali, in una quindicina d’ore potreste aver già fatto tutto quel che vi serve ma, nel caso voleste prendervela con calma e creare un mondo tutto vostro, le ore da spendere nel gioco potranno essere infinite. Potrete poi invitare anche altri tre amici sulla vostra isola e lavorare in quattro a un progetto comune o persino andare a caccia di materiali rari insieme, altra nota di merito per una produzione che offre un’esperienza piuttosto valida.
Tuttavia, ciò che rende veramente Portal Knight distante dall’essere un epigone di altri modelli già visti, sono i vari elementi GDR: talvolta incontreremo altri personaggi che ci forniranno numerose side quest, rinfocolando la motivazione a continuare l’esplorazione dei vari mondi.
L’unico appunto che ci sentiamo di sottolineare, semmai, concerne l’inventario, basato su un’impostazione a menù e sottomenù che non sembra fare dell’immediatezza la propria virtù: navigarci risulta macchinoso, a tratti sgradevole.
Da un titolo come Portal Knights, che presenta una struttura lineare di crescita e di scoperta ci si poteva aspettare una storia di maggior spessore, la narrazione rimane sullo sfondo e non si erge praticamente mai nel procedere del gameplay, lasciando la sensazione che siano i giocatori stessi a creare il proprio racconto (e questo non è sempre un bene).

Sotto il profilo tecnico, il titolo gode infine di 60 fps e non mostra segni di cedimento regalando dei buoni colpi d’occhio: il ciclo giorno e notte, con alcuni nemici che compaiono solo all’imbrunire, e una dinamica dei fluidi particolarmente riuscita sono solo altre piccole chicche che migliorano l’esperienza globale.
Dal punto di vista sonoro, il gioco gode di un buon impianto tipico degli adventure game, pensata in maniera accurata con effetti realistici in azioni elementari (dai colpi sferrati a un nemico ai semplici passi in fase di movemento). È probabilmente la colonna sonora a far però la differenza, con deliziose variazioni melodiche che vanno di pari passo con i cambi di scenario e d’azione. Il lavoro orchestrale è davvero di pregio, le composizioni della Synthetic Orchestra (dietro la quale si nasconde il nome del solo Blake Robinson, che aveva già contribuito al lavoro sulla OST di Terraria) richiamano sonorità di maestri come John Williams e Danny Elfman innestandosi benissimo nell’opera di Keen Games.
Pur non risultando esente da bug, Portal Knights risulta davvero un bel prodotto, estremamente leggero e affascinante sul piano visivo e sonoro, e con un gameplay semplice e mai snervante, con un combat system basilare ma efficace. basato su attacchi e schivate, perfetto per il pubblico giovane a cui il titolo si rivolge.




Tokyo 42 – Citazioni ne Abbiamo!?

Ogni tanto si assiste a un ritorno agli anni ottanta: che sia per la moda, sui libri, film o videogiochi poco importa; in qualche modo quegli anni ci hanno lasciato qualcosa e riviverne i momenti migliori mette una pezza alla nostalgia. Proprio in ambito videoludico abbiamo avuto molti esempi di revival che, prendendo spunto da film di genere come Dredd, Blade Runner o Robocop, hanno fatto saggiare le peculiarità di sceneggiatura e messa in scena tipica di quegli anni. Basti citare il DLC di Far Cry 3 denominato Blood Dragon, un’enciclopedia della fantascienza più trash anni ottanta, fino al titolo protagonista di quest’oggi, Tokyo 42. Anch’esso recupera tutte le caratteristiche dei lungometraggi di quegli anni, le situazioni, i dialoghi e il design, impacchettando un titolo divertente e di intrattenimento, pur non privo di qualche difetto.

Cyberpunk 2042

Impersoniamo qualcuno la cui vita cambia improvvisamente. Veniamo a scoprire dalla TV che siamo stati incastrati per un omicidio accaduto per le strade di Tokyo. L’unica cosa da fare è scappare e cercare risposte su chi è stato e perché. Inutile dire che le parole assumeranno forma di proiettile. Questo è insomma l’incipit di Tokyo 42, di certo non una trama cervellotica, ma comunque adatta al tipo di contesto. È un pretesto, qualcosa che ha la funzione di introdurci al mondo di gioco e di guidarci verso il finale. Anche i comprimari subiscono una caratterizzazione anni ottanta, con dialoghi sopra le righe e colpi di scena abbastanza forzati. Nel corso della storia interagiremo con diversi personaggi, tutti con uno stile di vita abbastanza discutibile, ma che saranno utili per scoprire la verità su quanto successo. La trama si sviluppa come se fosse il primo GTA (con il dovuto metro di paragone): nel peregrinare da un capo all’altro di Tokyo troveremo, in parallelo alle missioni principali, quest secondarie legate ai diversi personaggi, oltre a un sistema – che potremmo definire “di contratti a termine” – che ci permetterà di acquisire reputazione e denaro. Proprio la reputazione diventa il fulcro del gioco: maggiore sarà, più avremo a che fare con i pezzi grossi della mala e, di conseguenza, avremo modo di acquisire informazioni cruciali.
Insomma, Tokyo 42 non è altro che un’accozzaglia di cliché anni ottanta, piena di riferimenti a film, manga (uno su tutti Ghost in the Shell), e tanto altro di quanto sfornato in quegli anni. E proprio per questo ci piace.

Se non hai un gatto non sei nessuno

Tokyo 42 è innanzitutto uno sparatutto-sandbox. Le varie missioni che sceglieremo hanno una buona dose di varietà d’approccio: sfruttare la mappa sarà essenziale in ogni frangente, non solo se si vuole affrontare il tutto in stealth, ma anche se si vuole intraprendere la strada di uno Steven Seagal qualunque. Il nostro arsenale è molto vario, e va dalle classiche pistole ai fucili di precisione, sino al bazooka e a una katana che regala grosse soddisfazioni. Quando si comincerà a fare sul serio inizierà una vera e propria guerra: capiterà molto spesso di trovarsi da soli contro decine di nemici e centinaia di proiettili visibili a schermo; proprio quest’ultima caratteristica sarà essenziale dato che ci permetterà di schivare letteralmente i colpi nemici e di rispondere di conseguenza, magari sfruttando la scarsa IA degli avversari.
Particolare è anche il sistema di puntamento – un po’ macchinoso, a dir la verità –nel quale diventa essenziale mirare con attenzione ma, complici alcuni problemi di prospettiva, può risultare frustrante, soprattutto durante i momenti più concitati. Qualora le cose si mettessero davvero male, entrerà in scena anche un simpatico sistema di mimetizzazione olografica: consumando l’energia di una batteria non meglio specificata, potremmo cambiare aspetto e mischiarci così tra la folla. Anche questo sistema dovrà essere pianificato e bisognerà controllare se nelle vicinanze sia posizionato o meno un sistema di ricarica dell’energia. Una volta perse le tracce, i nemici riprenderanno il proprio pattugliamento. È un titolo che non risulta per nulla semplice, grazie anche al fatto che basta essere colpiti soltanto una volta per ritrovarci all’altro mondo. Oltre a questo avremo a che fare anche con le Nemesi, colleghi assassini che desiderano farci fuori; anche loro possono mimetizzarsi tra la folla per cui, potenzialmente, ogni cittadino di Tokyo può diventare una minaccia. Fortunatamente potrà venire in nostro soccorso – una volta sbloccato – un gattino modificato geneticamente che, con il suo potere di rilevazione, può aiutarci a trovare la Nemesi e quindi rispedirla al mittente.
Un elemento cardine del gameplay di Tokyo 42 è la prospettiva, nel bene e nel male. Tutta la mappa può essere infatti ruotata a intervalli di 90° permettendoci di vedere tutto ciò che rientra nel nostro interesse. Il rovescio della medaglia si ha però quando ci troviamo in spazi stretti, magari tra un palazzo e l’altro, dove diventa praticamente impossibile vedere la strada da percorrere o individuare eventuali ripari. Peggio ancora quando si è alla guida di un mezzo di per sé già difficile da governare che, con l’aggiunta di un cambio prospettico di questa portata, diventa una delle parti più frustranti del titolo.
Tokyo, comunque, si presenta molto colorata, con un design che si rifà in parte a opere come Ghost in the Shell: grattacieli colorati, enormi schermi continuamente animati e alcuni sistemi tecnologici ci proiettano direttamente nel futuro; è liberamente esplorabile a piedi ma è possibile utilizzare anche – una volta sbloccati – i vari punti d’interesse, un sistema di teletrasporto in tempo reale molto utile, data la dispersività e caoticità della mappa. Particolare è anche la scelta di annullare completamente i danni da caduta, anche da altezze proibitive.
Lungo la città sarà possibile fare acquisti in punti specifici, soprattutto di armi e munizioni, ma anche di alcuni oggetti di dubbia utilità, come ad esempio un casco di banane. La mappa presenta anche dei piccoli segreti da raggiungere, oggetti rari che, una volta recuperati, entreranno a far parte del nostro arsenale.
Durante il gioco si sente comunque la mancanza di una reale omogeneità tra le varie parti del titolo, si ha l’impressione che mondo di gioco e narrazione siano completamente slegate e anche alcune meccaniche risultano ancora grezze.
Anche l’audio generale e le musiche non fanno gridare al miracolo, ed è un vero peccato perché proprio sul piano sonoro potevano essere inserite delle chicche davvero niente male. Il titolo è completamente tradotto in italiano.

In conclusione

Tokyo 42 si presenta come un titolo dall’alto potenziale mal sfruttato: l’approccio alle missioni è sicuramente il punto forte del titolo ma il sistema di puntamento impreciso, la mappa molto carina ma caotica e, soprattutto, i già citati problemi di prospettiva, rendono questo indie game spesso frustrante. La sfida data dalle missioni può comunque intrattenere e un contesto che non si prende molto sul serio aiuta molto a non focalizzarsi su alcuni difetti narrativi e di design. Chi è amante della fantascienza anni 80-90 troverà comunque modo di apprezzare le scorribande per le vie di Tokyo.




Destiny: stop agli aggiornamenti

L’ultimo settimanale di casa Bungie ha affrontato la questione dei futuri aggiornamenti che avrà Destiny anche dopo l’uscita del secondo capitolo e dopo l’Era del Trionfo, ultimo evento del suo genere. Destiny non riceverà altri aggiornamenti né ci dovrebbero essere altri eventi, anche se molti giocatori aspettano il rilascio di un nuovo update per il bilancio delle armi, viste le lamentele dei giocatori sul nuovo meta del PvP, ma il direttore della community David “DeeJ” Dague ha affrontato questo argomento, dicendo:

«Nel nostro costante monitoraggio della community, abbiamo sentito molti di voi chiedere se l’attuale sandbox avrà un altro aggiornamento. Il nostro unico focus in questo momento è Destiny 2. Tutte le mani di casa Bungie sono indaffarate a rendere Destiny 2 un seguito degno per la community. Abbiamo in programma una Beta per quest’estate che richiede la nostra attenzione. Quest’autunno daremo inizio a un nuovo ciclo di aggiornamenti continui per un nuovissimo gioco che crediamo sia la risposta a tutti i vostri commenti e suggerimenti dal lancio dell’originale Destiny. Speriamo che percepiate quanto il vostro feedback sarà importante per noi quando metterete le mani su Destiny2. Come al solito, vi ringraziamo per le vostre opinioni che ci aiutano a creare giochi migliori.»

Questo significa che tutti i feedback che verranno inviati saranno implementati in Destiny 2. Quindi, ancora una volta, Bungie ascolterà le lamentele e i consigli della community e li metterà in pratica con Destiny 2.
La beta si avrà quest’estate, con data ancora da decidere, ma Bungie sarà presente all’E3 e probabilmente avremo più informazioni.
La data di lancio di Destiny 2 è prevista per l’8 settembre e il titolo uscirà per PS4, Xbox One e PC, sulla piattaforma di Blizzard, Battle.net.
Passate con noi questo E3, saremo in live su Twitch per seguire in diretta tutte le conferenze e rimanere sempre aggiornati.