L’evoluzione dei controller Pt.2 – gli anni 2000

I controller, dagli arcade alle console casalinghe, hanno fatto tanta strada, passando da controlli digitali a controlli analogici in grado di permettere movimenti a 360°. Quali altre sorprese attendevano i giocatori al volgere del millennio? Controller di precisione assoluta, con un design futuristico e funzioni all’avanguardia? Vediamolo insieme in questo nuovo articolo a continuazione del primo che vi invitiamo a leggere prima di questo.

La generazione 128-bit – la generazione X

Sega, dopo il fallimento del Saturn in Nord-America ed Europa, era decisa a lanciare una nuova macchina da gioco che spezzasse totalmente col passato e per farlo aveva bisogno anche di un controller che offrisse ai giocatori un nuovo modo di giocare i titoli SEGA. Il bianco controller del Dreamcast, che si rifaceva al 3D Pad del Saturn, non sembrava affatto un prodotto SEGA: la disposizione a sei tasti frontali fu abbandonata in favore del layout a rombo, dunque con quattro colorati tasti frontali come PlayStation e Super Nintendo, ma con i classici trigger analogici del precedente pad. Questo controller è in definitiva molto comodo, più piccolo rispetto al suo antenato, anche se non risulta il massimo per lunghe sessioni di gioco: al di là della strana scelta di far passare il cavo dalla parte bassa del controller e non da sopra, fu montata una levetta analogica convessa che, in assenza di una gommina come nel Dual Shock, scivola facilmente dalla pressione del pollice del giocatore, soprattutto quando la mano comincia a sudare dopo lunghe sessioni di gioco; in aggiunta a tutto questo, qualora ci serva, il controller del Dreamcast monta una croce direzionale rialzata, realizzata con plastica durissima e stranamente “iper-spigolosa”, un calvario per chi vuole giocare con gli eccellenti picchiaduro ospitati nell’ultima console SEGA. Tuttavia il nuovo controller per Dreamcast presentava anche due slot, quello frontale indicato per inserire la VMU, ovvero una piccola memory card dotata di un piccolo schermo a cristalli liquidi; non tutti i giochi sfruttarono questa caratteristica (molti giochi mostravano semplicemente il logo del gioco in esecuzione) ma altri invece, come Skies of Arcadia e Sonic Adventure 2, riuscirono a creare una sorta di interazione col gameplay in corso. Nell’altro slot i giocatori avrebbero potuto inserire  il Rumble Pack, più indicato visto che, nonostante possa accogliere una seconda VMU, non è possibile vedere il secondo schermo. Nonostante tutto, parte dell’abbandono dello sviluppo su Dreamcast è dovuto in parte anche al controller: che possa piacere o meno, la verità è che il controller presenta soltanto sei tasti quando PlayStation 2 e Xbox ne presentavano otto e dunque, ammesso che fosse possibile fare dei porting dedicati per Dreamcast, era impossibile per la console accogliere dei giochi che sfruttassero più comandi di quelli previsti. Il controller per Dreamcast non è assolutamente pessimo ma sicuramente SEGA avrebbe potuto fare di meglio.

Cos’è? È un meteorite? Un aquila? Un U.F.O.? No! È il cosiddetto “Duke“, il controller originale della prima Xbox! Questo titanico controller, all’apparenza, sembra presentare un layout a rombo come quello PlayStation o Dreamcast (vista anche la vicinanza fra SEGA e Microsoft in quel preciso periodo) ma in realtà, presenta invece il layout a sei tasti simili ai controller di Mega Drive e Saturn ma disposti in verticale! Non tutti capirono questo sistema e il tutto risultava abbastanza scomodo e poco risoluto. Il controller fu nominato “errore dell’anno 2001” da Game Informer,  ma Microsoft aveva un asso nella manica: il “Duke” fu messo in bundle con la console in tutto il mondo con l’eccezione del Giappone. Per quello specifico mercato Microsoft disegnò un controller che potesse meglio accomodare le più piccole mani dei giocatori giapponesi e così, su richiesta dei fan, il “Duke” fu presto sostituito dal migliore controller “S“. Con questo controller, il cui nome in codice era Akebono (fu il primo lottatore di sumo non giapponese a raggiungere il rank di Yokozuna), i giocatori ebbero in mano un controller veramente di qualità anche se non poteva essere considerato realmente uno dei migliori: fu scelto un più semplice layout a rombo preciso, come quello del DualShock, ma i tasti “bianco” e “nero” finirono in basso a destra dal set principale (i tasti colorati), rendendo il tutto poco comodo, specialmente quando quei tasti servissero immediatamente. I giocatori Xbox dovevano ancora attendere una generazione affinché ricevessero uno dei migliori controller mai realizzati. Il “Duke” però, fra amore e odio, lasciò comunque una qualche traccia nel cuore dei giocatori, tanto che l’anno scorso Hyperkin rilasciò una riproduzione ufficiale di questo strano controller per PC e Xbox One!

In questo rinascimento dei controller anche Nintendo decise di sperimentare con il joypad da lanciare con la successiva console. Il controller per il GameCube è all’apparenza molto strano ma una volta fatto il callo con le prime sessioni di gioco ve ne innamorerete! Il controller si accomoda perfettamente alla forma della mano, offrendo una saldissima presa, ma sarà l’anomala disposizione dei tasti la vera protagonista: al centro troveremo un bel tastone “A”, mentre alla destra, alla sinistra e al di sopra di questo tasto principale, ci saranno i tasti, rispettivamente, “B”, “X” e “Y”, tutti con una forma diversa. Questa scelta fu presa per permettere al pollice, impegnato principalmente col tasto “A”, di raggiungere tutti i tasti attorno, ma principalmente, secondo Shigeru Miyamoto, per permettere una migliore memorizzazione dei tasti del pad. Insieme a questi tre tasti ne troviamo tasti dorsali e una levetta “C” (in sostituzione dei tasti “C” del Nintendo 64) per un totale di sette tasti. Anche questo controller, come quello per Dreamcast, soffriva per un tasto in meno ma a differenza della sfortunata console SEGA, tramite alcuni stratagemmi, riuscirono ad aggiudicarsi dei buoni e gettonati porting dell’epoca anche con quello strano controller.
Più in là Nintendo produsse per GameCube il Wavebird, il primo controller wireless prodotto da un first party dai tempi di Atari. Il controller, che funzionava con le frequenze radio, mancava della funzione rumble ma risolveva in prima persona il problema dei cavi per terra, avviando così il trend, nella generazione successiva, di includere un controller wireless incluso con la console.
Un po’ come il DualShock, questo controller non ne ha mai voluto sapere di morire o passare di moda, tanto è vero che a tutt’oggi è considerato la quintessenza per giocare a qualsiasi gioco della serie Super Smash Bros.; a testimonianza di ciò esistono le “re-release” di questo particolare controller, nonché il Pro Controller PowerA (ufficialmente licenziato) per Nintendo Switch che aggiunge i tasti “home“, “” e “+” e un dorsale sul lato sinistro del controller (ovvero l’ottavo tasto mancante nell’originale).

“Se qualcosa funziona, non aggiustarla”: come anticipato nella prima parte, fu questa invece la filosofia di Sony per questa generazione. Il DualShock 2 rimase quasi lo stesso, implementando principalmente i tasti analogici per tutti i tasti frontali e dorsali, offrendo ancora più precisione del già precisissimo DualShock. PlayStation 2 è la console più venduta di tutti i tempi e un controller così funzionale è a testimonianza della qualità di questa superba macchina da gioco.

Eccellenza e motion control

Prima di introdurre il trend dei motion control, che molto caratterizzò questa generazione, vorremo prima ammirare il fantastico controller per Xbox 360. Questa volta Microsoft si superò consegnando una versione rivisitata del controller “S“, con una presa migliorata, un layout a diamante, permettendo al pollice di raggiungere i tasti con più facilità, quattro tasti dorsali come il DualShock, eliminando i tasti “bianco” e “nero“, e un bel “tastone” home che permetteva anche di avviare la console come un telecomando. La ciliegina sulla torta fu rappresentata dal jack per l’auricolare in bundle con la console in modo da connettere i giocatori online via chat vocale; una feature che diventerà obbligatoria dopo questa generazione. Questo controller diventò in poco tempo anche il controller non ufficiale della scena PC proprio per la sua incredibile versatilità e maneggevolezza e ancora oggi, per chi lo possiede sente il bisogno di acquistare la nuova versione per Xbox One, viene ancora utilizzato da moltissimi giocatori per PC di tutto il mondo. I primi controller in bundle con la console avevano la tendenza, dopo un po’ di usi, al drifting, ovvero un input fasullo dovuto ad alcuni residui di polvere del componente della levetta;  come la non compatibilità con gli HD-DVD e il “red ring of death“, il drifting fu il risultato della scelta di lanciare la console in fretta e furia ma fortunatamente tutti i problemi relativi ai primi lotti di console furono piano piano debellati, dunque anche i controller successivi al lancio, nonché quelli in bundle con i modelli “slim” e “S“, riscontrarono meno problemi di drifting.

Tuttavia, durante questa generazione non fu di certo questo controller a rubare la scena. Era il 2005, durante il periodo dell’E3, quando un trailer mostrò le capacità dello stranissimo controller per l’allora Nintendo Revolution (senza alcun video di gameplay, giusto per dare un ulteriore senso di mistero), in seguito divenuto Wii: la gente che lo utilizzava imitava azioni di ogni tipo, dal brandire uno spada e uno scudo, illuminare una stanza a mo’ di torcia, dirigere un’orchestra, ma anche azioni più comuni come tagliare ingredienti o pescare. In molti storsero il naso di fronte a questo controller a forma di telecomando ma la verità fu che il Wii Remote (o Wiimote) divenne ben presto, in un epoca in cui i tasti d’azione nei controlli erano otto (dieci se contiamo la pressione delle levette), un controller incredibilmente facile da utilizzare grazie ai suoi motion control. Persino genitori e nonni di tutto il mondo finirono per aver giocato, almeno una volta nella vita, a titoli come Wii Sport, Wii Play e molti altri titoli! Sebbene i titoli party erano quelli in cui era coinvolto più movimento, nonché i migliaia di titoli “shovel-ware” che finirono per riempire il catalogo dei giochi ufficiali Wii, non bisogna dimenticare titoli come The Legend of Zelda: Twilight Princess, Super Mario Galaxy, Metroid Prime 3, Mario Kart Wii, Disaster: Day of Crisis, Mad World o No More Heroes in cui il Wiimote aggiunse realmente un layer di profondità finora inesplorato. Il dominio motion control arrivò e tramontò col Wii ma è bene ricordare che fu un periodo molto particolare, tanto che arrivò a influenzare in un qualche modo anche la generazione successiva: ne sono ovvi esempi gli attuali controller DualShock 4 e Nintendo Switch, nonché il gamepad per Wii U (di cui parleremo più avanti).
Impatto a parte, cosa offre un Wiimote? In alto, insieme al pulsante power, troviamo un D-pad che, nonostante la strana posizione, funge perfettamente come un menù rapido in giochi come The Legend of Zelda: Twilight Princess e come metodo di controllo principale se utilizzato in orizzontale, diventando a tutti gli effetti un controller a là Nintendo Entertainment System visti anche i tasti “1” e “2” sull’altra estremità del controller, diventando un controller perfetto per i giochi platform 2D nonché gli stessi giochi per NES presenti nel catalogo della Virtual Console. Preso in verticale, esattamente sulla linea del pollice e indice troveremo un tasto grande “A” e un grilletto “B“, pronti immediatamente per l’uso mentre, sulla metà, troveremo invece i tasti home, “+” e “” (da questa generazione i veri sostituti dei tasti start e select); proprio sotto al tasto home, inoltre, vi è un piccolo speaker che riprodurrà alcuni effetti sonori dal gioco in esecuzione. Tuttavia un Wiimote, soprattutto se si vogliono giocare i giochi più belli, non è niente senza un Nunchuck, l’espansione naturale di questo controller: questa impugnatura offre al giocatore una buonissima levetta analogica e due ulteriori tasti, “C” e “Z“, sulla parte alta dell’impugnatura da premere con l’indice. I tasti effettivi, dunque sono sei (quattro se contiamo che “1” e “2” sono difficilmente raggiungibili in modalità Nunchuck), ma è chiaro che tutto ciò che viene a mancare viene compensato dai movimenti e dalle azioni da compiere, sia con il Wiimote che col Nunchuck, anch’esso parte dei motion control. Al lancio il Wiimote, che funge anche da puntatore (dunque un vero e proprio mouse), doveva includere sia accelerometro, che registra principalmente i movimenti, e un giroscopio che ne registra invece la posizione ma alla fine venne incluso solo il primo; più tardi fu rilasciato il Wii Motion Plus, un accessorio (una sorta di cubo) che ultimò definitivamente il controller per questa generazione aggiungendo il giroscopio, ma in seguito i futuri Wiimote furono costruiti con entrambi i componenti all’interno, rinominando il tutto in Wii Remote Plus. L’esperienza dei controlli per Wii furono strani e, tutto sommato, passeggeri ma i motion control sono a tutt’oggi presenti, in misure più o meno incisive (ma sicuramente meno presenti) a seconda dei giochi, come in Splatoon 2 o Super Mario Odyssey.

Per il resto Nintendo offrì un ulteriore controller a otto tasti rinominato Classic Controller, simile a un controller per Super Nintendo, per giocare al meglio i giochi della Virtual Console, specialmente quelli post-NES. Il Classic Controller Pro, che aggiunse principalmente due maniglie (a là DualShock) per una migliore presa, fu invece il metodo principale per giocare a giochi come Goldeneye 007 (2010) o Samurai Warrior 3 (tanto che venne incluso in bundle), sottolineando invece come i motion control, spesso, risultavano superflui e quanto invece servisse un controller semplice per godersi al meglio alcuni titoli.

L’annuncio del Wiimote colse tutti di sorpresa e fra quelli c’erano anche i concorrenti Microsoft e Sony. La prima lasciò perdere totalmente, almeno per l’inizio, in quanto investire immediatamente avrebbe rappresentato un rischio inutile, senza contare il fare la figura dei copioni, e poi l’analizzare con pazienza il trend dei motion control avrebbe permesso lo sviluppo di un set più originale e avanzato; ovviamente stiamo parlando del Kinect ma qui eviteremo di parlarne in quanto, essendo, sì, un metodo di controllo ma non un controller vero e proprio, non c’è nulla da “tenere in mano” e pertanto rimanderemo questa conversazione a qualche altro articolo. Sony invece cominciò a correre ai ripari in quanto, nonostante le critiche mosse al Wiimote, i motion control erano visti come la prossima grande cosa. Inoltre in pochi sanno che Sony aveva il DualShock 3 pronto sin dal lancio ma una causa legale contro la Immersion Corporation, proprio per la feature del rumble, li spinsero a togliere la vibrazione in favore dei motion control per offrire qualcosa di nuovo. Il Sixaxis fu annunciato otto mesi dopo l’annuncio del Wii Remote e in molti videro uno strafalcione del concetto offerto da Nintendo; il tutto fu aggravato non solo dal fatto che durante l’E3 del 2006 Warhawk fu l’unico gioco per PlayStation 3 a mostrare le capacità del Sixaxis ma gli sviluppatori alla Incognito Entertainment si lamentarono del fatto che il controller Sony arrivò soltanto 10 giorni prima dell’evento. PlayStation 3 fu lanciata fra il 2006 e il 2007 (in Europa) e agli imbarazzanti prezzo di lancio fu incluso un controller sconclusionato, le cui motion feature venivano utilizzate pochissimo, senza vibrazione e anche troppo leggero (dunque prono alla rottura in caso di caduta). Ciò che è peggio è che Phil Harrison, l’allora presidente della Sony Worldwide Studios, ebbe da dire che il rumble era una feature obsoleta e che il motion control era il futuro (senza contare che il Wiimote, seppur senza giroscopio, aveva motion control e vibrazione). I problemi per Sony finirono fra il 2007 e il 2008 quando il più efficiente e iconico DualShock 3, che (come abbiamo scritto nel precedente articolo) implementò i grilletti e la tecnologia wireless con batteria al litio ricaricabile, sostituì definitivamente il Sixaxis, finendo così la motion-avventura per Sony… o così sembrava!

La tecnologia Sixaxis finì direttamente all’interno di PS Vita, mentre su PlayStation 3, intenti e decisi a rilasciare un vero e proprio motion control, Sony rilasciò il PlayStation Move. Nonostante ancora scelsero di copiare direttamente ciò che faceva Nintendo, il nuovo controller Sony risultò ben costruito ed ebbe, fra alti e bassi, un buon successo: nonostante i movimenti potevano sostituire l’ausilio di qualche tasto, furono inclusi tutti i tasti di un DualShock intorno al controller e i primi giochi dedicati al Move, che dovevano essere giocati con la nuova ridisegnata Eye-toy, mostrarono degnamente il potenziale di questi controller. PlayStation Move, durante l’era della PlayStation 3, non ebbe il successo sperato ma questi furono interamente implementati per l’utilizzo di PlayStation VR, e dunque ancora oggi utilizzati dai giocatori di tutto il mondo.

(Nota: il Sixaxis non è presente in questa galleria in quanto differisce soltanto per la scritta “DualShock 3” sul lato alto del controller. Al di là dei motion control, che ovviamente in foto non si vedono, i due controller sono esteticamente identici.)

La mid-gen e i controller odierni

Con Wii Nintendo riuscì ad avvicinare molti casual gamer allontanando però molti hardcore gamer che nel frattempo, intenti a provare il gaming in HD, si spostarono verso Xbox 360 e PlayStation 3. Wii U fu rivelata durante l’E3 del 2011 e con essa il proprio “tablet controller”. Dopo una creativa disposizione dei tasti su Gamecube e un accantonamento generale durante la precedente generazione, Wii U proponeva un ritorno alle origini con una disposizione di tasti più vicina al Classic Controller Pro per Wii, un giroscopio e un touch screen per, letteralmente, vedere i giochi da una prospettiva totalmente diversa; insieme a tutto questo fu incluso un microfono, degli speaker e una telecamerina sulla parte alta dello schermo, dando come l’impressione che fosse una specie di Nintendo DS fisso. Nonostante le premesse, in pochi riuscirono a immaginare realmente un utilizzo innovativo del touchscreen, col risultato che pochissimi giochi sfruttarono al 100% le sue caratteristiche, come Pikmin 3, Splatoon ma soprattutto Super Mario Maker; insieme al controller, ad affondare fu l’intero sistema in quanto i developer difficilmente trovavano un vero utilizzo per il tablet controller, ma ciò che è peggio è che il pubblico non capì realmente cosa fosse il Wii U (un’espansione del Wii? una nuova console? Ne parleremo qualche altra volta).
In tutta questa grande confusione, il nuovo controller non sembrava piacere a tutti: c’era a chi piaceva e c’era chi lo odiava, e fra quelli c’erano sicuramente gli hardcore gamer, proprio quelli che la compagnia di Kyoto sperava di richiamare a sé. Fortunatamente per Nintendo, che si assicurò in ogni caso di rendere i precedenti Wiimote compatibili per il nuovo sistema, lanciò con la console anche il più versatile Pro Controller, molto più simile a un controller per Xbox 360. La particolarità di questo controller, come per il tablet, sta principalmente nel fatto di avere le levette analogiche allineate, entrambi sopra la parte inferiore in cui vi è il D-pad e i quattro tasti principali; in tutto questo, come ormai tutti i controller di quest’epoca, vi sono quattro tasti dorsali di cui due trigger. Il Pro Controller fu indubbiamente una mossa verso la direzione giusta ma, come sappiamo, non bastò per far spiccare Wii U fra Xbox One e PlayStation 4 lanciate l’anno successivo. L’esperienza di Wii U, anche in ambito di sistema di controllo, fu di grande aiuto in seguito per coniare Nintendo Switch.

Il nuovo controller per la Xbox One è una vera e propria evoluzione del già ottimo controller per Xbox 360, riportando in auge tutto ciò che rese grandioso il precedente controller, migliorandolo in maniera esponenziale. In seguito, Microsoft rilasciò anche l’Elite Wireless Controller con la quale, grazie a un kit dedicato, è possibile personalizzare il proprio controller con tasti programmabili sul dorso e anche sostituire levette e D-pad, offrendo un grado di personalizzazione mai visto in ambito controller.

Sony invece, forse anche un po’ a malincuore, sostituì l’ormai vecchio design del DualShock con uno nuovo più rotondeggiante, moderno e realmente all’avanguardia. Insieme alle novità del touch pad, dei sensori di movimento correttamente implementati e il led sul dorso del controller, il nuovo controller della PlayStation 4 si adatta ai tempi moderni offrendo al giocatore un immediato tasto share con la quale è possibile caricare sui social network i momenti salienti del proprio gameplay. In quanto a precisione, il controller per PS4 ha un retaggio che va indietro sino al primo DualShock, il che è senza dubbio un sinonimo di garanzia in quanto qualità dell’immissione degli input di gioco.

La natura ibrida di Nintendo Switch ha invece portato al concepimento di un controller formato da due pezzi, simile nell’esecuzione al Wiimote e il suo Nunchuck ma ben lontano dal suo concetto interamente focalizzato nei motion control. I due Joy-Con, sia in modalità portatile che in modalità fissa, offriranno al giocatore la tipica disposizione a diamante ormai tipica dei controller Nintendo, mentre le levette, a differenza del gamepad per Wii U o del suo Pro Controller, stavolta si presentano disallineate per permettere tramite un solo set di Joycon la possibilità di giocare in due giocatori semplicemente tenendo il controller in orizzontale; in tutto questo i controller sono stati muniti di accelerometro, giroscopio e la nuovissima feature HD Rumble, un particolare tipo di vibrazione in grado dare un layer ancora più profondo di realismo (tipico è l’esempio delle biglie in 1 2 Switch). I Joy-Con, purtroppo, si sono resi protagonisti di uno spiacevole malfunzionamento, ovvero quello del drifting dopo circa un anno assiduo di gameplay ma Nintendo, per fronteggiare il problema, si è offerta di riparare i Joy-Con anche dopo il superamento della data di garanzia.
Nel caso voleste evitare il problema del drifting, nonché prendere in mano un controller più tradizionale, allora vi converrà passare al più preciso Pro Controller che offre le stesse feature dei Joy-Con (persino il riconoscimento degli Amiibo) ma con una presa decisamente più comoda e rilassata. In più è presente un D-pad in quanto scartata nei Joy-Con per permettere due pezzi perfettamente speculari e che si prestassero al gioco in due giocatori. Se non vuoi essere considerato un principiante a vita allora ti converrà passare al Pro Controller stasera stesso!

Futuro?

Finisce così la nostra strada che ci ha portato dai joystick ai joypad ma ovviamente, nonostante gli headset VR e chissà quali future diavolerie, i controller saranno destinati ad accompagnare per sempre il giocatore. Quali saranno le future innovazioni per i controlli? Come si controlleranno i videogiochi di prossima generazione? E in tutto questo: qual è il vostro preferito? Fatecelo sapere nei commenti!




L’evoluzione dei controller Pt.1 – Dal digitale all’analogico

Da giocatori ci concentriamo spesso su tanti aspetti dei videogiochi: grafica, artwork, sonoro, storia, contenuti extra e molto altro, ma ciò che li lega realmente è la giocabilità. E cosa detta la giocabilità? Qual è quella bacchetta che dirige quella sinfonia rappresentata dal gioco? Ovviamente è il controller, un accessorio fondamentale per godersi appieno gli infuocati gameplay di moltissimi videgame. Facendo eccezione della cara accoppiata “mouse e tastiera“, entità indissolubile dalle postazioni PC, daremo uno sguardo ai controller first party delle console con la quale sono stati lanciati, dalla comodità alle innovazioni apportate, nonché eventuali evoluzioni come il passaggio dal controller originale PlayStation al Dual Shock.

Dal Joystick al D-pad

In principio c’erano le arcade e i loro ingombranti cabinati diedero una soluzione tanto facile quanto intuitiva. Il piano di controllo presentava solitamente uno stick e dei tasti per eseguire delle azioni, come sparare in giochi come Berserk e Space Invaders o saltare in Donkey Kong. I videogiochi dei tempi erano molto semplici e spesso e volentieri era molto raro trovarne uno che usasse più di un tasto. Nonostante tutto, i primi produttori di console ebbero parecchia difficoltà a tradurre quel set di controlli in un qualcosa di casalingo e a basso costo (proprio per questi  motivi gli arcade stick, come il controller base del Neo Geo, costano parecchio). Il Fairchild Channel F, lanciato nel 1976, si avvicinò parecchio al set da salagiochi, incorporando direzione e azione (nonché anche rotazione) sullo stesso stick, ma fu il controller dell’Atari 2600, rilasciata l’anno successivo, a restituire più fedelmente l’esperienza arcade in quanto più semplice e intuitivo. Anche soltanto vedendo in fotografia si riesce tranquillamente a immaginare l’impugnatura del contoller: la mano sinistra finisce per gestire lo stick mentre la mano destra si occupa di tener saldo il controller e con il pollice premere il tasto rosso che si andrà a posizionare perfettamente sotto di esso. La semplice impugnatura permise a chiunque di capire come funzionassero gli all’ora nuovi videogiochi e furono mosse del genere che portarono l’Atari 2600 di diventare la più venduta macchina da gioco della cosiddetta seconda generazione di console. Lo stile “joystick” fu emulato immediatamente, come dimostrano i controller base per Magnavox Odyssey² (punto cardine del nostro ultimo articolo), Colecovision e Commodore 64, ma la vera sorpresa è che questo set, nonostante la rivoluzione del D-pad e delle levette analogiche (di cui ovviamente parleremo più avanti), è sopravvissuto fino a oggi, principalmente come flight stick usati solitamente nei simulatori di volo per PC.
Va inoltre ricordato che Atari fu anche la prima compagnia a offrire dei controller wireless (radio) first party; più in là vennero prodotti controller wireless per tutte le console ma fu solo tanti anni dopo, col Nintendo Gamecube, che una compagnia first party prese in considerazione di produrre controller wireless per la propria console.

Parallelamente allo stile “Joystick“, anche nelle arcade apparvero giochi che sfruttavano quattro tasti disposti a croce che in un qualche modo indicavano la possibilità di eseguire qualcosa di direzionato: è il caso di Vanguard, famosissima prima hit della SNK, la cui navicella pilotata poteva sparare in quattro direzioni (ricordiamo che è possibile provare Vanguard nella SNK 40th Anniversary Collection). Il controller dell’Intellivision (di cui parlammo nel nostro vecchio articolo delle impressioni a caldo dell’Intellivision Amico) anticipò il concetto del D-pad con il suo strano dischetto metallico girevole in grado di registrare ben 16 direzioni ma il risultato non fu dei migliori in quanto concepito come una sorta di sostituto dello stick, dunque messo in alto nel controller, e perciò risulto scomodo e poco intuitivo.
In Giappone intanto un giovane Gunpei Yokoi, tornando a casa dal lavoro, vide un signore giochicchiare sulla metropolitana con la sua calcolatrice tascabile spingendo tasti a caso. Da quell’immagine il geniale inventore visionò un videogioco che fosse portatile, tascabile e possibilmente costruito con la stessa tecnologia della calcolatrice. Quello che ne venne fuori furono i primissimi Game & Watch, la prima incursione di Nintendo nel campo dei videogiochi portatili (la prima in assoluto fu la MB Microvision) e questo stesso concetto si evolverà in futuro nello stravolgente Game Boy. A ogni modo, i Game & Watch presentavano spesso metodi di controllo sempre diversi, a seconda del gioco, ma fu nel 1982 che il D-pad, come vera e propria crocetta direzionale, fece la sua prima apparizione nel Game & Watch di Donkey Kong, appartenente alla serie Vertical Multi Screen (a sua volta, questi particolari modelli con due schermi, apribili a conchiglia, ispireranno invece la creazione del Nintendo DS… vedi un po’!).

I Game & Watch erano piccoli e la loro tecnologia poteva permettere soltanto gameplay semplici e passeggeri, perciò il D-pad, per quanto innovativo, non veniva usato costantemente per questi portatili. Fu invece col Famicom che il D-pad prese piede e divenne un punto di riferimento per tutti i controller a venire: lo stile “Joystick” fu messo da parte per il nuovo modello “Joypad” in cui il controller passò da una presa verticale a una orizzontale che permetteva i movimenti con il pollice della sinistra e le azioni, una in più rispetto al controller di Atari, con quello della mano destra. Nintendo stava per lanciare il Famicom con tasti quadrati e di gomma ma poco prima del lancio il design dei controller fu cambiato in favore dei più classici tasti rotondi e di plastica, da sempre i più indicati in quanto quelli in gomma sono proni al deterioramento e spesso finiscono per funzionare sempre con più difficoltà (gli stessi tasti start e select dei controller Nintendo pre-N64 finivano per deteriorarsi). Con questo design furono girate le primissime pubblicità del Famicom: notate bene la forma dei tasti.

I controller del Famicom fuorono saldati all’interno della console e nel secondo controller i tasti start e select furono scartati in favore del microfono, caratteristica poco utilizzata ma che comunque diede un certo grado di innovazione, tanto che fece ritorno molti anni dopo col Nintendo DS. Il Famicom arrivò qualche anno dopo in America, Europa e Australia col nuovo nome Nintendo Entertainment System: oltre al nome fu rinnovato l’aspetto generale della console, più simile a un dispositivo HI-FI da mettere nello stesso mobile in cui venivano messi videoregistratori, mangianastri e giradischi, e ovviamente i controller, stavolta staccabili, con i cavi che uscivano dal lato lungo alto dei pad (e non dai lati corti come nel Famicom), più tozzi, senza la feature del microfono e con un nuovo design più serioso e futuristico.

Questo modello fu subito imitato da SEGA e Atari con le loro console Master System, terzo re-design della serie SG-1000, e Atari 7800 che rimpiazzarono loro vecchi joystick con dei joypad (Atari lanciò i suoi nuovi joypad soltanto in Europa). Il design del D-pad Nintendo era (ed è a tutt’oggi) un marchio registrato così i concorrenti aggiunsero una specie di dischetto nei loro controlli direzionali, una buona soluzione per evitare ripercussioni legali da parte di Nintendo. I loro nuovi controller furono tanto comodi quanto la loro controparte ma, per quanto il tasto start fu incorporato nei tasti d’azione, per mettere in pausa il gioco bisognava avvicinarsi alla console per premere l’apposito tasto per fermare il gameplay se si voleva fare una capatina in bagno.

La generazione 16-bit

Ad aprire le danze per le console di nuova generazione fu NEC con il suo PC-Engine (o Turbografx-16 negli Stati Uniti). Il controller in bundle con la console non portava alcuna innovazione, il suo design era pressappoco identico a quello del Famicom/NES, ovvero una croce direzionali, due tasti azione e due tasti menù; tuttavia, a rendere unico questo controller erano le sue levette per regolare il turbo, feature solitamente trovata in molti controller di terze parti qui invece inserite in un controller first party, probabilmente l’unico in tutta la storia dei videogiochi.

SEGA Mega Drive, o Genesis in Nord-America, arrivò in Giappone nell’Ottobre del 1988. Con il rinnovato hardware arrivò un nuovo precisissimo e più grande controller: la croce direzionale fu incastrata in un dischetto e il controller presentò un tasto d’azione in più e un tasto start di plastica al di sopra della stringa dei tre; questo controller fu inoltre il primo ad abbandonare il design quadrato “a telecomando” in favore del più moderno e comodo design tondeggiante, decisamente più ergonomico.

Nel 1990 Nintendo rispose al Mega Drive con il Super Famicom, la loro nuova macchina 16-bit (per vedere tutti i risvolti della grande console war dei 16 bit vi consigliamo di leggere questo articolo). Come Sega, Nintendo accompagnò il nuovo hardware con un nuovo rinnovato controller: anche la compagnia di Kyoto optò per un design più curvo ma aggiunse alla stringa dei due tasti d’azione del Famicom/NES un ulteriore stringa di due tasti al di sopra della prima, avviando così il trend del layout a diamante/romboidale, il tutto un po’ più obliquo rispetto al precedente controller i cui due tasti erano perfettamente orizzontali; in aggiunta alla nuova stringa doppia vennero anche aggiunti i due tasti dorsali “L” e “R” posizionati sul bordo alto del controller dove poggiavano naturalmente le dita indice di entrambe le mani, offrendo così al giocatore un controller a 6 tasti molto intuitivo e per nulla complicato.

Nonostante SEGA fosse il leader del mercato, il Mega Drive aveva solo tre tasti d’azione, tre in meno rispetto al Super Famicom/Super Nintendo  e la loro mancanza si sentiva principalmente per i super popolari Street Fighter II e Mortal Kombat che sfruttavano un set di sei tasti: per Street Fighter II: Special Champion Edition, la seconda versione del picchiaduro Capcom scelta come base per il porting per SEGA Mega Drive, bisognava alternare pugni e calci premendo il tasto start (togliendo al giocatore qualsivoglia possibilità di mettere il gioco in pausa) mentre per il porting di Mortal Kombat il tasto start fu impiegato per la parata dando al giocatore uno strano metodo per alternare pugno forte e pugno debole. SEGA più in là non poté fare altro che lanciare un nuovo controller a sei tasti, diversamente da quello Nintendo disposti a stringhe di tre uno sopra l’altro. Se non altro questo controller ricalcava perfettamente il set di tasti di Street Fighter II in Arcade e molti giocatori, ancora oggi, preferiscono questo specifico set per i tornei dei più recenti capitoli. Tuttavia SEGA dovette rinnovare il proprio controller mentre Nintendo rimase con lo stesso set dal lancio fino alla fine del ciclo vitale del Super Famicom/Super Nintendo, offrendo dunque un efficiente controller sin dall’inizio.

Il layout a tre tasti proposto da SEGA, sia a doppia stringa che a singola stringa, fu comunque ritenuto molto comodo e, così come la libreria dei giochi di Mega Drive e Super Nintendo, la disposizione dei tasti diventò anch’essa un motivo di preferenza. A testimonianza della sua comodità ne sono controller per Atari Jaguar e quello per 3DO che alla stringa di tre tasti, ne aggiunse due  dorsali e un tasto menù in più. Quest’ultimo controller è famoso per aver incluso, nel pad stesso, una porta per il multigiocatore (permettendo dunque, potenzialmente, a un infinito numero di giocatori di partecipare a un gioco multiplayer!) e un jack per gli auricolari, qui usato per ascoltare il sonoro ma che verrà ripreso, anni più tardi, per permettere ai giocatori di comunicare in ambiente online in controller come quello per Xbox e Dual Shock 3. Anche NEC utilizzò questo layout per lanciare il suo controller a sei tasti da lanciare col porting di Street Fighter II: Champion Edition per PC-Engine e lo stesso design (anzi, lo stesso controller) fu messo in bundle col PC-FX, suo successore meno fortunato.

La generazione 32/64-bit e l’arrivo degli analog stick

Ad avviare le danze per la nuova generazione fu SEGA che con il suo Saturn lanciò il suo nuovo controller che si rifaceva al Mega Drive: fu diminuita la corsa dei tasti per una maggiore precisione nei controlli e ne furono aggiunti due  dorsali per un totale di otto, a oggi il numero essenziale per ogni buon controller che si rispetti. In Nord-America ed Europa i controller che arrivarono avevano dimensioni diverse da quelli del Giappone: il design era sostanzialmente più massiccio e in molti lo trovarono scomodo; pertanto SEGA più in là sostituì i controller in bundle con la console con i più piccoli, comodi e leggeri controller destinati al Sol-Levante, stavolta di colore nero lucido come il design per la console in Nord-America e Europa. Questo controller non portò grandi innovazioni ma è a oggi uno dei più comodi e belli mai realizzati.

Come oggi si sa, PlayStation nacque da un accordo fallito fra Sony e Nintendo e il suo controller ne riflette le conseguenze: la disposizione dei tasti si rifà a quella del Super Nintendo, una forma a rombo più retta e per niente inclinata, con l’aggiunta di due tasti dorsali extra, facendo partecipare anche le dita medie di entrambe le mani al gameplay. Il controller Sony aggiunse due impugnature al di sotto del pad per una presa ancora più comoda e solida, l’ideale soprattutto per chi non avesse mai preso in mano un controller. Teiyu Goto, il suo designer, ebbe la geniale idea di utilizzare simboli, anziché lettere, che rappresentassero funzioni universali per qualsiasi videogioco:

  • Il triangolo verde rappresenta il punto di vista: alla punta del triangolo ci sarebbe la testa mentre la sua area rappresenta il suo campo visivo;
  • Il quadrato rosa rappresenta un foglio di carta: questo tasto sarebbe dovuto servire a richiamare i menù o i documenti;
  • La croce e il cerchio, rispettivamente blu e rosso, rappresentano il “no” e il ““: questi tasti sarebbero dovuti servire per prendere decisioni.

Anche se questo schema non fu mai assoluto, la disposizione dei simboli risultò molto intuitiva e fu molto facile memorizzare questo nuovo layout di tasti.

Tuttavia, la vera rivoluzione fu lanciata col controller Nintendo 64, il primo a includere (dal lancio) una vera levetta analogica, per un totale controllo dei movimenti a 360°. Il tridente, come spesso chiamato dagli appassionati, presentava una disposizione di tasti frontali con i due grossi “B” e “A” uno sopra l’altro e un set di tasti “Cdisposti a croce accanto ai primi due, dando al giocatore una disposizione simile a quella del Saturn ma chiaramente con funzioni diverse: i tasti “C“, di colore giallo, servivano a dare al giocatore un primordiale controllo dual analog in modo da offrire al giocatore un sistema per controllare la telecamera in giochi 3D come Super Mario 64 o Banjo Kazooie o mirare in sparatutto come Quake e Goldeneye 007. In quanto a dorsali il controller ne offriva tre ma, non ci si trovava mai con un gioco che sfruttasse tutti e nove i tasti, bensì sempre con otto: dietro l’impugnatura della levetta analogica si trova il tasto “Z” e pertanto, qualora il giocatore dovesse usare questa impugnatura, non gli verrà mai richiesto di premere il tasto “L” che si trova al di sopra dell’impugnatura col D-pad.
Nonostante in molti non trovassero ergonomico questo controller (in molti ancora oggi lo impugnano in maniera sbagliata) esso rappresentò il punto di svolta per tutti i controller a venire e, come risultato, Sony e SEGA dovettero rivisitare i propri mentre, Nintendo, ancora una volta, rimase con lo stesso pad dal lancio fino alla fine del suo ciclo vitale.

Chiusa una porta si apre un portone e infatti Sony rilasciò il più completo controller DualShock, con due levette analogiche per permettere tutto ciò che offriva  il rivale del N64, e l’innovativa funzione rumble inclusa all’interno del controller, a differenza del controller Nintendo a cui serviva attaccare il rumble pak. In aggiunta a queste feature innovative, le levette analogiche reagivano alla pressione esattamente come dei tasti, diventando ufficialmente “L3” e “R3“. Molti titoli furono ripubblicati per offrire i nuovi controlli analogici, come Resident Evil: Director’s Cut Dual Shock Ver., ma le future pubblicazioni si concentrarono nell’offrire sia il controllo analogico che il controllo tramite D-pad che, nonostante la coesistenza, cominciava a cedere il passo a questo nuovo tipo di controlli.
Il nuovo controller Sony fu così efficiente che il design generale, fra la prima PlayStation e la terza, subì pochissime rivisitazioni, offrendo al giocatore una presa e un controllo vicino alla perfezione: per la successiva generazione Sony cambiò i tasti digitali in tasti analogici, che ovviamente reagiscono alla quantità di pressione applicata, mentre su PlayStation 3 furono implementati i trigger analogici e resero l’intero controller wireless, con la possibilità di ricaricare la batteria a litio via USB. Alla fine il controller cambiò radicalmente soltanto con l’arrivo di PlayStation 4, con la quale fu implementato il piccolo led per identificare il giocatore, il touch pad e accelerometro a tre assi e giroscopio a tre assi, migliorando e implementando correttamente quello che non riuscirono a consegnare con il controller Sixaxis (di cui parleremo più avanti).

SEGA dal canto suo aggiornò il suo sistema di controllo con il nuovo e rinnovato 3D Pad, un controller decisamente più grande rispetto al modello base. Incluso in bundle con Nights into Dreams…, il 3D Pad può sembrare un controller scomodo e ingombrante ma in realtà è invece risulta ergonomico offrendo una presa più rilassata, particolarmente efficiente in giochi picchiaduro come Vampire Warriors: Darkstalkers’ RevengeStreet Fighter Alpha 2 o Virtua Fighter 2. Sebbene non abbia la funzione rumble e i controlli analogici non siano stati implementati per tutti i giochi a venire, il 3D pad fu invece il primo controller a implementare i Trigger analogici dorsali, caratteristica fondamentale di ogni buon controller per console o computer.

Col cambio della prospettiva, dai giochi 2D a quelli 3D, cambiarono anche i controller che da questo punto in poi, non sarebbero mai più stati gli stessi. Mutano i giochi, mutano i controller. Come sarebbero stati i controller successivi? Aspettate il prossimo articolo e continueremo a ripercorrere l’evoluzione dei controller fino al giorno d’oggi!




Dusty Rooms: Il retrogaming oggi: storia, prodotti, metodi ed etica

Precedentemente, in uno dei nostri speciali, abbiamo dato delle linee guida molto generali su come mettere su una collezione retrò, che sia di grandi o piccole dimensioni (quello dipende dal vostro portafoglio); sempre rimanendo in tema retrogaming, oggi vogliamo discutere un po’ della “storia del retrogaming moderno” e dei mezzi che vengono usati per godersi l’esperienza retrò, che siano legali, diffusi o, perlomeno, poco ortodossi. Non tutti disponiamo di grandi quantità di denaro né, tantomeno, spazio per custodire console, giochi e accessori e pertanto finiamo per utilizzare stratagemmi discutibili che talvolta risultano essere l’unico modo per giocare alcuni titoli (vedi Panzer Dragoon Saga). Come dobbiamo approcciare qualora ciò che ci interessa, in ambito di retrogaming, è al di fuori della nostra portata?

L’evoluzione della scena del retrogaming

Con l’arrivo della grafica 3D, più specificatamente con la quinta generazione di console (Sony PlayStation, Sega Saturn e Nintendo 64), il 2D, seppur non è mai stato abbandonato, ha perso il suo smalto e ha assunto uno status di “poco rilevante”; per quanto Castlevania: Symphony of the Night, Tombi, Mischief Makers o Silhouette Mirage fossero dei giochi spettacolari erano sempre eclissati, nelle riviste, nel primordiale internet o semplicemente nelle chiacchiere fra gli appassionati, da più grossi titoli come Metal Gear Solid, Final Fantasy VII o The Legend of Zelda: Ocarina of Time. Con l’avvento della sesta generazione il 3D raggiunse livelli eccellenti e i generi più classici sulla quale si fondarono le precedenti generazioni, quelli più collegati al 2D, vennero totalmente trascurati, divenendo quasi esclusiva delle console portatili; sono stati pochissimi – se ci fate caso – i titoli platform sidescroller su console di quell’epoca e quelli che uscirono, come Mega Man: Network Transmission o Contra: Shattered Soldier, passarono totalmente inosservati nonostante l’interessantissimo gameplay. Insieme ai platform, ovviamente, erano in crisi anche gli shoot ‘em up, le avventure grafiche, il cui disinteresse distolse totalmente la Lucasarts dal suo genere di punta (vi consigliamo, per tanto, di dare un’occhiata al nostro speciale sulle avventure grafiche), i beat ‘em up classici, eclissati dai più moderni hack and slash, etc… Tuttavia, nel 2006 avvenne una rivoluzione che, in retrospettiva, è stato uno dei motivi per cui il retrogaming (e di conseguenza anche la scena indie più tardi) è divenuto così popolare: stiamo parlando proprio della Virtual Console, servizio online lanciato insieme al Nintendo Wii: per la prima volta, dopo tanti anni, non solo un infinità di titoli per NES, SNES, Nintendo 64, Sega Master System, Mega Drive, Commodore 64 e molti altri tornavano disponibili in formato digitale ma si trovavano di nuovo sotto ai riflettori. I titoli retrò si rivelarono un successo e il servizio (che sfortunatamente terminerà definitivamente il 31 Gennaio 2019) diede voce ai moltissimi giocatori intenti sia a giocare ai titoli del passato e sia a quelli desiderosi di un gameplay più classico; il “ritorno dei pixel”, per ciò che riguarda i giochi moderni, fu sancito, infatti, definitivamente da Mega Man 9, rilasciato nel 2008 più o meno per tutti gli store digitali per console, e da allora sempre più developer fecero volentieri un “passo indietro” con risultati sempre positivi.
La “retromania” cominciò e oggi, sia per quanto riguarda le vecchie release che i giochi moderni in salsa vintage, stiamo godendo del suo massimo splendore; giocare ai titoli del passato ormai è una vera passeggiata e in ogni parte, che sia in uno store digitale o un semplice negozio di elettronica, troviamo sempre qualcosa per placare la nostra fame di retrogaming. Per prima cosa, per le console attuali e pc, si possono trovare tanti di titoli del passato, sottoforma di remastered o in formato originale (sugli store digitali), ma oggi si trovano soluzioni più convenienti nelle collection, con contenuti spesso migliorati per le TV di oggi e tanti extra: Mega Man Legacy Collection I & II, Rare Replay, e le imminenti Street Fighter 30th Anniversary Collection e Shenmue I & II sono solo alcuni dei bundle per riscoprire questi titoli che hanno fatto la storia del gaming. Se invece desiderate un’esperienza un po’ più vicina a quella originale sfruttando i joypad originali e le tv attuali (sfoggiando anche un po’ di sfarzosità) allora ci sono le mini console: NES e SNES Classic Mini vi offriranno, rispettivamente, ben 30 e 21 giochi, tutti in qualità HD e con componenti di qualità, il Sega Mega Drive Flashback di AT Games che, nonostante non raggiunga la qualità Nintendo in termini di hardware, vi darà una buona base di 85 giochi e la possibilità di utilizzare le cartucce e i controller originali, l’Atari Flashback 8 Gold, sempre di AT Games, con ben 120 giochi e caratteristiche simili alle console precedentemente citate, il prossimo Neo Geo Mini (annunciato ufficialmente da SNK) dalla forma di un cabinato con schermo, joystick arcade e casse integrate. La lista andrebbe avanti ancora per molto ma per ora vogliamo soffermarci solo, diciamo, ai canali e alle soluzioni “pubblicizzate”.

Prima di chiudere questo capitolo, però, non dobbiamo dimenticarci di altri grossi fattori culturali che hanno permesso la riscoperta delle vecchie console: stiamo parlando dei siti internet dedicati come Screwattack, Retroware, Classic Game Room (il cui show partì già nel 1999) e delle personalità a esse collegate, che diventarono parallelamente star del primordiale YouTube, come James Rolfe (ovvero l’Angry Video Game Nerd), Patrick Contri (Pat the Nes Punk), Chris Bores (Irate Gamer, oggi Chris Neo), Projared, Angry Joe, Mark Bussler e molti altri. In un epoca in cui si guardava al futuro, le arcade si svuotavano in favore del gioco online e la risoluzione HD diventava obbligatoria per il gaming queste persone rispolveravano le loro vecchie console, rievocando, anche con un po’ di rabbia, i loro ricordi a essi connessi e rivendicando un passato più semplice fatto prima di esperienze, di giochi comprati giudicando dalla copertina e da qualche debole descrizione sulla scatola o su qualche rivista, di chiacchiere a scuola e poi di tecnologia; i loro buffi show ebbero, per l’epoca, un grossissimo riscontro poiché per molti fu motivo di condivisione, un “tornare bambini” dopo una giornata di duro lavoro, magari trovare recensito quel gioco che si possedeva tanto tempo fa e non sentirsi l’unico a “rimanere bloccato in quel punto”. È impossibile non dare a YouTube, alle piattaforme indipendenti citate (nonché al succeso di Facebook e i gruppi di retrogaming ad esso collegati) buona parte del merito per l’esplosione del retrogaming.

Le terze parti, l’emulazione, le Everdrive e le modifiche

La retromania su internet spinse sempre più persone ad andare su eBay e cominciare a mettere su la propria collezione; ma come la retromania diventava sempre più popolare anche i prezzi su eBay crescevano di conseguenza e perciò cominciarono ad apparire le prime alternative agli hardware originali e persino ai giochi troppo rari sotto forma di reproduction cartdrige; alcune compagnie, come Hyperkin e Retro-Bit, sono sorte proprio per colmare molte delle esigenze relative al retrogaming, fornendo ai giocatori cavi e joypad di qualità, accessori di ogni tipo e anche console in grado di leggere cartucce di più sistemi, come appunto il Retron-5 o il Super RetroTRIO. In molti, soprattutto i puristi, non sono grandi estimatori di questi nuovi sistemi poiché, per via dell’emulazione, sono spesso presenti alcuni problemi minori per ciò che riguarda la risoluzione (nonostante molte abbiano l’uscita HDMI) e il sonoro. Gli hardware interni, poiché gli originali sono spesso difficili da riprodurre, sfruttano dei sistemi operativi proprietari e spesso questi copiano l’immagine della cartuccia inserita e li emulano nei propri sistemi.

L’emulazione, soprattutto su PC, è stata per molti anni l’alternativa per non comprare dei sistemi obsoleti su eBay e, per un certo verso, non è stato eticamente troppo sbagliato; fino a quando, con gli store online delle console e PC, i singoli giochi non sono stati resi di nuovo disponibili per la vendita, essa ha permesso la sopravvivenza di questi sistemi e questi giochi per gli appassionati e, senza di loro, oggi probabilmente non avremmo avuto cose come la Virtual Console, le mini console o il neo-annunciato catalogo online di giochi NES per Switch. In alcuni casi l’emulazione, e tutta la hacking scene a essa collegata, hanno permesso la sopravvivenza di alcuni titoli che altrimenti sarebbero andati persi per sempre: ne sono un esempio i titoli per l’esclusivo add-on giapponese Satellaview per il Super Famicom, dalla quale era possibile giocare via streaming a Radical Dreamers, una side-story di Chrono Trigger, BS Legend of Zelda e il suo sequel Ancient Stone Tablets, o l’intera scena arcade prima dell’arrivo dei titoli per Xbox Live Arcade; grazie al MAME, emulatore creato dall’italiano Nicola Salmoria, è stato possibile salvaguardare le schede che contenevano i giochi arcade e renderli disponibili fino all’arrivo dei canali ufficiali, tanto è vero che non è mai stato avviato alcun processo per violazione per copyright per i creatori del MAME. Ma se ad alcuni basta giocare su computer con una tastiera ai giochi più classici, ad altri questo non basta e allora si ricercano metodi per poter avere una riproduzione più fedele possibile senza dover spendere un capitale.

(Il Nesticle fu il primo emulatore gratuito NES mai concepito per PC. Uscito nel 1997 girava su Windows 95 e Dos)

Una delle soluzioni meno invasive e che negli ultimi anni hanno preso piede, soprattutto per le console pre-compact disk, sono le sempre più popolari Everdrive. Questi dispositivi, similarmente alle notissime R4 per Nintendo DS e 3DS, non sono altro che cartucce, modellate per ogni singola console vintage, con uno slot per le schede SD da dove è possibile inserire le rom scaricate da internet. È vero che gli store online di console e PC offrono molti dei giochi che potrebbero essere giocati legalmente ma questo è, tuttavia, un metodo per risalire alla fonte e dunque poter giocare con la risoluzione originale (ammesso e concesso che avete un televisore CRT), i joypad originali e, soprattutto, la console originale. Le Everdrive, tuttavia, sono un ottimo metodo per giocare in un insolito modo “originale” ai giochi hack (delle versioni di un gioco modificato dai fan) e con le rom di quei titoli mai usciti al di fuori del Giappone tradotti dai fan; è importante, in ogni caso, sapere che non tutti i giochi sono compatibili con le Everdrive in quanto, alcune volte, le cartucce originali includevano dei chip aggiuntivi per una migliore resa dell’esperienza (come il chip FX incluso in Star Fox o il chip SA-1 incluso in Kirby’s Fun Pack) e perciò, non potendo emulare questi pezzi di hardware, è bene conoscere quali titoli, specificatamente, non funzionano in questi curiosi dispositivi.
Esistono tuttavia, come si sa, altri metodi per rendere l’esperienza di gioco sempre più conveniente e non sempre sono molto etici: stiamo parlando ovviamente delle modifiche interne che, a differenza di quel che si possa pensare, possono servire a diversi scopi. Le console mod sono esistite sin dall’alba dei tempi e queste sono servite per motivi più o meno leciti: il taglio del quarto piedino del chip 10NES del NES europeo per permettere la lettura di tutti i giochi PAL (poiché nel continente c’erano due diverse codifiche a seconda della zona: PAL-A e PAL-B), la rimozione di due pezzettini di plastica all’interno dello slot delle cartucce dello SNES americano per renderlo, praticamente, compatibile coi giochi giapponesi, l’over clocking del Sega Mega Drive/Genesis per poter cambiare, con un interruttore, la codifica del video ma le più comuni sono quelle per leggere i backup nelle console che leggono i compact disk. Nonostante la lettura dei backup può rivelarsi un ottimo metodo per accedere all’intera libreria di giochi per console obsolete (dunque non più supportate) come Sony PlayStation, Sega Saturn e PlayStation 2, noi ve le sconsigliamo vivamente al di là dell’etica perché il dover toccare con mano i componenti potrebbe comunque danneggiare, talvolta irreversibilmente, le vostre console. Per tanto noi non contempliamo nulla di tutto ciò e, per quel che riguarda le console come queste, comprate sempre giochi originali o, se esistono, applicate una modifica software che sia facilmente applicabile e reversibile.

Qual è il nostro parere sulla “retro-etica”? Come già ribadito, viviamo in un epoca di riscoperta (potremmo addirittura chiamarlo rinascimento videoludico) e pertanto è facilissimo trovare i videogiochi retrò che ci interessano, che siano sotto forma di software digitali negli store di console e pc, all’interno di collezioni o incluse nelle spettacolari retroconsole che stanno spopolando fra gli appassionati; dall’altra parte, per ciò che riguarda il possedere gli hardware originali o dei cloni moderni con feature più vicine ai TV set moderni (come l’Analogue NT o l’AVS di Retro USB), esiste una scena attivissima sempre in evoluzione in grado mantenere vivi i vostri vecchi sistemi. Il nostro consiglio è semplicemente quello di scegliere le strade più etiche e corrette e dunque, che ci sia una grande compagnia come Nintendo o Hyperkin dietro a qualche progetto di retrogaming, sempre finanziarle e comprare tutto in maniera ufficiale, non solo per supportarle ma tanto più per far sentire la nostra voce da retrogamer e far capire che la scena a essa legata rimanga in totale attività. Lo stesso vale per le console moderne e ricordate sempre che la pirateria è un reato e pertanto comprate sempre tutto in maniera ufficiale per voi e per chi per anni ha lavorato allo sviluppo di un gioco e dunque a dissociare da ogni tipo di metodo illecito.




Sega History

Come Nintendo, le radici di Sega si pongono in un epoca pre-gaming. Contrariamente a quanto si possa pensare, Sega era all’inizio una compagnia americana: fu fondata negli anni ’50 a Honolulu e il suo obbiettivo era provvedere all’intrattenimento dei militari dell’esercito americano. I loro prodotti principali erano slot machine, cabine fotografiche ma soprattutto giochi elettromeccanici. In uno scenario in cui ancora i videogiochi su schermo non esistevano Sega, negli anni ’60, produsse Periscope, un gioco elettromeccanico considerato da molti un pilastro sul quale si sarebbe costruita intorno l’intera scena arcade. Periscope, insieme ad altri titoli come Duck Hunt e Missile, attrassero l’interesse di un gruppo di investitori giapponesi che presto investirono nella compagnia e comprarono grossa parte degli asset.

L’era arcade e il Master System

Arrivano gli anni 80 e si assiste al boom delle arcade e di Atari nel mercato casalingo. Sega, visto il successo con i giochi elettromeccanici, decide di entrare nel mercato dei giochi elettronici, e comincia rilasciare i suoi primi giochi quali Head On, Monaco Gp, Zaxxon e Pengo che si rivelano, sia nelle arcade che nelle console casalinghe, dei veri successi commerciali. Sega, sin dagli inizi, dimostrò di essere una vera e propria pioniera dell’innovazione: in un periodo in cui Pac Man, Centipede e Galaga spopolavano, Sega era già all’opera con gli scaling, in Buck Rogers: Planet of Zoom, e persino con i Laserdisc, anticipando l’uscita di Dragon’s Lair con Astron Belt in tutto il mondo (tranne negli Stati Uniti, dove il popolarissimo gioco con i disegni di Don Bluth arrivò per primo). L’investimento sui videogiochi si rivelò vincente, ma il mercato, come crebbe a dismisura in pochi anni, crollò improvvisamente; la crisi dei videogame del 1983 prese piede ma Sega, nonostante alcuni dipendenti se ne tirassero fuori, decise di sfruttare la propria popolarità nell’arcade per rilanciare il mercato dei videogiochi. L’impresa non era assurda: i cabinati Sega andavano fortissimo nelle sale arcade e i loro giochi erano anche molto popolari nel mercato casalingo, ma purtroppo un gigante sfruttava una popolarità ben più grande di quella loro. Nintendo cavalcava infatti l’onda del successo con Donkey Kong dal 1981, e il lancio del Famicom nel 15 Luglio del 1983 in Giappone oscurò del tutto il lanciò del Sega l’SG-1000, lanciato lo stesso esatto giorno. Il Sega SG-1000 era un sistema valido ma semplicemente era una console che non poteva minimamente competere col Famicom: la console era molto simile al Colecovision, più vecchia della controparte Nintendo, e ovviamente presentava caratteristiche più datate, come il sonoro del Texas Instrument SN76489 e l’incapacità di produrre uno scrolling fluido come poi Super Mario Bros. dimostrò. Dopo alcuni restyling con i SG-1000 II e SC-3000, quest’ultimo un vero e proprio computer, Sega capì che non poteva competere contro Nintendo con un sistema inferiore, così la compagnia aggiornò l’hardware della propra console definitivamente e, nel 1985, rilasciò finalmente il Sega SG-1000 Mark III, ovvero il Master System prima in Giappone e poi, l’anno successivo, nel resto del mondo. Il Mark III offriva una CPU, GPU e RAM migliori del modello precedente e ciò significava ben 32 colori visualizzabili da una palette di 64 e un’azione più veloce su schermo; tuttavia la console fu azzoppata drasticamente dal suo chip sonoro che rimase lo stesso per garantire la compatibilità dei giochi del vecchio catalogo in Giappone. Sega, più in là, solo in Giappone, rilasciò l’add-on FM Sound Unit che offriva al giocatore un range di suoni superiori al chip sonoro di base, dunque un suono ben superiore alla controparte Nintendo. La console Sega offriva un catalogo di giochi veramente interessante come Alex Kidd, Wonder Boy, Phantasy Star, Operation Wolf, ma ritagliarsi una fetta in quel mercato dominato da Nintendo era un impresa ardua; in Nord America Nintendo, firmando con le case produttive americane, si assicurava anche l’esclusiva per la propria console lasciando dunque il Master System con i soli Activision e Parker Brothers. La morsa di Nintendo sul mercato nordamericano spinse Sega a puntare su altri continenti, come l’Europa e il Sud America, dove riuscì addirittura a superare il Nes; specialmente in Brasile, il Master System divenne sinonimo di videogioco, e Tec Toy, la compagnia dietro la distribuzione della console, produce tuttoggi la console Sega vendendo approssimativamente circa 100.000 console l’anno. I propositi per una nuova console c’erano e fu su queste conquiste che Sega decise di lanciare una console in grado di superare Nintendo una volta e per tutte.

The peak of popularity

Come già scritto in La Grande Guerra: Sega Genesis vs Super Nintendo, Sega lanciò così nel 1989 il Sega Mega Drive (o Genesis in Nord America), hardware basato sul sistema arcade Sega System 16; in questo modo Sega riuscì a ottenere un vero e proprio vantaggio contro Nintendo. Il nuovo sistema prometteva una grafica superiore al Nes, un migliore sonoro ottenuto dalla sintesi FM, e una giocabilità comparabile alla qualità arcade. Questa fu la prima strategia adottata da Sega per vendere il suo Genesis: portare i titoli da sala giochi a casa e superare il muro che separava il mercato casalingo dal mercato arcade. La strategia all’inizio sembrò andar bene, spinta anche dal fatto che la console, al lancio, fu venduta in bundle con Altered Beast, un gioco arcade niente male e in grado di sottolineare la differenza fra il Nes e il Genesis. Tuttavia i giocatori non erano ancora convinti della nuova macchina a 16 bit di Sega: l’uscita di Super Mario Bros. 3 fece capire a Sega come i giocatori fossero ancora attratti dall’ormai vecchio Nes e, anche se le arcade erano ancora il punto di riferimento tecnologico per la comparazione degli hardware, questi non servivano a nulla se un gioco casalingo, seppur con una grafica mediocre, si rivelava divertente e adatto alle case. Tuttavia, già a questo punto, il Genesis aveva comunque una solida fanbase: nonostante Super Mario fosse insuperabile in casa propria (Giappone), non si può negare che la linea di titoli iniziale del Genesis era comunque competitiva. Non dimentichiamo anche che molte third parties cominciavano a interessarsi alla nuova console Sega per via delle sue caratteristiche superiori e in cerca di nuovi accordi commerciali meno rigidi di quelli di Nintendo; già nel 1989 Capcom mise sulla nuova piattaforma Sega il suo Ghouls ’n Ghosts, sequel di Ghost and Goblin, sorprendendosi della facilità di programmazione sulla console, di quanto fosse bello sviluppare per unmercato casalingo di giochi così simili alle arcade e compiacendosi perciò di quanto fosse buono il loro nuovo accordo con Sega. Il coinvolgimento di molte celebrità sportive, come il pugile James “Buster” Douglas, il giocatore di football Joe Montana, il golfista Arnold Palmer, aveva già attirato a sé una fascia poco considerata nella vita del Nes, ovvero gli appassionati dei giochi sportivi, e sottolineò come il Genesis potesse puntare a una fascia di pubblico più adulta. Michael Jackson: Moonwalker fu uno dei titoli più discussi e diede al Genesis una attitude che la console mantenne per tutto il suo ciclo vitale. La discussione sulla qualità della libreria di titoli rispetto alla concorrente giaceva spesso su un punto morto: il Genesis aveva 16 bit, il Nes solo 8. Con l’assunzione di Tom Kalinske nel 1990 come CEO di Sega of America furono lanciate in TV delle nuove pubblicità aggressive e dirette a Nintendo che miravano a sottolineare l’arretratezza tecnologica del Nes. Il nuovo slogan «Genesis does what Nintendon’t» parlava chiaro e la console si aprì verso quella fascia di pubblico cresciuta sì col Nes, ma che ormai era grande e andava al liceo. Il Genesis poteva dar loro giochi sportivi, giochi d’azione, giochi puzzle, porting dei giochi presenti in arcade, in poche parole giochi adatti alla loro personalità. L’ultima cosa che mancava era una mascotte in grado di poter competere con Mario, icona dei videogiochi e che sembrava essere imbattibile. Kalinske aveva bisogno di un personaggio non solo carismatico ma che rappresentasse anche la cultura giovanile dei tempi e che potesse dare a Nintendo il colpo di grazia. In Giappone Yuji Naka, ispirato dalla propria capacità di completare ripetutamente e velocemente il primo livello di Super Mario Bros, voleva creare un gioco veloce, pieno di azione e mozzafiato. Il personaggio di questo gioco sarebbe stato destinato a diventare la nuova mascotte Sega e, dopo tante bozze, la scelta cadde su un insolito porcospino: gli fu dato un bel colore blu cobalto, una schiena spinosa che si rifacesse le capigliature mohawk in voga in quegli anni, delle scarpette rosse in contrasto con il blu e soprattutto un caratterino frizzante e “figo”. Sonic The Hedgehog incorporò tutti questi aspetti già dal primo titolo, che fu subito messo in bundle con la console: il suo arrivo sul mercato scosse il mondo. Il nuovo bundle del 1991, lanciato  con un price drop visto che la console era già sul mercato da due anni, fu un successo strepitoso e il cammino di Sonic verso la gloria era solo all’inizio. In questo contesto, Nintendo rilasciò il Super Nintendo in bundle con Super Mario World e, anche se non ebbe il successo sperato e molti giocatori erano in favore di Sega, Kalinske sapeva di avere la console più debole, e non voleva assolutamente che il Sega Genesis si rivelasse un fuoco di paglia; così corse ai ripari e tentò di capire come vendere la propria console nonostante concorresse con un’altra più potente. Si decise di far leva sull’unico vero punto a favore del Genesis contro lo Snes, un punto non da poco: il processore di 7.6 MHz contro quello di 3.7MHz dello Snes, e su questo fu costruita tutta la nuova campagna pubblicitaria di Sega. Le nuove pubblicità parlavano di un fantomatico “blast processing”: non era altro che un modo per sottolineare la più rapida velocità di calcolo del Sega Genesis, ma fu una parola così “cool”, studiata appositamente per essere utilizzata fra i giovani durante i dibattiti sulla console migliore senza necessariamente puntare sui fatti matematici, che funzionò. La pubblicità ebbe successo e servì non solo a infuocare il dibattito, ma anche a infuocare la competizione fra le due compagnie, intente a dare il massimo. Nel Gennaio del 1992 ,Sega aveva in mano il 65% del mercato dei videogiochi: per la prima volta Nintendo non era più sovrana del mercato videoludico ma questo servì alla grande N per ripensarsi e prepararsi a stracciare la competizione. Sega, per portarsi un passo avanti, seguì le orme del PC Engine di Nec e, dopo qualche anno sul mercato, lanciò un add-on per i Compact Disc: l’avvento del Sega CD, o Mega CD nel resto del mondo, avrebbe dovuto eclissare una volta e per tutte lo SNES grazie alla capacità superiore del compact disc che poteva offrire ai giocatori dei giochi più grandi e una qualità audio insuperabile. Tuttavia le grosse capacità del Sega CD non furono mai sfruttate veramente al massimo e quello che fu lanciato su Sega CD furono titoli mediocri, punta e clicca da PC (che storicamente non si sono mai adattati veramente bene alle console) e giochi le cui scene in full motion video non finivano mai. Tutto questo, commisto al prezzo addirittura superiore al modello base del Sega Genesis, comportò che il Sega CD vendette solamente 2.24 milioni di unità in tutto il mondo fino al 1996, ma questo fu solo l’inizio per i guai di Sega. Durante questo periodo, la casa nipponica si diede la proverbiale “zappa sui piedi” lanciando il suo ultimo add-on per il Sega Genesis, ovvero il 32X. Questa periferica era solamente un add-on che leggeva delle cartucce più avanzate con grafica a 32 bit e con un processore aggiuntivo; la scelta delle cartucce sembrò essere un passo indietro dopo la spavalda promozione dei CD ma il vero problema fu lanciare il 32X a pochi mesi dal lancio del Sega Saturn, la console Sega per la nuova generazione e già lanciata in Giappone. Persino i fan più sfegatati di Sega decisero che era meglio aspettare la nuova console Sega e lasciare il 32X da parte e così questa periferica, di cui rivenditori dovevano liberarsi per l’arrivo del Saturn, finì per essere svenduta a 20 dollari nel cesto delle offerte; per Sega questo non fu solamente un errore ma anche un vero e proprio motivo di vergogna.

Una console poco convincente

Tuttavia si dice: «anno nuovo vita nuova». Il lancio del Saturn doveva rappresentare un vero e proprio ritorno alla gloria; stessa gloria avuta agli inizi del Sega Genesis e anche al modesto successo del Game Gear, console portatile di Sega lanciata nel 1991 che, fra grossi pregi e qualche difetto (vedi un consumo di batterie molto rapido), offriva ai giocatori una validissima alternativa al Game Boy di Nintendo. Verso la fine del 1994 arrivarono ottime notizie dal Sol Levante: Saturn aveva esaurito le 200.000 unità del lancio al day one, continuando fino a 500.000 unità vendute a Natale per poi arrivare al milione dopo sei mesi; il Sega Mega Drive in Giappone fece solamente 400.000 unità durante solamente il suo primo anno, rimanendo poi in tutta la sua lifespan terza nel mercato 16 bit nipponico (lì, fra Snes e Mega Drive, il PC-Engine di Nec era incredibilmente popolare). Il successo del Saturn era dovuto principalmente alle code interminabili dietro Virtua Fighter nelle arcade, il primo gioco picchiaduro interamente in 3D, e che gettò le basi per altri titoli picchiaduro come Tekken e Dead or Alive. Si potè dire, senza se e senza ma, che in Giappone il lancio fu un vero successo.
Negli Stati Uniti il discorso era ben diverso, in quanto Sega non solo si sarebbe buttata in una competizione infuocata, ma per giunta in un momento di mercato in cui una sua console 32bit era stata lanciata prima del Saturn. Per ottenere un vantaggio sulla neonata Playstation di Sony, Tom Kalinske, dopo la presentazione del Saturn americano durante l’E3 del ’95, lanciò a sorpresa la console annunciando che Saturn era già disponibile nelle catene di Toys “R” us, Babbage’s, Electronic Boutique e Software ETC. Una mossa apparentemente astuta se non fosse stato che, negli Stati Uniti, tante altre catene di distribuzione vendevano i prodotti Sega finendo per escludere le famosissime catene Wallmart e Best Buy; Sega Saturn, pur riscuotendo un buon successo iniziale, risultò dunque difficile da reperire ìm e senza la stessa line-up di titoli giapponesi: negli Stati Uniti arrivarono infatti solamente Virtua Fighter, che con l’uscita di Tekken nelle Arcade perse l’interesse dei giocatori, Daytona USA, che andava abbastanza forte ma che ebbe un port su Saturn visibilmente carente, Pebble Beach Golf Links e Worldwide Soccer: Sega International Victory Goal Edition, due titoli sportivi basati su due sport per nulla giovanili, e infine Clockwork Knight e Panzer Dragoon Saga, unici giochi che avrebbero potuto attrarre il giocatore medio. Nonostante le terribili aspettative, Saturn registrò un iniziale successo, ma i rapporti fra Kalinske e i dirigenti di Sega of Japan non erano più floridi; così Kalinske, l’uomo che portò Sega a ottenere il 65% di market share negli Stati Uniti, lasciò la compagnia in favore di Bernie Stolar. Stolar inizialmente riuscì a ottenere l’esclusività temporale di alcuni titoli ma, non appena questa scadeva, le versioni per Playstation uscivano velocemente e riscuotevano un successo maggiore. Stolar aveva anche notato quale fosse la difficoltà che gli sviluppatori riscontravano quando lavoravano su un qualsiasi titolo: è parere comune dire che il Saturn fosseuna console più tendente al 2D ma, contrariamente a ciò che si può pensare, Sega aveva consegnato una console addirittura più potente della Playstation, con ben 8 processori di cui 2 principali Hitachi da 28.6 MHz che potevano mostrare ben 800.000 poligoni quadrati (a differenza della controparte cui erano triangolari), RAM espandibile fino a 4MB, qualità delle texture e risoluzione video maggiore; tutto ciò veniva però mal utilizzato in quanto molti degli sviluppatori evitavano l’uso del secondo processore principale e dunque ciò generava port azzoppati e una qualità complessivamente inferiore rispetto la controparte Sony; pensate che ancora oggi esistono dibattiti riguardo l’esistenza degli effetti di trasparenza sul Saturn! Ad ogni modo, la console Sega venne piano piano eclissata dalla console Sony, e Saturn, in assenza di una vera killer app, finì per essere messa da parte, persino da Stolar stesso, il quale, all’E3 del 1997, annunciò che il Saturn «non era più il futuro di Sega».
Al di là dei problemi riguardanti lo sviluppo, i problemi di marketing in Occidente erano evidenti in quanto la console era promossa con pubblicità insulse. Non venne inoltre mai consegnato un vero titolo di Sonic che tutti aspettavano, e nulla di ciò che veniva pubblicizzato sembrava attecchire nell’animo dei giocatori; in Giappone, dove la console rimase competitiva e supportata dagli sviluppatori fino al 2000, il marketing era molto curato e le pubblicità della nuova mascotte Segata Sanshiro aiutarono il Saturn a rimanere rilevante durante questo periodo buio; negli Stati Uniti, per evitare il disastro totale, sempre in questo periodo Stolar si assicurò di portare numerosi titoli Sega su PC. In molti diedero la colpa a Bernie Stolar in quanto molti dei giochi del Saturn rimasero esclusive giapponesi (ben l’80% dei giochi non uscirono dalla terra natia) e i fan di oltremare poterono godere di una libreria di titoli non all’altezza della corrispondente nipponica, o furono costretti a comprare i giochi dal Giappone con spese di spedizione da capogiro. La libreria di giochi del Saturn, specialmente quella giapponese, era comunque una libreria veramente varia e giochi come Nights… into Dreams, Guardian Heroes, Shining Force 3, Saturn Bomberman, Panzer Dragoon Saga o Radiant Silvergun hanno oggi ricevuto un cult following senza precedenti. Purtroppo il tutto era aggravato dalla tendenza della grafica 3D e, anche se molti dei giochi 2D del Saturn eranoeccellenti, molti dei titoli rimasti in Giappone non potevano semplicemente competere in un mercato i cui clienti richiedevano principalmente giochi 3D, a differenza del Giappone dove il divario grafico non era così attenzionato. Stolar, per quanto la sua mossa di abbandonare Saturn fu e continua a essere vista oggi da molti come una scelta sbagliata, si sentì costretto ad abbandonare la console per riuscire ad appellarsi a un pubblico più ampio e tenere la compagnia a galla; a quel punto, Sega, le cui finanze non erano nel momento migliore, dovette immediatamente cambiare strategia di mercato e lanciare non solo una nuova console ma rilanciare la propria immagine che nel tempo si era opacizzata, e soprattutto doveva riguadagnare il rispetto che i fan le riservavano ai tempi del Mega Drive.

La luce in fondo al tunnel

All’E3 del 1998 Sega presentò a porte chiuse ciò che venne annunciato come Katana, e i giornalisti e gli sviluppatori invitati alla presentazione dovettero firmare un accordo per non parlare, nei mesi successivi, di ciò che avevano visto in quella stanza. A tempo debito qualcuno scrisse del Dreamcast e i propositi riguardo questa nuova console sembravano eccellenti: grafica mai vista, avanti anni luce rispetto alla Playstation di Sony e al Nintendo 64, e giocabilità senza precedenti. Il design di questa nuova console, di colore bianco e dal controller con 4 tasti frontali e due grilletti dorsali, serviva a tagliare definitivamente col passato e a dichiarare ad alta voce che si era dinanzi a un nuovo inizio. Nel tardo 1998, Dreamcast arrivò in Giappone e, nonostante la sparuta linea dei titoli di lancio, Sega esaurì le scorte in un giorno; negli Stati Uniti invece i fan erano affamati di una nuova console Sega e i preordini del Dreamcast, previsto per il 9 Settembre 1999 per 199.99 dollari (9/9/99 199,99, numeri da far sbizzarrire ogni appassionato di Cabala), superarono addirittura quelli della Playstation al lancio. Dreamcast avrebbe inoltre lanciato il multiplayer online su larga scala, ai tempi esclusivo appannaggio dei giocatori su PC, includendo un modem di 56k attaccato a Dreamcast e una linea di titoli di lancio era più numerosa rispetto a quella giapponese; le premesse per un successo c’erano tutte e il Dreamcast riuscì a ottenere in effetti un inizio spettacolare. Dreamcast ha potuto godere di una delle linee di lancio più belle mai viste nella storia dei videogiochi: i giocatori americani ebbero a loro disposizione titoli come Sonic Adventure, Soul Calibur, Blue Stinger, Ready 2 Rumble Boxing e più in là avrebbero visto alcuni dei più bei giochi di sempre in una console come Jet Set Radio, Resident Evil: Code Veronica, Phantasy Star Online, Shenmue e tantissimi altri. Sega non aveva più l’accordo d’esclusiva con EA per i giochi di sport come durante i primi anni del Saturn, poiché Sega non riuscì a soddisfare le vendite previste per i loro titoli; Dreamcast, tramite il publisher in house Sega Sport, diede il via alla famosa linea di giochi 2K insieme alla Visual Concepts, linea che ancora vive tuttoggi sotto le licenze NHL, NFL, NBA e persino WWE; questi titoli, dal gameplay semplice e accessibile, fecero avvicinare in anche molti casual gamer e Dreamcast, specialmente all’inizio, ebbe un ottimo impatto sia sui giocatori hardcore sia sui casual. Tuttavia, dopo un lancio che sembrava rischiarire il futuro di Sega, Dreamcast si trovò di fronte a tre principali problemi: un marketing ancora non all’altezza, la pirateria e l’imminente lancio di Playstation 2. Dopo il lancio di Dreamcast, le pubblicità in televisione di Sega, sia in America che in Europa, erano pochissime e poco frequenti, e il grosso pubblico rimase in gran parte inconsapevole dell’uscita di questa meravigliosa console; insieme a pochissimi casi isolati, l’unico grande investimento pubblicitario di Sega, specialmente in Europa, fu il concedere lo sponsor a una squadra calcistiche di Serie A, la Sampdoria, una della Premier League, l’Arsenal, una di Liga, il Deportivo de La Coruna, e una della francese Ligue 1, AS Saint-Étienne. Sega si trovò inoltre impreparata di fronte alle copie dei giochi pirata che cominciavano a imperversare dappertutto: essenzialmente, a differenza del Saturn che aveva un sistema di protezione reale, il Dreamcast si cullava esclusivamente sul media esclusivo della console, ovvero il GD, che a differenza del CD poteva contenere 1GB di memoria. Il media era sì introvabile nei negozi a differenza dei CD ma, con l’avanzare della tecnologia dei masterizzatori, le immagini da 1GB dei dischi Dreamcast potevano essere compresse in un normale CD in overburn (ovvero “stringendo” il più possibile la scrittura del disco e far sì che l’immagine entrasse tutta in un disco di 700MB) e Dreamcast era in grado di leggere questi dischi senza nemmeno l’ausilio di un boot disc. In pratica, se si aveva un computer con un buon masterizzatore e anche una buona connessione per scaricare le immagini dei dischi si poteva accedere all’intera libreria del Dreamcast con il minimo sforzo e in maniera del tutto gratuita, senza contare che molti dei pirati aprivano vere e proprie attività in nero basate sulla vendita dei dischi copiati e backup. Dunque, non solo a Sega non arrivavano introiti dalle vendite sia hardware, per la povera pubblicità, che software, per via della pirateria, ma le cose per Dreamcast stavano per mettersi malissimo: nel 1999 Sony annunciò la nuova Playstation 2, console che non solo era tecnicamente superiore a Dreamcast, ma che utilizzava un media ben superiore al GD, ovvero il DVD che di lì a poco avrebbe gettato le basi persino per il mercato home-video. Dreamcast si trovò in pochissimo tempo ad avere i giorni contati e l’unica cosa che Sega poteva sperare era che i fan supportassero la loro console inferiore di fronte al mostro Sony, cosa che in fondo era successa col Mega Drive per il Super Nintendo; il supporto dei fan c’era, ma non era tale da supportare la console di fronte a un mercato ormai del tutto diverso. Inoltre lanciare un add-on per i DVD, come alcuni oggi ribadiscono, sarebbe semplicemente stato ridicolo dopo quanto successo con Sega CD e 32X, dunque una periferica esterna costruita per salvare il Dreamcast era fuori discussione.

Sega si ritirò dal mercato hardware nel 2001 ma i giochi in Nord America e Europa continuarono a uscire ufficialmente fino al 2002, e in Giappone addirittura fino al 2007. In realtà l’avventura di Dreamcast si può ancora dire non conclusa: infatti diversi sviluppatori, come i tedeschi NG.DEV.TEAM, continuano tuttora a rilasciare giochi per l’ormai defunta Dreamcast; l’ultimo titolo per Dreamcast (anche se non ufficiale) è a oggi NEO XYX, uscito nel 2014. Su Dreamcast Sega puntò tutto quello che aveva, sperando fosse la console che avrebbe portato la casa nipponica in auge ancora una volta: nonostante tutti i buoni propositi e un lancio strepitoso, la console divenne il canto del cigno ma Dreamcast è a oggi ricordata come una delle console più belle mai realizzate.     

Il nuovo volto di Sega

Finita dunque l’avventura nel mercato hardware, Sega pose la sua nuova identità come publisher. Inizialmente l’idea era quella di proporre a Microsoft – visto che era stata realizzata la versione per Dreamcast di Windows CE per navigare in internet – di rendere compatibile la loro macchina d’imminente uscita, la Xbox, con i giochi del Sega Dreamcast ma l’idea fu scartata; tuttavia Microsoft annunciò al Tokio Game Show del 2001 un accordo che vedeva ben 11 esclusive Sega per la nuova console Microsoft quali Panzer Dragoon Orta, Jet Set Radio Future, Sega GT, Shenmue II (che negli Stati Uniti non arrivò ai tempi del Dreamcast) e molti altri. Sega strinse inoltre ottimi rapporti con Nintendo, assicurando più in là alcune esclusive per Gamecube e l’unione con quest’ultima e Namco per la creazione del sistema arcade Triforce che diede i natali a F-Zero AX, Mario Kart Arcade GP e Mario Kart Arcade GP 2. La grande S a oggi non vuole solamente essere l’ombra di ciò che era un tempo: infatti, anche dopo la fine di Dreamcast, Sega si è messa all’opera per la creazione di tante nuove IP come Yakuza, Super Monkey Ball, Vanquish, Valkyria Chronicles, o come publisher per giochi come Hell Yeah! Wrath of the Dead Rabbit, Football Manager e molte altre. A oggi Sega è in perfetta salute finanziaria e un ritorno al mercato hardware, vagheggiato da molti nostalgici, rappresenterebbe una follia; l’unica parentesi che Sega ha avuto nel mercato hardware dopo Dreamcast (e questa è una vera chicca per gli appassionati più estremi) è stato il Sega Vision, un lettore multimediale di 2GB in grado di leggere MP3, MP4, filmati AVI, immagini e persino e-book, ma bisogna essere veramente fortunati ad aggiudicarsi una di queste macchine perché, andando in Giappone, si potranno trovare queste unità all’interno di quelle odiosissime macchine della pesca fortunata (quelle con l’artiglio metallico)… e sempre se nel 2018 saranno ancora al loro interno! Inoltre, anche se questo non riguarda Sega direttamente, la AT Games produce ancora un sacco di prodotti relativi al Mega Drive e Master System, come il recente Sega Genesis Flashback che offre sia 85 giochi al suo interno che uno slot per le cartucce originali; il tutto con un superbo up-scaling in HD. L’inarrestabile popolarità di Sonic e l’uscita di titoli come Sonic Mania e i giochi della serie Sega Forever stanno a testimoniare l’impatto che Sega ha avuto nel mercato mondiale e che i giocatori di tutto il mondo non hanno mai dimenticato il gigante Sega neanche per un secondo.