Perché Mass Effect: Andromeda ha fallito

La saga di Mass Effect è probabilmente una delle più riuscite storie a tema sci-fi, non solo per il meta videoludico. L’opera di Bioware, firmata Casey Hudson ha appassionato milioni di videogiocatori, attratti da un contesto fantascientifico ottimamente costruito in cui i background dei personaggi si intersecano a intrighi politici, antiche leggende e perché no, relazioni amorose. Ma oggi non parleremo di questo: a un certo punto infatti, qualcosa si è rotto, ben prima che Mass Effect: Andromeda entrasse in sviluppo. Cerchiamo di capire cosa non ha funzionato e magari, cosa aspettarci da prossimo capitolo, in sviluppo in parallelo assieme al prossimo Dragon Age.

Un finale imperfetto

Per chi non conoscesse la storia, Mass Effect narra di Jonh (o Jane) Shapard, comandante dell’Alleanza terrestre nel 2183. Dopo alcune vicissitudini si scopre che la nostra galassia potrebbe essere ben presto sotto attacco da un’antica forza, in grado di estinguere ogni forma organica. Anche se a livello narrativo non presenta particolari picchi, è la sua profondità a colpire: già il primo capitolo vanta oltre 20.000 linee di dialogo, in cui pesa molto più l’atteggiamento con cui si interagisce piuttosto che il cosa si comunica. Mass Effect è dunque qualcosa in grado di regalare centinaia d’ore di gameplay di alto livello, ricca di mondi da scoprire e storie di interi popoli da approfondire. Ma Bioware non è mai stata immune da critiche: col passaggio a Mass Effect 2, molte delle componenti RPG vennero messe da parte, in favore di una maggiore attenzione sulle fasi di shooting e l’azione in generale. Questo non piacque all’inizio alla maggior parte del pubblico, accusando la software house di essersi in qualche modo “adeguata alla massa”; ma come accade solitamente, ci si concentrò su quel singolo aspetto piuttosto che sull’intero progetto e questo, come vedremo, si è ripetuto più volte. Se è vero che Mass Effect 2 vanta un maggiore focus sull’azione è altrettanto vero che l’intero impianto narrativo e soprattutto il gameplay, è di gran lungo superiore al suo predecessore, trovando il culmine nella Missione Suicida, uno dei picchi più alti della storia videoludica recente: in questo frangente infatti, ogni vostra scelta intrapresa nel corso dell’avventura può decidere la vita o la morte definitiva dei vostri compagni che, di conseguenza, non troveranno posto nel sequel.
Dopo diversi anni, Mass Effect 2 è forse riconosciuto come il migliore della trilogia, nonostante Mass Effect 3 ne abbia migliorato ogni caratteristica. Perché? La risposta risiede in un solo e unico motivo: il finale. Mass Effect è una storia di sacrifici, dove si è disposti a sacrificare un’intera specie pur di avere una possibilità di salvare la galassia. Ogni scelta intrapresa, sin dal primo capitolo, trova culmine in queste immense battaglie per la sopravvivenza e il cui epilogo si suddivide in diversi finali. Benché abbiamo tutti un senso ben preciso, è il modo che non è andato giù ai fan, trovando le conclusioni forse un po’ sbrigative e poco chiare, tanto che le speculazioni su quanto avveniva rivaleggiarono con quelle di Dark Souls (ne parleremo in futuro).
Bioware corse ai ripari, fornendo gratuitamente a tutti i possessori di Mass Effect 3 il DLC Extended Cut, con cutscene più strutturate, ma anche qualche variazione in grado di modificare le reali conclusioni della saga. Se per alcuni, la software house canadese è stata da elogiare per aver ascoltato e ben interpretato il volere dei fan, dall’altro si è palesata una mancanza di personalità, in grado di difendere il proprio lavoro. Perché alla fine – diciamocelo – le variazioni apportate sono dovute a un manipolo di persone che come noi, hanno semplicemente goduto da spettatori l’immensità dell’opera.
Qualcosa dunque cominciava a scricchiolare e, su queste crepe, venne sviluppato Mass Effect: Andromeda.

Un’enorme occasione mancata

Dopo il termine di una trilogia così importante, costruirne un seguito non è affatto semplice. Infatti prima del suo reale annuncio, molte furono le teorie dei fan, di cui alcune vertevano verso “antichi” prequel o futuribili sequel. Andromeda è, a conti fatti, un sequel datato 600 anni dopo gli eventi della prima trilogia ma che trova il suo incipit ben prima del termine di Mass Effect 3, con la galassia che escogita un “piano B” qualora le cose si mettessero male: vennero infatti costruite enormi Arche, che avrebbero portato le specie nella vicina galassia di Andromeda, salvandole dall’estinzione. Incredibilmente, presero il via entrambi i piani. Eppure, tutti questi enormi cambiamenti all’interno del gioco, non sembrano tangibili.
Non parleremo di Scott o Sara Ryder, i protagonisti, ma di come alcune scelte cozzano violentemente con quanto costruito in precedenza; non parliamo di lore o di incongruenze narrative ma piuttosto di scelte di design vere e proprie.
Partiamo con qualcosa di leggermente soggettivo: il nostro lavoro è quello di essere Pionieri e scovare una nuova casa per le specie sopravvissute. Ci capiterà di scandagliare pianeti disabitati, ma c’è un però: il nostro compito di Pionieri è essenzialmente inutile. Questo perché sappiamo già quale pianeta sarà predisposto alla colonizzazione escludendo completamente la scelta del giocatore, compromettendo così non solo il ruolo che ci viene affibbiato ma il senso stesso del gioco. Qual è il senso appunto,  di esplorare nuovi pianeti, decidere se sono adatti o meno alla vita, quando la scelta è del tutto assente? Questo problema è forse uno dei più invisibili, abituati forse a seguire, percorsi prestabiliti; eppure è un Mass Effect e di nuova generazione per giunta.
L’esser Pionieri fa pendant con un’altra scelta ampliamente discutibile: siamo nella galassia di Andromeda, una galassia evolutasi in maniera completamente indipendente dalla Via Lattea. Eppure, una volta reclutato un’Angara, una specie autoctona, avrà gli stessi poteri a disposizione dei nostri. Questa leggerezza mina pesantemente la credibilità del titolo, creato da un team solitamente estremamente puntiglioso con i dettagli.
Ma l’occasione mancata più grande è il non sapere cosa accade alla nostra galassia dopo aver passato tre capitoli a gestire il destino dei suoi abitanti in relazione a un arco temporale di ben 600 anni. Curare o no la Genofagia dei Krogan a cosa ha portato ad esempio? Si sono estinti o hanno ricominciato a dar battaglia a chiunque li ostacoli? In mancanza di una minaccia comune, i popoli della galassia sono ancora in pace? Non lo sapremo mai  e questo non saperlo, è probabilmente il fallimento più grande. La storia di Mass Effect si svolge su più cicli di distruzione della durata complessiva di milioni di anni, con un’attenzione riservata in special modo al tempo in cui giochiamo ovviamente, ma anche a quanto accaduto prima, narrando eventi di migliaia di anni fa.
600 anni in Mass Effect sono un’inezia ma sufficienti per mostrare le conseguenze delle nostre scelte e sacrifici, fulcro centrale della saga. Mancando questo, Mass Effect: Andromeda si è mostrato inadeguato a portare avanti un progetto lungo 10 anni, nonostante il titolo sia valido sotto moltissimi punti di vista.
Complice questi elementi, oltre ad alcuni problemi tecnici e un data di rilascio in mezzo a The Legend of Zelda: Breath to the Wild, NieR: Automata, Horizon Zero Dawn e Nioh, Mass Effect: Andromeda fu un fiasco, non riuscendo a conquistare ne il cuore dei fan ne nuovo pubblico. Non si sa ancora se il prossimo sarà Mass Effect: Andromeda 2, nonostante un finale del primo capitolo che faceva presagire l’inizio di una nuova trilogia. Attendiamo riscontri, magari dal prossimo E3, sperando che le critiche abbiano risollevato uno dei team migliori in circolazione.




Detroit: Become Human

Mi ci sono volute due run prima di decidermi a parlare dell’ultima opera di David Cage. Nel momento in cui scrivo questa recensione, a quattro mesi di distanza dall’uscita del titolo, mi sembrano ancora poche. Detroit: Become Human non condensa soltanto un messaggio profondo, a più livelli, in un videogame ben congegnato, ma esprime soprattutto un potenziale narrativo ben sviluppato in un articolato dell’albero delle scelte, dando vita a una narrazione che è forse la più equilibrata e densa fra quelle sfornate da Quantic Dream in tutti questi anni di development.

Gli androidi sognano (non soltanto pecore elettriche)

Come nel precedente Heavy Rain, Detroit: Become Human segue la storia di più personaggi, tre nel caso in questione: Kara (Valorie Curry), in fuga per salvare la piccola Alice (Audrey Boustani) da un padre violento, Markus (Jesse Williams) che si ritrova suo malgrado dalle ceneri della distruzione alla testa di una rivolta, e Connor (Bryan Dechart), androide progettato per supportare il tenente Hank Anderson (Clancy Brown) nelle indagini che vedono coinvolti i “devianti”. Tre storie separate che si incroceranno nella Detroit del 2038, in un futuro che non possiamo definire né distopico, né esattamente ucronico, e che David Cage e il lead writer Adam Williams tentano di raccontare nella forma della fantascienza autoriale, sulla falsariga dei grandi narratori del genere. Non staremo qui a perderci in parallelismi con Gibson, Asimov, Lem, Dick, Le Guin e in tutta la letteratura di riferimento che permea quest’opera, né analizzeremo i punti in cui Detroit: Become Human falla o regge dinanzi ai suoi omologhi letterari (a cui vanno aggiunti quelli cinematografici), sarebbe un’operazione lunga e inappropriata, a un approfondimento simile va riservata altra sede.
A favore della relativa brevità di cui una recensione si avvantaggia rispetto a un testo critico, ritorniamo al contesto di riferimento: i tre personaggi giocabili di questa storia si troveranno ad affrontare il divenire delle loro storie in un momento cruciale per la storia umana. Creati dal genio di Elijah Kamski (Neil Newborn), gli androidi sono ormai una realtà consolidata da anni: prodotti e immessi sul mercato dal colosso Cyberlife, sono diventati un elemento fondamentale nella vita di ogni cittadino americano, il quale è libero di utilizzarli a piacimento, dalle pulizie di casa al piacere sessuale. Gli androidi sono macchine senzienti ed evolute, hanno sviluppato una forma di coscienza, la loro intelligenza artificiale gli permette di prendere decisioni autonome, pur restando nei limiti comportamentali imposti dal software. Ma adesso in città si registrano sempre maggiori casi di “devianti”, androidi che sfuggono alle regole imposte dal loro codice e che adesso si rivoltano contro gli umani. Per ragioni profondamente diverse, Markus e Kara si ritrovano a “reagire”, a divergere dall’algoritmo, e per questo diventano devianti. Connor corre nella direzione opposta: stabile, ligio ai doveri del software, l’agente modello RK800 avrà il compito di indagare per riportare l’ordine sconquassato dal dilagare della devianza androide.

Ecce Robot

In Detroit: Become Human gli androidi ci appaiono umani in tutto e per tutto: come ne Il Cacciatore di Androidi di Dick in qualche opera (non tutte) di Isaac Asimov, sarebbero indistinguibili dai cittadini di Detroit se non fosse per un chip luminoso applicato circolarmente alla loro tempia destra. Fin dall’inizio, gli androidi ci vengono presentati come incapaci di emozioni, ma ci si rende conto ben presto (controllando i protagonisti) che non è affatto così, e cominciamo a presagirlo nelle prime scelte multiple possibili, dove si vedono barlumi di sentimento già sin dalle fasi iniziali. Quasi non stupisce che Kara e Markus rompano la barriera delle regole imposte dall’algoritmo per proteggere persone a loro care, seguendo un sentimento di giustizia che si annida probabilmente negli abissi della loro coscienza. Una coscienza che mostrano di avere in una serie di frangenti, ed è qui che si trova uno dei punti fermi dell’opera: i finali possibili sono tantissimi, e dipendono tutti da una combinazione di scelte precedenti. Il destino di un personaggio può cambiare radicalmente, si può vivere o morire, mettersi in salvo o essere catturati, ribellarsi o fuggire, ma c’è un aspetto che sembra non essere in discussione: anche gli androidi sono capaci di sentimenti. Da qui una delle domande fondamentali del gioco: è giusto ridurre in schiavitù degli esseri senzienti, capaci di soffrire e gioire? È giusto soggiogare il loro libero arbitrio ai bisogni umani? Il creatore ha diritto di proprietà, nonché di vita e di morte, sulle proprie creature? Non sembra porsi qui nemmeno il discorso della pericolosità a priori degli androidi: i robot non hanno qui manie di grandezza o di conquista del potere, né sono macchine assetate di sangue, vogliono solo la libertà, anche la loro violenza è di reazione più che d’ambizione. Markus può diventare in qualche modo uno Spartacus dei tempi futuri, è un mondo in cui fra gli androidi circola il nome di una figura messianica, Ra9, sussurrata in segreto o scritta in muri nascosti, la cui parola è passata di soppiatto come fosse un samizdat.
Il discorso va ancora più in profondità, facendosi metafora del nostro tempo quando si parla di discriminazione: gli androidi sono una minoranza, vittime del volere della razza dominante, quella umana. Fino a che punto è diverso, oggi, il discorso etnico?
Markus è un androide di colore, una minoranza nella minoranza in una società composta di umani prettamente di etnia caucasica, e non è un caso che il suo finisca per essere un ruolo chiave in prospettiva di una rivolta androide. Qualunque sia la strada verso la quale lo guideremo (che non necessariamente lo porterà sulla via della rivoluzione), certamente arriveremo a Jericho, la misteriosa destinazione verso la quale si dirige ogni androide in cerca di un luogo sicuro. Per farlo, passeremo attraverso gli indizi nascosti in vari murales, lasciati lì per indirizzare sulla giusta strada come i sassolini di Hansel e Gretel.
Non è un caso che uno dei graffiti abbia al centro Cassius Marcellus Clay, che nel 1965 cambiò il proprio nome in Muhammad Alì a seguito della propria conversione all’Islam e che anni dopo, nel 1968, si oppose alla guerra del Vietnam affermando di non aver nulla contro i Vietcong, i quali, a differenza di vari suoi concittadini americani, non lo avevano “mai chiamato nigger”. Nello stesso murale, sulla parte destra, si trova inoltre un leone, probabile riferimento a Zion, utopica terra promessa mutuata dall’ebraica Sion e opposta all’oppressiva “Babylon” del mondo moderno. Il concetto è alla base del Kebra Nagast, testo sacro del rastafarianesimo, che racconta, fra le altre cose, del passaggio dell’Arca dell’Allenza da Gerusalemme all’Etiopia, la culla dell’umanità, che non a caso aveva come simbolo il Leone di Giuda nella propria bandiera.
Markus è dunque un probabile simbolo della lotta contro la discriminazione etnica, così come la storia di Kara potrebbe esserlo contro la violenza sulle donne e sui minori: l’androide donna AX400 viene riportata a casa dal padre di Alice, Todd, che l’aveva già precedentemente distrutta e portata a riparare. Il viaggio della ragazza e della ragazzina ha un valore filiale, che vedrà la più adulta rischiare il tutto per tutto per portare in salvo la piccola, dritte fino in Canada, dove gli androidi non sono oggetti immessi sul mercato e godono degli stessi diritti degli umani, e che come in The Handmaid’s Tale diventa una meta a cui aspirare, una terra promessa di uguaglianza e libertà.

Visioni di robot

La storia di Detroit: Become Human è dunque ricca sul piano simbolico, oltre a risultare ben scritta. I dialoghi sono solidi, la narrazione dinamica e dal buon ritmo, e soprattutto mancano i plot hole che gravavano su alcuni precedenti titoli, rei di aver drasticamente allontanato storie come quella di Heavy Rain dall’eccellenza.
Il lavoro scrittoriale di Cage e Williams non gode di elementi particolarmente stupefacenti, ma la storia ha un indiscusso equilibrio e risulta di certo il punto più alto della produzione Quantic Dream, come lo è tutto il comparto tecnico. Se su PS4 l’immagine di Detroit: Become Human gode di una risoluzione di 1080p, su PS4 Pro raggiunge i 2160p tramite il checkerboard rendering, con un anti-aliasing temporale atto a eliminare effetti edge shimmer e aliasing sulle superfici. Il gioco si mantiene a 30 fps costanti, con alcuni cali negli spazi aperti dove è possibile apprezzare la maggior potenza di PS4 Pro nell’evitarli, e dove, in generale, il clustered forward rendering torna molto utile in termini di illuminazione, con uno straordinario risultato ottenuto tramite un mix di luci dinamiche che accentua il realismo. Come rilevato anche da Digital Foundry, il lavoro di Quantic Dream sui materiali e sul loro rendering basato sulla fisica è mirabile, gli oggetti sono impreziositi dalle loro stesse imperfezioni, la BRDF (Bidirectional Reflectance Distribution Function) restituisce un risultato che accentua il senso del reale nel rapporto tra luci e materia. Sempre a proposito di renderizzazione, uno dei punti più alti di questo lavoro è stato fatto sui personaggi, con modelli che risultano vividi e realistici anche nei primissimi piani, dove risaltano sguardi di grande intensità e una resa della pelle straordinaria, valorizzata da uno scattering subepidermico che valorizza il rapporto tra luce e pelle, restituendo un realismo fra i più belli mai visti.
Realismo globalmente accentuato da tutto il lavoro fatto nel comparto audio, con una gamma di suoni amplissima negli scenari più disparati, apprezzabile nel livello di dettaglio raggiunto negli spazi aperti, dove la gamma di suoni ambientali riprodotta riesce a comporre un quadro già ben ricostruito sul piano visivo, e dove anche il suono della monorotaia in centro città ha una sua personalissima voce. La soundtrack diventa così un elemento atto a impreziosire un lavoro di altissima fattura, con ben tre composer impegnati a dar la musica alle circa 10 ore di gioco del titolo: ogni musicista è stato infatti impegnato a musicare la diversa storia di un personaggio, da Philip Sheppard, che ha dato vita a un emozionante lavoro di violoncello per la storyline di Kara, all’iraniano Nima Fakhrara, che ha regalato musiche d’ispirazione altamente cinematografica per Connor, fino a John Paesano, che ha puntato sull’epicità crescente per raccontare la storia di Markus, in un climax armonico di altissimo livello in cui la musica è colonna portante della grammatica emozionale del titolo. Tutte e tre i compositori tengono conto di con influenze brass, funk e blues, quasi come dovuto omaggio a Detroit, città che ha dato i natali alla storica casa discografica Motown.

Diagrammi di flusso

Il lavoro globale di Detroit: Become Human consta di un felice mix di ricostruzione e invenzione: l’intera città di Detroit è stata ricostruita partendo dalla reale città, con un’accurata ricostruzione di luoghi come Capital Plaza, e anche la folla ha un alto livello di realismo, non essendo generata proceduralmente ma riprodotta tramite attori. Sono stati necessari circa 2 anni e mezzo per registrare le scene racchiuse in circa 3000 pagine di sceneggiatura: basta pensare che Beyond: Two Souls ha richiesto solo 9 mesi per comprendere la differenza di portata del lavoro di Cage, che con il suo team di designer ha messo su un impianto in cui il rapporto tra game e narrative design è strettissimo ed efficace, e dove la scelta dei percorsi risulta ogni volta abbastanza chiara all’interattore, che capirà ben presto come al tasto triangolo corrisponda una risposta fredda, mentre al cerchio corrisponde di solito un maggior coinvolgimento emotivo. Dalle risposte e dalle scelte dipenderà l’evolversi della storia, e quindi della storyline di ogni personaggio. L’engine proprietario sul quale è costruito il gioco, il Buildozer, ha permesso a Quantic Dream di gestire una ramificazione estremamente complessa di una narrazione basata su visual scripting e real time editing (rendendo il gioco completamente WYSIWYG). La flowchart delle scelte sia visibile al giocatore/interattore alla fine di ogni scena (permettendo anche di visionare nelle successive run le scelte prese in precedenza), ma lo scorso mese lo stesso David Cage ha offerto uno sguardo su Twitter di quella che è la struttura delle scene del gioco Quantic Dream:

Detroit: Become Human

We are the Robots

Rilasciato nel maggio 2018, il gioco ha raggiunto a 3 mesi dall’uscita 1.5 milioni di giocatori, il miglior risultato di sempre per la casa transalpina. Detroit: Become Human ha dato sostanza al timore umano che le macchine possano sostituirsi a ognuno di noi, e nel gioco c’è tutto questo: non soltanto dunque un quesito sull’intelligenza artificiale, il suo sviluppo e le sue implicazioni, ma anche il tema del global warming, del rapporto fra uomo e ambiente, e altre tematiche che emergono dai dialoghi ma soprattutto dai vari magazine (Detroit Today, Century, Gossip Weekly, Tech Addict, All Sports, Green Earth) che troveremo sparsi per i vari scenari, contenenti veri e propri articoli atti a darci un quadro completo dello zeitgeist imperante. Fra i temi caldi emerge anche quello del rapporto tra minoranza e discriminazione che abbiamo già citato, e che risulta centrale già dal titolo dell’opera, che richiama chiaramente con lo “Stay Human” coniato da Vittorio Arrigoni e messo ogni volta al termine dei suoi. C’è spessore politico e sociale, ma anche scientifico, con un’indagine non rivoluzionaria ma neanche blanda su problemi etici e gnoseologici come anche sull’evoluzione tecnologica futura, svolta con una certa assennatezza, come ha sottolineato Envisioning in una ricerca corredata di un’interessante infografica interattiva, dove vengono analizzati gli aspetti del gioco legati all’evoluzione scientifica .
Siamo insomma davanti al miglior prodotto di sempre di Quantic Dream, che unisce una narrativa pregevole a un game design ben studiato che non abbandona l’approccio cinematografico dei precedenti lavori di David Cage, impreziosito da un comparto audiovisivo di altissimo livello. I difetti si ravvisano soprattutto nella parte finale, e solo in termini di coesione narrativa, ma non ci sono più le voragini o gli inciampi dei precedenti titoli. Abbiamo davanti un ottimo lavoro di interactive storytelling. E speriamo che la parabola, da adesso, sia solo ascendente.




Speciale E3: Anthem ha una data d’uscita

La conferenza EA continua e continuano gli annunci, adesso è il turno di Anthem, l’attesissimo titolo Sci-Fi di BioWere.
Anthem si presenta con un maestoso trailer gameplay che mostra il vasto mondo di gioco e la modalità co-op. Sono stati presentati 4  diversi tipi di personaggi che avranno delle abilità che ricorda no moltissimo quelle dei guardiani di Destiny.
La data d’uscita è fissata per il 22 febbraio 2019 per PS4, Xbox One e PC.




Ratchet & Clank: 15 anni e non sentirli

Sono trascorse un paio di settimane dalla GDC (Game Developers Conference), quando il team Insomniac, salì sul palco per parlare dei 15 anni di storia, di una delle loro IP più conosciute: Ratchet & Clank. Ma gli interventi dello stesso team di sviluppo, sono stati tutt’altro che celebrativi per quanto riguarda la famosa saga.

Il regista Brian Allgier dice:

«Protagonista del gioco, in principio, sarebbe dovuto essere una ragazza con un bastone, una sorta di mash-up tra Zelda e Tomb Raider, ma quest’idea purtroppo non era ben vista dal team, che avrebbe dovuto lavorare poi sul gioco. A quel punto Ted Price (Presidente di Insomniac) decise di troncare quel concept che era stato intitolato appunto “Ragazza col bastone”. Era il 2001, Insomniac aveva 35 dipendenti che stavano lavorando al progetto e avevano bisogno di una nuova idea vincente. Il capo-ufficiale creativo, Brian Hasting, annotò una frase molto generica sulla lavagna degli appunti “un alieno, che gira tra i pianeti raccogliendo armi e gadget”, il team accolse positivamente da subito la nuova proposta, era un idea semplice ma aveva funzionato.»

Dopo aver cestinato un paio di concept, il team riesce a concretizzare finalmente i primi progetti di Ratchet, soprannominato “Lombax” da Ted Price, e del suo aiutante Clank. Inizialmente la squadra aveva pensato di metterne uno a capo dell’altro ma poi optarono per porli allo stesso livello. L’intenzione sin da subito, fù quella di creare qualcosa che fosse un mix tra il poliziesco Arma Letale e i cartoni animati del sabato mattina.
Durante la stesura del prototipo, il team non riuscì a far sì che la tecnologia PS2 iniziale gestisse correttamente il gioco, per questo motivo quindi lavorò fianco a fianco con Mark Cerny per ottimizzare la tecnologia della console Sony, che una volta migliorata, permise finalmente a Ratchet & Clank di vedere la luce.

«Il primo gioco era innovativo e fatto bene – dice insomniac alla GDC –  Ma era più un gioco di ruolo e le armi sembravano quasi opzionali. I due personaggi Ratchet e Clank non avevano moltà profondità, anche Ratchet stesso risultava essere borioso, sarcastico e non eccessivamente simpatico».

Insomniac, decise di concentrarsi sul contorno, personaggi, armi e humor, a partire dal secondo capitolo, Fuoco a Volontà (2003). Quando successivamente arrivò anche il terzo, Up your arsenal (2004), fu un vero e proprio successo per il franchise. Finalmente Ratchet & Clank aveva una propria personalità ben definita: era un gioco in perfetto equilibrio tra un platform e uno shooter, che raccontava una vera storia d’amicizia, con un contorno di armi fantasiose e gadget intelligenti, arricchito dalla possibilità di esplorare i pianeti. Un gioco pieno di colori vivaci e umorismo.

Nel corso del GDC, Insomniac ha voluto sottolineare solamente dove e perché, il team ha deluso le aspettative dei propri fan. Dal terzo capitolo in poi, lo studio aveva evoluto con successo la serie da un “platform con un carattere da sparatutto”, a uno “sparatutto con un carattere da platform”.
Eppure, nonostante tutto, Insomniac stava iniziando a preoccuparsi sempre di più che i giorni del “personaggio mascotte” stavano per finire. Sentiva che era necessario cambiare qualcosa per mantenere la serie sull’onda del successo, il tutto racchiuso nelle parole di Brian Allgeier:.

«Adattati o muori, ascolta ciò che i giocatori vogliono, osserva le tendenze e amplifica ciò che contraddistingue il tuo gioco».

Lo studio sentiva di aver raggiunto il vero successo con Up Your Arsenal, ma la filosofia “adattati o muori” applicata da quel momento, avrebbe inevitabilmente portato a un “crollo”. Per evitare che il franchise stancasse i fan infatti, il team di Insomniac, ispirato dalla serie Halo, produsse, nel 2005 sempre per PS2, Ratchet: Deadlocked (conosciuto anche come Gladiator). Era stato rimosso Clank dal nome («non è stato bello», ammette lo studio, che era pesantemente combattuto) e il gioco non includeva il popolare Qwark. Insomma, il titolo non aveva più tutte quelle caratteristiche che avevano reso un successo Ratchet & Clank e il risultato fu infatti, che ai fan non piacque, tanto che sia Allgeier che TJ Fixman (lo scrittore della serie), ammisero di aver commesso un grande errore allontanandosi da quella che era l’idea originale della serie, nello sviluppo di questa nuova veste di gioco non proprio azzeccata.

Insomniac, a quel punto, sapeva che in futuro avrebbe dovuto attenersi il più possibile al DNA del gioco originale, cosa che fece quando nel 2007, sviluppò il quinto capitolo della serie: Ratchet & Clank: Armi di Distruzione, sui sistemi PS3. Fu una sfida ardua per il team, quella di effettuare un restyling completo passando da una generazione a un’altra, ma alla fine riuscì nel proprio intento, creando nuovamente quello che era per i fan il vero Ratchet & Clank di un tempo, ma questa volta con una veste del tutto rinnovata. Praticamente un successo, o quasi, poiché a molti fan non piacque il finale, che vide Clank rapito dal misterioso Zoni. Così il team decise di dare qualcosa ai giocatori per rimediare, sviluppando un anno dopo un breve DLC, chiamato Alla ricerca del tesoro, che mise una pezza al buco creato dalla precedente storia, introducendo anche diverse novità al gioco, come i dialoghi, i puzzle-game e altro.

Proprio perché non era un vero e proprio capitolo di Ratchet & Clank, Alla Ricerca del Tesoro, permise al team di osare sotto alcuni punti di vista tecnici, ma anche di dare un filo logico a quello che poi sarebbe stato il successivo, e ultimo capitolo, della serie, che arrivò poi nel 2009 con A Spasso nel Tempo: un successo indiscusso sotto ogni punto di vista che vide, nel finale, anche l’annientamento del super-cattivo Nefarious in una delle basi spaziali.

L’epilogo della serie andò talmente bene che Sony pretese da Insomniac che si rimettesse a lavoro su un ulteriore capitolo della serie. Inizialmente cercarono di evitare questa forzatura narrativa che aveva visto il suo capolinea nell’ultimo gioco, ma alla fine i fan e Sony ebbero la meglio, convincendo Insomniac a rimettersi in carreggiata e pubblicare nel 2011, Ratchet & Clank: Tutti per Uno, che costrinse anche TJ Fixman a modificare il finale della serie trovando un modo per non far sfuggire Nefarious al suo destino che sembrava essere stato già designato, e che, per volere di Sony, doveva essere presente nel nuovo titolo. Alla fine, Tutti per Uno risultò essere uno dei migliori spin-off della serie, ma purtroppo non ebbe il successo sperato. Successo che arrivò invece due anni dopo, nel 2013, con Nexus, ultimo capitolo della serie, una storia breve ma ben sviluppata.

Da quel momento Insomniac e Sony avevano deciso di comune accordo di mettere da parte il franchise.

Almeno finché, nel 2016, non venne nuovamente tirato fuori da Kevin Munroe e Jericca Cleland che diressero per il grande schermo, Ratchet & Clank: film d’animazione basato sul gioco, ma che si allontanò troppo dalla mitologia originale dell’IP per l’adattamento cinematografico.
Allgeier decise così di sfruttare la corrente e creare al contempo anche un nuovo titolo, per PS4 questa volta: «Un gioco basato sul film basato sul gioco», dice scherzando. Proprio per aggirare il problema creatosi con il filo narrativo della pellicola cinematografica, TJ Fixman decise di affidare la narrazione a un personaggio improbabile e poco raccomandabile,  il capitano Qwark, giustificando così alcune eventuali incongruenze narrative.
Il remake di Ratchet & Clank fù un vero e proprio successo, con numeri che non si vedevano dai tempi dei vecchi titoli su PS2.

Allgeier conclude:

«Dove la serie andrà a parare in futuro non è certo, ma una cosa lo è, “adattarsi o morire” è una opzione, ma allontanarsi da quello che è il DNA del gioco, è un errore. Abbiamo imparato tutto ciò che potevamo sulla chiave del successo di Ratchet & Clank, lo abbiamo migliorato e aggiornato. Adesso ci spingeremo verso l’ignoto!».



Ancient Frontier

Ancient Frontier è uno sci-fi ruolistico, uno strategico a turni con caratteristiche GDR sviluppato da Fair Weather Studios, già creatori dello sfortunato Bladestar. Sin dal primo impatto, troveremo un menù principale ben strutturato, comprensivo anche della “lore” che ci introdurrà al mondo di gioco.
L’umanità era sull’orlo dell’estinzione, finché non venne creata la compagnia dei Tecnocratici. Quest’ultimi riuscirono a ristabilire l’equilibrio con scoperte in ambito tecnologico e con la colonizzazione di Marte, che portò alla rinascita dell’umanità. La compagnia riuscì, inoltre, a scoprire i segreti dietro i viaggi interstellari, che portarono ricchezza e prosperità al genere umano. Questo portò alla creazione di ordini quali la Human Federation Star Force, la qualeprese il comando di Marte e che iniziò la costruzione di innumerevoli navi.
Per la costruzione di quest’ultime sono necessari a loro volta materiali quali la proto energy e l’hydrium, che si trovano solamente nello spazio profondo. Per svolgere la ricerca di questi materiali venne creato l’ordine dei Corporate Mining Station.

Nella modalità storia, che presenta più slot per i salvataggi, ci ritroveremo a dover scegliere due differenti campagne di gioco. Nella prima, chiamata Alliance Campaign, vestiremo i panni di uomini alla ricerca delle ricchezze dello spazio.
Nella seconda, chiamata Federation Campaign, vestiremo invece i panni del comandante della flotta protettrice di Marte e, in entrambe le campagne, dovremo difenderci dai pirati spaziali che cercheranno di derubarci e ucciderci.
All’interno del single player, sono presenti tre difficoltà strutturate in relazione del livello del giocatore.

Avremo 2 tipi di missioni: le principali (che trattano la lore) e le secondarie. Le missioni secondarie hanno tre tipologie di avventure. Nel primo tipo ci ritroveremo a dover sconfiggere i pirati, nel secondo dovremo raccogliere le varie risorse sparse nella mappa e nell’ultimo il nostro obiettivo sarà quello di raggiungere una zona prima di un tot di turni.
La storia viene raccontata tramite dei dialoghi disposti su un “menù a tendina” prima di ogni missione. La trama non è molto densa ma, fortunatamente, in videogame come Ancient Frontier altri fattori possono egregiamente compensare. Durante il nostro gameplay, la mappa di gioco sarà rappresentata da un’enorme “scacchiera”, la mappa è divisa blocco per blocco da esagoni che delimitano le caselle dove poter spostare le nostre pedine. Una caratteristica del titolo che ci ha fatto storcere il naso è l’impossibilità di poter scegliere, durante i turni, l’ordine di attacco delle proprie unità. Questa caratteristica allontana il titolo dalla sua componente strategica. All’interno del campo da gioco, saranno presenti degli asteroidi che possono sia ripararci dal fuoco nemico, sia ostacolarci durante i nostri movimenti.

Uno dei grandi vantaggi di questo titolo è la modesta varietà di personalizzazione. Infatti, prima d’ogni missione, potremo scegliere la composizione della nostra flotta dotandola, quindi, di navi di ricerca, d’assalto, di supporto ecc. Il titolo presenta una sezione di gestione per le risorse, navi, ricerche e missioni. Le caratteristiche GDR si vedono  nelle ricerche, che portano all’aumento di determinate peculiarità. Ogni classe di nave ha il suo albero delle abilità nel quale si ha la possibilità di potenziare determinate caratteristiche. Non sarà istantaneo familiarizzare con i comandi di gioco, infatti, bisognerà sforzarsi un po’ a capire la struttura del gameplay, anche perché il tutorial non è estremamente dettagliato ed è sviluppato in sotto-forma d’immagini e dialoghi.
La grafica del titolo risulta pulita e con una buona resa complessiva. I modelli della navicelle sono ben strutturati e abbastanza originali. Mancano una localizzazione in lingua italiana. Infine, il comparto sonoro non è nulla di speciale ma, riesce a rendere le svariate ore di gameplay piacevoli.

In conclusione, Ancient Frontier rappresenta un valido passatempo e un buon titolo per gli appassionati del genere strategico a turni. Il titolo è disponibile su Steam con un rapporto qualità/prezzo ottimo.




Quel che sappiamo di Phoenix Point

Phoenix Point,  è il nuovo gioco sviluppato dal creatore di X-COM, Julian Gollop. È stato mostrato in un nuovo filmato proveniente dall’evento PC Gamer Weekender, con nuove scene di gameplay dell’erede “spirituale” di X-COM.

 

La Genesi

Phoenix Point racconta della scoperta di un virus con soltanto l’1% dei geni conosciuti, denominato Pandoravirus. Nel 2022 qualcosa va storto: gli oceani, infatti, iniziano a trasformarsi in una massa aliena pulsante e i mutanti invadono la terra sotto forma di una nebbia mortale. Il genere umano viene letteralmente decimato e trova riparo in vari rifugi considerati sicuri sparsi per tutto il mondo. Il gioco è ambientato nel 2057, con i sopravvissuti ormai divisi in fazioni dalle ideologie spesso contrastanti, che lottano per il controllo delle poche risorse disponibili. Qui entra in azione il Phoenix Project, organizzazione mondiale creata per la difesa del pianeta. Il compito di noi giocatori sarà quello di controllarne una cellula con l’obiettivo di riunire tutti gli scienziati, ingegneri e i soldati migliori al mondo. Ma cosa ha causato tutto questo? Il nostro compito sarà quello di scoprirlo e tentare di salvare quel che resta del genere umano dalle creature mutate dal Pandoravirus, dalle proprietà tanto incredibili quanto pericolose. Il Pandoravirus può fondere il DNA di più specie e clonarle con una velocità disarmante. A livello di gameplay, tutto si concentra sulle creature, in grado di evolversi attraverso un sistema procedurale e, in base alle nostre scelte, verranno a crearsi nuove specie, assumendo dunque caratteristiche sempre diverse e sorprendenti a seconda dei DNA fusi. Dunque avremo un’altissima varietà di nemici, con sfide sempre diverse e dunque con la necessità di sapersi adattare al proprio nemico. Per rendere tutto chiaro, per esempio, due creature potranno essere simili ma allo stesso tempo avranno caratteristiche molto diverse a seconda delle varie fusioni.

 

Le Fazioni

Come abbiamo precedentemente specificato, faremo parte del “Phoenix Project” che dovrà studiare il virus “Pandora” che ha contaminato l’umanità.
All’interno del gioco ci sono diverse fazioni:

  • La setta religiosa “I discepoli di Anu” che appoggiano le mutazioni che stanno coinvolgendo le persone.
  • La fazione militare “New Jericho” che è contro ogni tipo di contaminazione del genere umano e punta tutto sul settore militare.
  • La fazione di ecologisti radicali “Synedrion” che hanno trovato un modo di coesistere con la nuova minaccia aliena.

 

L’ambiente

«Nella scelta della trama siamo stati influenzati molto dall’ideologia “Lovcraftiana” e volevamo ricrearla anche nel resto del gioco per trasmettere il costante terrore di quella forza aliena sconosciuta che non riusciamo a comprendere, trasmette orrore, perché il nemico si sta impadronendo della tua mente e del tuo corpo. Vi consiglio di usare tonnellate di granate e di non fare affidamento sul riparo che può offrire un edificio, perché potrebbe crollarvi sopra la testa. Dopo aver giocato io stesso la primissima build, posso affermare di aver visto tantissimo potenziale all’interno del gioco, che vi farà impazzire.»

Questa le parole di Julian Gollop.

Il gioco uscirà in un primo momento ad Aprile su Steam, disponibile solo ai sostenitori del progetto. L’uscita ufficiale di Phoenix Point, strategico a turni sci-fi, è invece prevista entro l’ultimo trimestre del 2018. Nell’attesa vi mostriamo un gameplay di 17 minuti:




Detroit: Become Human

David Cage sta per tornare. Non si conosce ancora la data di rilascio del nuovo lavoro di Quantic Dream ma a Parigi abbiamo avuto di avere un periodo orientativo: primavera 2018. La versione demo di Detroit: Become Human gira ad ogni modo per varie fiere del settore, e farsi scappare l’occasione di giocarla sarebbe stato davvero da incoscienti.

La demo mette a disposizione una singola missione, Hostage, della durata di poco più di 10 minuti. Il personaggio di cui abbiamo il controllo è Connor (interpretato da Jesse Williams), un androide specializzato in mediazioni inviato in un appartamento dove ha avuto luogo il massacro di una famiglia e quel che rimane da fare è salvare una ragazzina, unico membro scampato al pluriomicidio e adesso tenuto in ostaggio dall’assassino. Capiamo ben presto che il probabile motivo per cui Connor è stato inviato è molto semplice: chi tiene in ostaggio la ragazzina è un altro androide.
Fin dall’ingresso nella casa sarà possibile esplorare gli ambienti e familiarizzare con i controlli di base, soprattutto su ciò che riguarda l’acquisizione di informazioni semplici che potranno tornare utili nella trattativa.
All’interno dell’appartamento capiamo un’altra cosa: l’atteggiamento della polizia nei confronti degli androidi non è benevolo, né tantomeno di collaborazione e fiducia. Toccherà a Connor ricostruire l’intera scena del delitto con le sue sole capacità, iniziando però col parlare col capo delle operazioni. I dialoghi si basano su un sistema che prevede quattro scelte multiple (fra domande e risposte) fra le quali scegliere in un tempo limitato.

Il resto delle informazioni dovremo raccoglierle nel resto dell’appartamento, analizzando gli oggetti ma soprattutto soffermandoci sulle vittime: qui la visuale passa dalla terza all prima persona e torna qualche meccanismo classico di casa Quantic Dream: soffermandoci sulle ferite presenti sui corpi e, muovendo gli stick analogici, sarà possibile “unire i punti” e ricostruire l’intera dinamica di ogni omicidio, acquisendo nel frattempo altre preziose informazioni. Maggiori saranno i dati acquisiti, più alta sarà la probabilità di successo nella trattativa, come ci segnalerà di volta in volta un indicatore sullo schermo dopo ogni interazione.
Del countdown non avremo contezza, verremo solo avvisati che non c’è più tempo e saremo costretti a iniziare le trattative: essere tempestivi nelle indagini sarà importantissimo.
Il rapitore si trova al bordo del terrazzo, tiene in braccio la ragazzina puntandole contro una pistola. Starà a noi scegliere la migliore strategie tramite le risposte che selezioneremo, le cui combinazioni porteranno a esiti diversi: potremo puntare sull’empatia fra androidi, mostrarci cinici e razionali o addirittura minacciosi. In base alle informazioni acquisite, avremo a disposizione alcune frasi che potrebbero rivelarsi carte importanti da giocare e che porteranno a diversi finali. Tornano in questa fase anche i classici quick-time event a cui la casa transalpina ci ha abituati nei precedenti titoli, dunque anche qui bisognerà tenersi pronti a rispondere ai comandi.

Quel che resta di questa demo è un insieme di impressioni che potrebbero dar adito a speculazioni di vario genere. Quel che pare indiscutibile è il comparto tecnico dell’opera: se nei vari video rilasciati negli ultimi due anni abbiamo potuto saggiare un aspetto grafico di riguardo, dove le animazioni facciali si fanno sempre più accurate, gli scenari più ricchi di dettagli, e dove la tendenza al fotorealismo si fa davvero concreta, rendendo i personaggi mimetici rispetto agli attori che li impersonano, adesso abbiamo anche potuto testare il sistema di controlli che, fin da questa demo, pare rispondere benissimo, garantendo fluidità al titolo nel direzionamento del personaggio fra i vari ambienti, nella fase di esame di oggetti e situazioni e nella ricostruzione delle dinamiche partendo dai singoli dati.
L’engine proprietario di Quantic Dream sembra insomma lavorare bene, delineando una netta crescita qualitativa di titolo in titolo, qui impreziosita da un art-style che riprende rispettosamente i canoni della cinematografia sci-fi, trasportandoci in una megalopoli futuristica e caotica che richiama i grandi classici del genere.
Quel che ovviamente resta ancora da capire è cosa ne verrà fuori: la società di David Cage mostra ancora il suo forte interesse per la narrazione e per lo sviluppo di storie in cui le scelte del giocatore si rivelino il core dell’esperienza videoludica. Plot, dialoghi e azione sembrano finora ben bilanciati, anche tenendo presente il video mostrato all’E3, che mostra un altro pezzo di storia.
Quantic Dream si confronta questa volta con una serie di cliché di genere fantascientifico, che apre le porte a varie domande: quale futuro per l’intelligenza artificiale? Se lo sviluppo tecnologico porterà alla creazione di esseri senzienti, dotati di quella che potremmo chiamare coscienza, come gli umani si rapporteranno agli androidi? E, se questi saranno una realtà, gli riconosceremo un’anima?
Temi antichi, a cui hanno dato risposte decani della fantascienza letteraria come Philip K. Dick, Isaac Asimov e John W. Campbell, per citarne alcuni, ma non solo loro, diranno gli amanti di Ghost in The Shell e Terminator (e qui fermiamo immediatamente il flusso citazionistico, perché la lista sarebbe lunghissima). Ma sono argomenti al contempo attualissimi e ancora affrontabili senza cadere nel banale, come ci dimostra l’ultimo Blade Runner 2049 (non perché speculi in maniera approfondita su questa tematica, ma perché il risultato finale sul piano narrativo e visivo è di riguardo).

David Cage si ritrova dunque tra le mani una patata bollente, e dovrà maneggiarla con cura: il fatto che siano temi enormemente visti e sentiti non significa che Detroit: Become Human sia condannato a perpetuare cliché all’interno della storia cadendo nella banalità di genere; al contempo, sarà importante calibrare le scelte narrative, ricordando che un gioco per molti versi straordinario come Farhenheit, che rimane a oggi un eccellente prodotto sul piano della regia e della giocabilità, inciampa inesorabilmente in fase di scrittura, prendendo una piega quasi grottesca nell’ultima parte a causa di scelte posticce, probabilmente operate proprio per rifuggire la banalità, che si sono rivelate un boomerang.
Ad ogni modo, ogni lavoro di Quantic Dream merita certamente attenzione, per un approccio alle storie mai superficiale e in grado di fornire ampia capacità di scelta al giocatore, elementi che, uniti a un cast che ogni volta coinvolge attori di buon rango, ci inducono ad attendere con gran curiosità un titolo che, a un primo assaggio, ha tutto il potenziale per diventare un’opera da ricordare.




Star Citizen in mano alle banche

Lo sviluppatore di Star Citizen non sembra navigare in ottime acque: Cloud Imperium Games, e con esso la sussidiaria Foundry 42, nonostante abbiano raccolto oltre 150 milioni di dollari su Kickstarter per finanziare il proprio progetto, partendo da un obiettivo di 6 milioni di dollari, hanno richiesto un ulteriore prestito dalla banca Coutts & co., offrendo in garanzia tutti i propri principali asset, incluso lo stesso Star Citizen e i diritti di distribuzione.

La banca ha dunque di fatto in mano il gioco allo stato attuale, concedendo una licenza per continuare il lavoro di sviluppo:

24. LICENCE

24.1 The Chargee, (bank), hereby grants to the Chargor, (CIG), an exclusive license, revocable only in accordnance with Clause 24.2, to develop, produce, exploit and otherwise deal with the Game.

24.2 The Chargee, (bank), may terminate the license granted pursuant to Clause 24.1 above upon the happening of an Event of Default which remains unremedied on the date failing 60 days after the the Chargee has given written notice to the Chargor of such Event of Default.

Risulta chiaro come il mancato rientro della posizione comporterebbe per lo sviluppatore la perdita di ogni diritto sul titolo, a totale danno dei backer che lo hanno supportato in fase di crowdfunding.
I dati sono ricavati dal sito ufficiale del governo britannico, tra i quali possiamo leggere anche il documento ufficiale di sottoscrizione del mutuo da parte di Cloud Imperium Games e della sussidiaria Foundry 42: non sono pubblici dettagli quali l’ammontare del prestito né le tempistiche e modalità di rientro ma, già dai dati presenti nella registrazione del prestito del 13 giugno 2017,  è ricavabile come lo stato finanziario dell’azienda sviluppatrice non sia stato giudicato ottimale dalla banca erogante. Restando speranzosi riguardo il destino di Star Citizen, ci si chiede come Cloud Imperium Games abbia gestito i numerosi fondi ricavati dal folto numero di utenti che ha creduto nel progetto.




Beyond-Good-and-Evil-2

Beyond Good and Evil 2: ecco cosa ci aspetta

Dopo quasi un decennio di attesa finalmente Beyond Good & Evil 2 è stato confermato. Michel Ancel rilasciando un’intervista a Kotaku aveva dichiarato che il gioco era ormai in fase di sviluppo da anni, e che proprio in quel momento si trovava a giocare la “Day Zero version” (una prima versione di debug del gioco solo disponibile agli sviluppatori).

Beyond-Good-and-Evil-2_2Enorme l’hype generato dal trailer rilasciato nel 2008 ma, per colpa di numerosi problemi interni al team di sviluppo, il gioco svanì nel nulla. A differenza della vecchia produzione “cestinata” che sarebbe stata un sequel al primo capitolo il gioco mostrato da Ancel e Gabrielle Shrager (narrative designer) durante la conferenza Ubisoft svoltasi all’E3 di Los Angeles sarebbe un prequel.
Durante una dimostrazione a “porte chiuse” del gioco, Ancel avrebbe detto “non fate attenzione alla grafica”, in quanto molti degli asset della versione mostrata sarebbero momentanei e con molta probabilità saranno cambiati.
La dimostrazione proseguì dimostrando come in Beyond Good and Evil 2 lo spazio venga simulato e come i cicli del giorno e della notte non siano solamente un cambio di colore dello cielo o del sole come avviene oggi in moltissimi giochi ma una simulazione accurata del movimento delle stelle.

“Quando vedi un tramonto in Beyond Good and Evil 2, quel tramonto è reale”

Beyond-Good-and-Evil-2_3Ancel quindi ingrandì la visuale zoomando all’indietro facendo notare come senza caricamenti riuscisse a muoversi dal livello del terreno fino allo spazio più profondo. Continuò spiegando che chi adora la fantascienza ama il senso di libertà e di esplorazione e che questi elementi sarebbero castrati in presenza di frustanti attese di caricamento.
Questo solo un brevissimo esempio dell’ambizione degli sviluppatori che stanno lavorando a Beyond Good and Evil 2Ancel spera di riuscire a rilasciare una versione beta del gioco disponibile ai giocatori entro la fine dell’anno.




Alienation

La Housemarque produce da anni titoli twin-stick arcade molto curati, e giochi stimolanti come Dead Nation e Resogun hanno avuto molto successo, ed è per questo che gli appassionati del genere non potevano che attendere con trepidazione la release di Alienation.
Alienation non è solo un eccellente shooter arcade, ma è un titolo nel quale gli elementi rpg  sono gestiti in pieno stile Housemarque, ovvero in maniera eccelsa. Ora vi illustrerò perché, a mio parere, questo gioco dovrebbe essere considerato un must-have.

I cugini di X-com

Vorrei iniziare dal suo più grande difetto, che è la totale assenza di originalità. La Terra è attaccata dagli alieni, e voi fate parte di un’unità speciale che deve fare il lavoro sporco nel corso di una serie di missioni per respingere l’assedio extraterrestre. Abbiamo troppo spesso visto in altri giochi come X-COM questo tipo di storia ma, a differenza di quest’ultimo, qui la trama viene raccontata tramite audiolog e schermate di caricamento, tenendo sempre a una certa distanza il giocatore in termini di coinvolgimento. Alienation si gioca esclusivamente per il gusto della frenesia, ed era ovvio che la Housemarque concentrasse tutto sull’azione e gameplay.
In Dead Nation il meccanismo di gioco portava a un rilascio graduale di nuove armi, ma Alienation si basa più su un sistema rpg vecchio stampo; durante le missioni si può giocare da soli o in co-op, si ottiene più o meno bottino per sviluppare le proprie abilità attive e passive. Per la prima missione è possibile scegliere tra tre classi, ognuna caratterizzata dal proprio stile e albero d’abilità: lo specialista biologico, il Sabotatore e il Tank. i diversi stili di gioco forniscono più varietà nel gameplay, cosa che dà la possibilità di giocare la partita tre volte godendo ogni volta di un’esperienza diversa.

RPG: old, but gold

Lo Specialista Biologico possiede tutti i tipi di tecniche per aiutarlo nella lotta; l’abilità più importante è che questi può ricostituire la salute di tutta la squadra con la semplice pressione di un pulsante, e può anche avvelenare gli alieni o distruggerli con uno sciame di nanomacchine. Il Sabotatore ha una splendida abilità che gli permette di creare un attacco aereo devastante quando la squadra è circondata da nemici. Ultima, ma non meno importante, classe d’eccellenza è il Tank, utilissima per andare in prima linea. La sua abilità principale consiste nel creare uno scudo per tutta la squadra. Tutte le abilità hanno la possibilità di svilupparsi grazie ai punti che si ottengono “livellando”.

Le abilità passive sono uguali per tutte le classi, ma sta a voi trovare maggiore efficienza nella distribuzione per ognuna. Il sistema offre la scelta di concentrarsi su un’abilità o operare un’equa spartizione tra le attive e le passive, dando la possibilità di rendere il personaggio più eclettico. Si tratta di un sistema RPG raffinato con un albero delle abilità non troppo profondo, ma che funziona bene.
Questo aspetto si riflette anche nelle armi: giocando le varie missioni, si guadagnano nuove armi e, più alto è il livello di difficoltà, migliori sono le ricompense. L’armamentario del gioco è piuttosto esteso, in quanto svaria tra SMG, lanciafiamme, vari fucili, lanciamissili e altro ancora. Queste armi possono essere equipaggiate con degli aggiornamenti alle statistiche che si trovano nel mondo di gioco. Ciò incentiva al proseguimento della storia e all’esplorazione dei livelli.

Procedurale che non stanca

Quando, più avanti nel gioco, si vorrà scegliere un livello di difficoltà più elevato, ci si potrà accorgere quanto le prime 15-20 ore di gioco possano essere servite come tutorial. I livelli già incontrati non saranno mai gli stessi poiché la proceduralità creerà sempre diverse sotto missioni, alieni o ostacoli differenti: ciò porta i giocatori a dover fare molta pratica, non avendo la possibilità di attingere allo schema del livello “a memoria”. Esistono inoltre, tra le possibile missioni secondarie, la possibilità di affrontare mini boss, strutturati perfettamente come i mostri elite di Diablo 3, ognuno dei quali avrà degli status atti a fortificarli, ogni volta generati casualmente. Il contenuto metagame pare più sostanzioso rispetto al resto del gioco, fattore che regala una discreta longevità.

Frenesia senza confusione

Molto spesso si ci troverà a usare il multiplayer co-op (il matchmaking funziona perfettamente fortunatamente) poiché si ci renderà conto che il numero di nemici sorpassa nettamente la vostra potenza di fuoco. In Dead Nation accadeva a volte che l’azione risultasse un po’ caotica; Alienation consente numerose personalizzazioni sul personaggio, dal cambio di colore dell’armature o del laser, consentendo sempre di capire quale sia la posizione anche nei momenti di mischia. Riassumendo, il gameplay, le possibilità e le varietà supplementari nelle combinazioni sono sublimi, così come l’esperienza di gioco. Lo stesso si può dire per la qualità audio-video.

Niente è così soddisfacente nel gioco come eseguire un attacco aereo di successo, assistendo successivamente allo smembramento ben realizzato del gruppo di alieni appena massacrati. Ottimi particellari dipingono lo schermo regalando molta soddisfazione ai vostri occhi. Poi, naturalmente, c’è il suono, che si rende spesso protagonista del gioco: le armi hanno un suono forte e chiaro, come dovrebbe essere in tutti i titoli del genere. Non mancano neanche i colpi di classe, sul piano sonoro, come nel caso della ricarica della propria arma, della quale si può sentire il rumore attraverso l’altoparlante del proprio joypad. Gli effetti in termini di grafica e audio sono ben realizzati, senza tralasciare la colonna sonora, che si abbina perfettamente l’avventura.

Conclusioni

La Housemarque con Alienation ha ottenuto un ottimo risultato in termini di gioco. Un titolo che fornisce ore di divertimento, di cui si apprezza ogni secondo, soprattutto la dinamica di gameplay mentre si cercano ovunque orde di alieni e nuovi bottini per sviluppare il nostro personaggio. L’azione e la giocabilità sono “ricercate”, rendendo il tutto una gioia per l’esperienza. Aggiungete il fatto che difficilmente si trovano bug e difetti, lasciando l’esperienza sempre godibile sia in modalità solista che in co-op.
Concludendo, possiamo definire Alienation un must nel genere sparatutto arcade twin-stick, un titolo che mi sentirei di consigliare a tutti gli appassionati del genere.