GamePodcast #12 – Da Epic Games Publishing al Mercato Videoludico al tempo del Covid-19

Nella puntata di oggi:
Epic entra nel mondo del publishing. Sarà rivoluzione?;
– Recensione di Daemon X Machina (Versione Steam);
– Il Mercato Videoludico alza la Cresta;
Tutto questo in compagnia di Marcello Ribuffo, Gero Micciché e Andrea Rizzo Pinna
Armatevi di auricolari e restate con noi!
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Cosa Stiamo Giocando!? (02/04/2020)

In questa rubrica dedichiamo tempo a cosa stiamo giocando in questi giorni, discutendo di titoli freschi di stampa o con qualche mese alle spalle.
In questa puntata:
Metro Exodus;
Keep Talking and Nobody Explode;
Daemon X Machina;
Star Wars: Il Potere della Forza II.
Tutto questo in compagnia di Marcello Ribuffo, Dario Gangi e Andrea Celauro.
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GamePodcast #7 – Dagli State of Play ai Game Awards

Una settimana strapiena di eventi:
State of Play e il trolling;
Game Awards: chi ne ha azzeccati di più?
– Game Awards: ci sono piaciuti o no?
– Cosa stiamo giocando?
Tutto questo in compagnia di Marcello Ribuffo, Gabriele Sciarratta e Dario Gangi.




GamePodcast #5 – Dai Pronostici sui Game Awards al disastro Google Stadia

In questa puntata:
– I nostri pronostici sui Game Awards 2019;
– I titoli presentati ai Game Awards;
Google Stadia e i suoi problemi;
– Dove andrà il futuro del videogame?
Tutto questo in compagnia di Marcello Ribuffo, Gabriele Sciarratta e Dario Gangi.
Armatevi di auricolari e restate con noi!




Star Wars Jedi: Fallen Order – Il Lato Grigio della Forza

Manca poco alla conclusione della nuova trilogia di Star Wars ma in qualche modo il brand trova sempre nuovi sistemi per tenersi in vita. Basti pensare alla nuova serie Disney+ The Mandalorian, con protagonista Pedro Pascal o, in tema videoludico, al nuovo lavoro di Respawn Entertainment Jedi Fallen Order. In questo contesto, il brand del fu Guerre Stellari ha vissuto di alti e bassi, finendo nell’ultimo periodo in discussione tra titoli dimenticabili e progetti cancellati: Star Wars 1313 e il progetto di Visceral Games sono solo due degli esempi in tal senso ed è interessante come il lavoro capitanato da Stig Asmussen, sia riuscito a sopravvivere sino all’uscita. Electronic Arts ha creduto al progetto, che vanta probabilmente una delle peggiori presentazioni della storia all’E3 2018, in cui Vince Zampella (Co-fondatore dello studio) presentò il titolo semplicemente citandone il nome, e nient’altro. Ma Star Wars Jedi: Fallen Order è ora tra noi, tra mille sorprese e qualche perplessità che a mano a mano sviscereremo.

Nella notte più profonda…

Ambientato quindici anni dopo l’Ordine 66, che eliminò quasi totalmente i Jedi dalla Galassia per opera del nuovo Impero, il titolo Respawn ci catapulta in una storia che non brilla certo per scrittura ma comunque godibile, trovando spazio nell’intricato universo espanso. Cal Kestis è dunque il protagonista, un giovane con abilità Jedi (fortunatamente Disney non c’entra nulla) alla ricerca del proprio passato e del proprio destino. Seguirà dunque un’avventura sparsa tra diversi pianeti, braccati dall’onnipresente Impero Galattico e dall’Ordine degli Inquisitori, creato appositamente per estinguere ogni traccia del lato chiaro della Forza.
Il problema principale di Jedi Fallen Order sta essenzialmente nella prima ora e mezza di gioco in cui tutto, dalla narrazione a molti elementi di gameplay faticano a uscir fuori, dando l’impressione d’esser privo di qualsiasi mordente. Fortunatamente, con un po’ di pazienza, l’avventura di Cal Kestis comincia a prender forma, seguendo a grandi linee il percorso di un certo Luke Skywalker: capire se stessi e il proprio posto non solo è la chiave che farà maturare (e rendere più interessante) il protagonista ma getterà nuova luce sui Jedi superstiti e alla lotta serrata contro il Lato Oscuro. Se, dunque, Cal Kestis può vantare una discreta maturazione e carisma, altrettanto si può dire dei comprimari (forse più accattivanti) e del piccolo droide ormai amico dei bambini BD-1, mascotte non solo essenziale per la narrazione ma, come vedremo più avanti nel gameplay. Ovviamente anche i villain di turno trovano un certo spazio, a cominciare dalla Seconda Sorella degli Inquisitori e qualche sorpresa che i fan di Star Wars apprezzeranno sicuramente. Anche perché, diciamocelo, di fan service il titolo è pieno ma sempre utilizzato con criterio. Come la nuova trilogia cinematografica ci ha insegnato, non basta gettare nella mischia un cast di personaggi storici e intrinsecamente carismatici per aumentare il valore di un’opera. La direzione di Stig Asmussen, che ricordiamo, è il papà di God of War III, ha reso Jedi Fallen Order un titolo con una sua identità e ben calata nel contesto creatosi tra Episodio III ed Episodio IV, vantando la diretta collaborazione di Lucas Arts e il suo team preposto al controllo della continuity con tutte le opere esistenti. Ne consegue dunque un titolo apertamente indicato a tutti gli amanti della saga, che troveranno numerosi riferimenti al franchise ma senza diventare mai melenso. Per chi non ha mai visto una spada laser in vita sua, potrebbe lasciar passare in secondo piano il contesto narrativo in favore di meccaniche magari già viste ma ben implementate.

Uno Jedi Shinobi… sulla carta

Se a primo acchito può venir in mente Il Potere della Forza con protagonista StarKiller, pad alla mano ci si accorge che di quel gioco non vi è alcuna traccia. Evidentemente Sekiro: Shadows Die Twice ha portato un nuovo modo di affrontare gli action/adventure e la sensazione di aver a che fare con un suo diretto discendente è molto forte. Ma tagliamo la testa al toro: il combat system di entrambi i titoli non sono minimamente paragonabili. In generale il lavoro di Respawn, da questo punto di vista, risulta meno rifinito, andando a discapito di moveset e precisione. Sì perché una delle cose che salta subito all’occhio è un tempo di risposta del comando della deflezione o comunque della parata meno preciso rispetto al suo papà giapponese oltre a un sistema di tracking che raramente permette l’aggiramento o schivate all’ultimo istante. L’avversario sembra quasi essere calamitato al protagonista, riuscendo a colpire in quasi tutte le direzioni. Questo fa un po’ storcere il naso perché il sistema generale di combattimento funziona, risultando anche appagante in certi frangenti. Quello che manca è il cosiddetto “passo in più” che consiste in una manciata di animazioni di supporto in modo da aumentare le possibilità di approccio in combattimento. Anche quando avremo nuove abilità dalla nostra fedele spada laser non potremmo mai veramente costruire combo concatenando le diverse abilità, diventando un balletto fatto di “spam” del tasto X e talvolta Y (quadrato e triangolo su PlayStation), sfruttando ovviamente i poteri della Forza.
Tutte queste abilità vengono sviluppate attraverso un classico “albero” in cui è possibile acquisirle tutte in una sola run. Ma da qui nasce un piccolo qui pro quo. Osservando tutte le abilità presenti, il nostro modo di agire, non si può non notare come le nostre azioni siano ben lontane da quelle proposte finora in un Jedi. Non c’è modo di girarci intorno: Cal Kestis è uno stermina Impero, un “vedovatore” di soldati, distruttore della fauna locale. Tutti i poteri a disposizione sono squisitamente offensivi e la barra che indica la Forza a nostra disposizione si ricarica colpendo o eliminando il nemico. Ovviamente il contesto è quello di un gioco d’azione e Cal Kestis è costantemente in pericolo, ma in qualche modo le nostre azioni sono comunque più vicine a quelle di un Sith che un vero e proprio Jedi.
Ma passando oltre, fortunatamente oltre al menare le mani c’è di più, e questo di più si chiama esplorazione: in qualche modo Respawn è riuscita a creare mappe molto aperte in un sistema che ricorda sicuramente i vari “metroidvania” ma anche la struttura dell’ultimo God of War: mappe ampie in diversi luoghi separati. Quello che ci troviamo di fronte dunque, è un titolo aperto che spinge il giocatore a cercare potenziamenti e segreti sparsi per le mappe, alimentando un codex in grado di non solo di approfondire quanto narrato ma anche di migliorare l’intero contesto. L’utilità del droide BD-1 la si scopre soprattutto in questi frangenti dove, con opportuni potenziamenti, il robottino sarà in grado di hackerare, migliorare le possibilità di movimento di Cal Kestis nonché di riuscire a guarirlo con gli Stim. Inoltre, è anche in grado di proiettare in maniera attiva l’intera mappa olografica della zona, estremamente utile per capire cosa rimane da esplorare. Ma quello che colpisce maggiormente è il level design, costituito da diversi percorsi, scorciatoie e anfratti segreti che enfatizzano le fasi platform e puzzle, che avvicinano il titolo – seppur con la dovuta cautela – alla serie Uncharted.
Prima di passare in rassegna l’altalenante comparto tecnico, c’è da segnalare un altro dettaglio: i punti di controllo su cui il protagonista può meditare, permettendogli di riposare, potenziarsi e rigenerare il numero di Stim del droide, apre un altro piccolo disappunto una volta comparso l’avviso indicante la riapparizione di tutti i nemici sconfitti. Se da un lato si capisce l’esigenza di gameplay, funzionando come veri e propri falò “soulsiani” tranne che non ci può teletrasportare tra di essi, dall’altro si avverte come questa meccanica sia assolutamente priva di senso e nemmeno contestualizzata. Perché il riposo dovrebbe far resuscitare tutti i soldati imperiali uccisi dalla nostra lama laser non ci è dato saperlo. Non è certo la prima volta che accade ovviamente: in tutti i titoli che traggono ispirazione dai lavori di Miyazaki vi è sempre questo stesso elemento, più o meno contestualizzato in base alla direzione narrativa intrapresa dal gioco. Ma qui è diverso. Nel contesto pluri-decennale di Star Wars, è una meccanica fuori luogo e lontana anni luce da quanto abbiamo visto, sentito, letto finora. Non basta prendere una meccanica semplicemente perché è funzionale: il genio di un team di sviluppo sta anche nel capire come adattare in contesti diversi qualcosa che sulla carta non ha il minimo collegamento.
Così come purtroppo le personalizzazioni estetiche fine a se stesse che consistono in skin per la Mantis (la nostra nave) e BD-1, oltre che per spada laser e Cal. Sono elementi, soprattutto quando si parla della nostra arma, che purtroppo non aggiungono nulla, nemmeno mezza caratteristica. È chiaro come negli ultimi anni siamo abituati a una certa “rpgzzazione” di quasi tutti i titoli presenti, ma in questo caso – e visto il contesto – è una mancanza che fa storcere il naso, dando addirittura l’impressione che non si abbia avuto il tempo di implementare queste possibilità.

È pur sempre la prima volta

Star Wars Jedi: Fallen Order è uno dei titoli che si discosta dalla volontà di Electronic Arts di sviluppare qualunque franchise sotto la potente ala del Frostbite Engine. Sviluppato dunque su Unreal Engine 4, motore ormai affidabile ed estremamente diffuso, il lavoro di Respawn mostra il fianco a qualche incertezza: nonostante l’impatto sia assolutamente di primo ordine, quasi di stampo cinematografico, numerosi sono i bug che infliggono il titolo, soprattutto nelle fasi di esplorazione. Cal Kestis sembra fin troppo spesso una marionetta in balia del caso, mancando semplici appigli, precipitando nel vuoto cosmico così come i nemici, compenetrati all’ambiente e persino esplosi, con mesh un po’ qui e un po’ la. Quello che manca è un evidente pulizia finale del codice che purtroppo alle volte crea alcuni problemi di avanzamento. Tralasciando questo aspetto però, Jedi Fallen Order è un titolo assolutamente godibile, vantando un’ottima realizzazione del cast e di tutti gli ambienti anche se è un peccato la mancanza di una reale varietà in assenza di ambienti urbani, ad esempio.
Interessante è poi la scelta stilistica di non mostrare interfaccia di gioco a schermo, demandando il controllo della salute ai led di DB-1, sempre sulle spalle del protagonista. Questo espediente, che ricorda tanto quanto visto in Dead Space di Visceral Games, riesce ad aumentare ancor di più la ricerca verso una visione cinematografica dell’opera, facendo comparire ciò che serve solo quando è opportuno.
Dal punto di vista sonoro, impeccabile è la riproposizione dei suoni classici della saga, oltre a musiche che riarrangiano non solo temi classici ma che riescono a proporre qualcosa di nuovo con brani calzanti nelle boss fight e d’accompagnamento (quasi goliardico) durante le fasi d’esplorazione, quando potremmo essere facilmente fatti a pezzi qualunque bestia sul nostro cammino. Divertente.
Il titolo si presenta completamente localizzato in italiano, in cui il doppiaggio esegue un lavoro di tutto rispetto mostrano tutti i lati caratteriali dei personaggi, con il giusto tono e senza mai commettere scivoloni. Ma c’è da dire che la versione originale (inglese), riesce a trasmettere qualcosa in più, soprattutto per l’utilizzo degli attori reali in fase di motion capture nella realizzazione delle cutscene.

In conclusione

L’unico sopravvissuto dei progetti Star Wars lanciati da Electronic Arts si mostra come una delle più convincenti sorprese dell’anno nonostante alcuni problemi che possono risultare limitanti per giocatori più esigenti. Si posiziona tra i migliori titoli dedicati al franchise negli ultimi anni, aprendo la strada a futuri sequel e magari alla “speranza” di rivedere sulla scena alcuni dei progetti abbandonati anzitempo. Star Wars Jedi: Fallen Order ci mette un po’ a carburare, ma superato l’impatto iniziale riesce a regalare ottimo intrattenimento soprattutto ai fan duri e puri di una delle saghe più apprezzate della storia.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10




The Outer Worlds – Più Vero del Vero

Dopo tante ma veramente tante ore di gioco, allontanarsi dal Sistema Alcione in maniera semi-definitiva lascia un velo di nostalgia. The Outer Worlds è dunque un’esperienza riuscita sotto tanti punti vista, una scommessa quella di Obsidian non solo vinta, ma anche capace di dimostrare come lo studio è ancora in grado di dire la sua nel genere.

Come una Matrioska

Tra circa trecento anni, l’essere umano ha già colonizzato numerosi mondi, tra cui il sistema solare di Alcione, centro su cui ruoteranno le innumerevoli vicende del titolo. The Outer Worlds non perde certo tempo: sin da subito il tono della narrazione è scandito da un umorismo raro di questi tempi, a partire dal dottor Phineas, vero mattatore del titolo. Ma è tutta l’atmosfera a mostrare segni di ilarità, già dalle descrizioni delle “classi” capaci di strappar già qualche risata. La scelta se intraprendere una carriere da ascensorista, cassiere o giardiniere, oltre a garantire un bonus passivo è in grado di mostrare le reali potenzialità del gioco dal punto di vista narrativo. È vero, si ride e si scherza, ma quando c’è da fare sul serio è il black humor a prendere il sopravvento. Il Sistema di Alcione è governato da una serie di Corporazioni differenziate da una diversa visione del rapporto tra l’uomo e il lavoro. Ma è il Consiglio che detta legge, mettendo l’efficienza sul lavoro al primo posto delle priorità. Capiterà spesso di aver a che fare con il “personale” del Consiglio ed è qui che The Outer Words spalanca le porte del suo essere, amalgamando perfettamente narrazione e un umorismo sempre sul pezzo, in grado di accentuare la follia e disumanizzazione della maggior parte dei coloni di Alcione. Il lavoro è al primo posto, anche rispetto all’amor proprio; ne consegue un’alienazione totale di molti NPC, alcuni capaci di comunicare solo attraverso slogan pubblicitari. Ovviamente non tutti i cittadini vedono di buon occhio una simile situazione: il nostro risveglio dalla situazione di stasi criogenica a opera del dottor Phineas ci catapulta in una lotta di classe e corporazioni con, sullo sfondo, qualcosa di cui nessuno deve essere a conoscenza.
Il nostro viaggio comincia qui, accompagnati da ADA, l’intelligenza artificiale dell’Inaffidabile (la nostra nave) e un gruppo di comprimari che via via ci accompagneranno tra i pianeti del sistema stellare. La solida scrittura di Obsidian si nota anche grazie ai nostri compagni, tutti con un proprio background capace di ricordare a grandi linee la profondità di Mass Effect: da Parvati al Vicario Max, ogni personaggio possiede una propria etica e qualche scheletro nell’armadio che, qualora volessimo, potremo aiutare a tirar fuori risolvendo situazioni spinose. Ma non pensate per forza a storie struggenti e strappalacrime: la forza del titolo è quella di non prendersi mai sul serio se non serve e molto spesso, l’ilarità di certe situazioni vi strapperà di sicuro un sorriso o perché no, una sana risata.
La struttura in ogni caso ricalca quella di Fallout: New Vegas, con un mondo costituito dalle varie fazioni a cui potremmo aderire o meno in base agli incarichi svolti. Anche in questo caso il tutto funziona abbastanza bene, cercando di trovare sempre il bilanciamento perfetto tra simpatia e vantaggi usufruibili da tutte le corporazioni e non. Tutto è molto “grigio”: nessuno è depositario della verità, nessuno è considerabile realmente buono; tutto dipende dal vostro punto di vista e dalla vostra visione del mondo. The Outer Worlds è per l’appunto un test politico e sociale dove gli utenti si troveranno faccia faccia con scelte esistenti nel mondo reale, dirette grazie ai dialoghi ma, soprattutto, un po’ come il nuovo Prey, con scelte invisibili, dettate dalla vostra condotta etica in quel di Alcione. È bene dunque ricordare che nulla è lasciato al caso: tutto ha delle conseguenze, e non basta aspettare le fasi finali per accorgersene.

La forma segue la funzione

Inutile girarci intorno: il feeling più immediato con cui fare dei paragoni è indubbiamente la serie Fallout, di cui Obsidian sviluppò uno spin-off, denominato New Vegas. Questo gioco, datato 2010, pur rimanendo familiare dopo l’uscita del reboot Bethesda, presentava diverse migliorie, tra cui l’introduzione di una serie di fazioni pronte a darsi battaglia per il controllo della Diga di Hoover, l’unica rimasta in funzione dopo l’olocausto nucleare. Rispetto a Fallout 3, New Vegas mostrava un mondo estremamente vario, ricco e maturo, sia nella costruzione degli ambienti che nella caratterizzazione narrativa di mondo e personaggi.
Tutta quell’esperienza, con l’aggiunta del lavoro svolto con Pillars of Eternity, trova compimento in The Outer Worlds: ogni elemento strutturale di gameplay è ampiamente riconoscibile, in cui non si è cercato di innovare ma piuttosto di portare qualcosa che funzionasse a dovere, esaltato dal contesto narrativo. Se di questo abbiamo già discusso, è il modus operandi a là Fallout che colpisce. Perché diciamoci la verità: funziona molto meglio dell’originale.
Lo stampo principale è ovviamente quello di un RPG, in cui trovare, riciclare e potenziare le risorse a nostra disposizione non è che la punta dell’iceberg della produzione. Già dalla buona possibilità di personalizzazione del nostro alter ego, con l’attivazione di bonus passivi e attivi, a colpire è la consapevolezza e padronanza del genere da parte di Obsidian, in cui tutto sembra esser nel posto giusto, con una funzione specifica di ogni dettaglio, senza inutili frivolezze stilistiche. Chi ha giocato degli RPG si sentirà a casa e chi non ha mai affrontato il genere sarà comunque ben accolto. Dove Obsidian ha cercato di far qualcosa di diverso è nella gestione di bonus e malus passivi: nel corso delle battaglia, nel caso in cui tutto non sia esattamente filato liscio, si svilupperà una debolezza (Fobia), quasi fosse un trauma, verso una particolare tipologia di arma, danno o nemico. Questa è un’introduzione interessante in quanto porta una variazione nell’accumulo d’esperienza: non tutto ciò’ che affrontiamo porta necessariamente a un miglioramento…
Altro fulcro dell’opera non poteva che essere la fase shooting, che purtroppo non riesce mai restituire dei reali feedback “maschi”. È chiaro che non ci si aspetti un lavoro targato id Software da questo punto di vista, e in effetti siamo ben lontani da quel tipo di feeling, eppure, nel suo essere discreto si lascia ben giocare. Con qualche miglioramento investendo i nostri punti esperienza, lo shooting andrà via via divenendo più concreto ma senza mai appagare a pieno: le numerose bocche da fuoco, suddivise per tipologia, potenza e tipo di danno inflitto (oltre che contornate da una descrizione spesso esilarante) mostreranno pochissime differenze se non nel rateo di fuoco. In ogni caso, basta poco per trovare il set di quattro armi adatte a noi, senza contare quelle corpo a corpo, forse ancor più deludenti di quelle da fuoco. Nonostante risultino spesso efficaci, difficilmente restituiscono il giusto peso o il giusto impatto, dando la sensazione di colpire molto spesso l’aria. Evidentemente la posizione delle hitbox è leggermente a là René Ferretti, inficiando sulle sensazioni fornite dagli scontri. Forse è proprio la gestione della fisica a spegnere un po’ gli entusiasmi. Ma a venirci in aiuto – per così dire – vi è la cosiddetta Dilatazione Tattica del Tempo, un sorta di bullet time che trova – incredibilmente – anche contesto narrativo. Questo espediente aiuta molto gli scontri a fuoco, in maniera del tutto similare allo S.P.A.V. di Fallout anche se meno rifinito.
Qualora non vogliate andarvene in giro da soli per il Sistema di Alcione, in pieno stile Mass Effect, potrete essere scortati da due dei sei compagni che potranno accompagnarvi nel corso dell’avventura. C’è subito da dire che la loro I.A. non è per nulla male: qualora non dessimo ordini diretti sapranno attaccare o trovare riparo in maniera del tutto autonoma (il più delle volte) cercando di aggirare il nemico in caso di possibilità. Gli scontri dunque, soprattutto con grossi gruppi di nemici, diventano un “cerca e distruggi”, soprattutto una volta che i nostri compagni scateneranno tutto il loro potere attraverso un colpo speciale (unico per ognuno dei compagni) e con un equipaggiamento di un certo livello. Come buon RPG insegna, se dotati della giusta pazienza e attenzione, diventare delle macchine di morte inarrestabili può essere un obbiettivo facilmente perseguibile, contando anche di numerosi potenziamenti applicabili alle nostre armi.
Chiaramente non di solo fuoco si vive: tutte le caratteristiche presenti risultano utili, adattandosi a qualsiasi tipo di giocatore. Questo perché essenzialissime il lavoro di Obsidian è incentrato prima di tutto sulla libertà d’approccio, dallo stealth (anche se necessita di qualche rifinitura), alla retorica, probabilmente vero Deus ex Machina del titolo. Come detto, la narrazione e la scrittura svolgono un ruolo chiave e sviluppare caratteristiche in grado di valorizzare la nostra “parlantina” è un buon modo per risolvere questioni senza nemmeno sfoderare le nostre armi. In poche parole, è possibile terminare The Outer Worlds senza nemmeno sparare un colpo.

Quasi come da tradizione

Dove The Outer Worlds mostra un po’ il fianco è nel comparto tecnico, appena discreto considerato il contesto attuale. Nessun modello poligonale risulta veramente dettagliato e nemmeno texture e shader riescono a salvare la situazione, risultando spesso “sporche” e a bassa risoluzione. Tutta via, complice un buona direzione artistica, il colpo d’occhio generale risulta più che piacevole: ogni pianeta del sistema possiede una propria identità, contornato da flora e fauna unici anche se, da questo punto di vista si poteva fare sicuramente di più. Il design degli avamposti, creature, navi stellari, richiama la classica fantascienza degli anni cinquanta e sessanta fatta di ingenua semplicità ma in qualche modo plausibile pur essendo ambientata a qualche secolo di distanza. Purtroppo la versione PC è affetta da qualche problema di frame rate, pop-up delle texture ma nulla di paragonabile alla produzioni Bethesda (purtroppo punto di riferimento negativo del genere).
La soundtrack, composta da brani richiamanti l’epoca descritta poc’anzi, accompagna tutte le fasi proposte dal titolo, facendosi a tratti goliardica come tragicamente seria o disturbante quando è richiesto. Il doppiaggio, rigorosamente in inglese con sottotitoli, è uno dei punti di forza del titolo, riuscendo a restituire con forza personaggi sopra le righe ma mai fuori luogo, tutti perfettamente in parte. I toni delle affermazioni, il sarcasmo o una semplice battuta tagliente sono davvero ben resi, restituendo personaggi verosimili.

In conclusione

A conti fatti, The Outer Worlds è un’opera di tutto rispetto, capace di intrattenere come pochi. Obsidian ha vinto la sua scommessa, portando un titolo complesso in cui spiccano narrazione e contesto, contornati da un gameplay magari non innovativo ma ricco di sostanza. A patto di qualche piccolo inciampo dunque, l’ultima opera dello studio californiano è una delle migliori di questo 2019, ponendo un’ottima base su cui –probabilmente – verranno sviluppati dei sequel.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
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GRID – Quanta fretta, ma dove corri?

Sono passati più di dieci anni dall’arrivo di Race Driver: GRID, evoluzione della serie TOCA, pietra miliare dei racing game. Il titolo funzionava molto bene, portando su tutti i nostri schermi l’ormai classico riavvolgimento temporale e una struttura della carriera che tanto ricordava la storica serie Gran Turismo. Con l’originale GRID dunque, Codemasters si riconfermava come una delle poche software house a restituire agli appassionati la gioia del guidare digitale ma, con i successivi capitoli, qualcosa cominciava a scricchiolare. GRID 2 segna il passaggio della serie alla sponda dei racing arcade e con il successivo Autosport a un ritorno, in qualche modo, allo stile di guida originale. Tutto questo ha gettato confusione negli appassionati, accomunati tutti da una sola domanda: che cos’è GRID? Il nuovo capitolo, che potremmo definire remake dell’originale, vanta alcune caratteristiche interessanti, eppure qualcosa non quadra. Come novelli archeologi digitali, cercheremo di scavare a fondo per trovare la verità, rispondendo alla domanda fondamentale.

… Con la partecipazione di Fernando Alonso

Partiamo da un fatto: quando punti a restituire le sensazioni dell’originale GRID, sviluppando il titolo col due volte Campione del Mondo di Formula 1 Fernando Alonso, qualche aspettativa comincia a crearsi. Le sbandate (volute) con il secondo capitolo e Autosport, riecheggiano ancora tra gli appassionati, orfani di un titolo capace di colmare il vuoto tra gli arcade puri e i semi-simulativi.
Il nuovo GRID ritorna a una struttura decisamente più classica, con l’intera esperienza suddivisa in tanti piccoli campionati (alcuni molto simili tra loro) a difficoltà sempre crescente, con l’obiettivo finale di entrale nella lega definitiva: la Grid World Series.
Le sei discipline presenti spaziano da Touring Car, Time Attack, Classe GT e Prototipi fino alle Formula, dove potremmo saggiare anche le doti della Renault R26, Formula 1 che aiutò Alonso a vincere il campionato 2006. Proprio dalla visione delle classi e delle vetture presenti, si capisce subito come l’intento di Codemasters sia quello di concentrare tutta l’attenzione del giocatore sulle gare in pista, senza particolari distrazioni, notando un certo sbilanciamento verso “muscle car” americane e qualche auto mutuata dai precedenti capitoli. Nessuna auto stradale è presente in questo titolo, puntando direttamente alle corse; il che ci da già un primo indizio: forse più che il nuovo GRID, questo non è altro che GRID: Autosport 2. Ma andiamo avanti.
Oltre la Carriera, abbiamo a disposizione una modalità Gioco Libero, che in fin dei conti tanto libera non è: di fatto, possiamo guidare solo auto acquistate durante la Carriera, salvo alcune eccezioni in cui è possibile “affittare” il veicolo per una sola gara. Ma oltre questo, poco più, con classica modalità Multiplayer che molto spesso prende le sembianze del Destruction Derby.
Cosa abbiamo dunque: un titolo senza fronzoli a cui interessa solo portarci in pista. Bene, ma benché la varietà non manchi, almeno per quanto riguarda la carriera, tutto il contorno in qualche modo non riesce a colpire, rischiando di finir ben presto nel dimenticatoio. Ma oltre la domanda sulla vera natura di GRID un’altra sorge spontanea: qual è stato il vero ruolo di Fernando Alonso?

Ti conosco, mascherina!

Scesi finalmente in pista, notiamo subito qualcosa di strano: per chi di voi abbia guidato almeno una volta nella vita un Go-Kart, sa benissimo che cercare le giuste traiettorie per sfruttare una leggera derapata è una delle chiavi del successo. Ecco, GRID ricorda tanto i Go-Kart: non importa su quale auto poggeremo il sedere, lo stile di guida sarà il medesimo per ogni categoria di vetture, con minime variazioni sul tema. Questo è il peccato più grande del lavoro di Codemasters: nessun’auto riesce a regalare particolari emozioni e quando non si sente l’esigenza di utilizzare la visuale interna, evidentemente c’è qualcosa che non va. Quindi, possiamo appurare che siamo lontani dal titolo originale, ma in qualche modo anche dal precedente Autosport.
A venirci incontro arriva però la tanta decantata intelligenza artificiale e il sistema Nemesi, in grado di creare vere e proprie rivalità con i piloti avversari. Ma anche l’I.A. mostra alle volte alcuni cenni di carenza di quoziente intellettivo e il Nemesi diventa molto spesso un “processo alle intenzioni”. Ogni qual volta urteremo con una certa veemenza un avversario, questi ci darà letteralmente la caccia, a suon di vendetta. Se sulla carta questo sistema può aver il suo perché, ricordando alla larga il duo Vettel-Hamilton in Azerbaigian 2017, a conti fatti si dimostra fallace e molto spesso scorretto, anche perché capiterà spesso di venire a sportellate con qualcuno. Questo fa pendant con un buon sistema di danni, sia meccanici che estetici, in grado di esaltare il contesto da guerriglia pistaiola. Questo perché essenzialmente il nuovo GRID è un gioco “sporco”, dove la guida pulita ha poca importanza, come del resto la manciata di impostazioni dedicate al setup della vettura. Le gare sono dunque delle battaglie e in qualche modo, divertono: GRID è assolutamente diverso dagli altri racing game, in cui vincere è l’unica cosa che conta ma non perché è richiesto dal gioco (basta arrivare tra i primi tre), ma perché ogni gara sembra prendere le sembianze della Selezione Naturale di Darwin: chi vince ha maggiore probabilità di evolversi, acquistando vetture sempre più performanti e sbloccando nuove livree da indossare e personalizzare. Anche questo aspetto purtroppo passa in secondo piano, con una scarsa possibilità di personalizzare il proprio team, tralasciando nome e compagno di squadra, che potremmo ingaggiare scegliendo tra le varie caratteristiche interessate. GRID dunque è tutto quì: una serie di gare in cui divertirsi senza fronzoli.
Possiamo dunque rispondere alle due domande, tenendoci la più importante per ultima. Intanto, qual è stato il ruolo di Fernando Alonso? Uomo immagine, ne più ne meno. È altamente improbabile che la sua consulenza abbia portato a un titolo in cui buttar fuori l’avversario sia l’andazzo giornaliero. Ma allora perché non ingaggiare Pastor Maldonado!?

Bello e possibile

L’Ego Engine è in pieno spolvero, mostrandosi perfettamente ottimizzato anche con risoluzioni elevate. A 4K, settaggi massimi, il titolo tiene botta a 60fps, calando solamente nelle situazioni più concitate e durante la pioggia, davvero ben resa. Ogni modello è ben realizzato sino ai più piccoli particolari, anche se, non bisogna aspettarsi i dettagli presenti in titoli più blasonati. Di questo ci si accorge soprattutto sulle Formula, vetture a ruote scoperte che lasciano intravedere parte della loro struttura interna, fin troppo “statica”: non vedremo mai ammortizzatori comprimersi o movimenti meccanici, risultando a conti fatti, un titolo d’altri tempi. Ma poco importa quando il colpo d’occhio generale è davvero suggestivo, regalando delle piccole cartoline in cui si vorrebbe scendere dall’auto per gustarsele a fondo.
Sul fronte audio non ci sono grosse novità, con campionamento dei motori molto simile alle controparti precedenti, che manca della giusta profondità.

In conclusione

Che cos’è dunque il nuovo GRID? Abbiamo appurato che non è il remake dell’originale titolo del 2008, troppo distante per sistema di guida e struttura ludica. Non è nemmeno Autosport 2, con quell’esagerata vena arcade. La verità è che ci troviamo di fronte al remake di GRID 2, un titolo dalla indubbia anima arcade ma che – colpo di scena – funziona. Visto in quest’ottica, il nuovo GRID è un titolo divertente, capace di avvicinare due diversi universi di pubblico. Abbandonate il senso del pudore, abbandonate la voglia di accarezzare i cordoli cercando di limare i tempi sul giro e abbandonate altresì, la voglia di chiedere l’autografo a Fernando Alonso: il nuovo lavoro Codemasters saprà intrattenervi… in attesa di qualcosa di meglio.

Processore: Intel Core I7 4930K
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Oppaidius Summer Trouble! – Un’estate indimenticabile

Circa un anno fa avevamo parlato della demo scaricabile su Steam di Oppaidius Summer Trouble!, una particolarissima visual novel, sia per l’art style che per il suo umorismo molto parodistico, con giusto un pizzico di italianità. Ai tempi non abbiamo potuto fare a meno di lodare il già ottimo lavoro del creatore Vittorio Giorgi che è stato capace di consegnare un prodotto di altissima qualità (seppur in uno stadio ancora incompleto). Da Dicembre, dopo un kickstarter di successo, la full version di Oppaidius Summer Trouble! è arrivata su Steam e finalmente abbiamo avuto modo di conoscere la simpatica (e rotondissima) Serafina, una ragazza che appare al protagonista quasi come un miraggio. Come si snoda la nostra avventura grafica? Beh… Scopriamole… Cioè… Scopriamolo insieme!

L’estate non piace a tutti…

In Oppaidius Summer Trouble!, nonostante saremo in grado di scegliere il nome del nostro personaggio, controlleremo un tipo un po’ asociale, abbastanza nerd, che odia l’estate: non si diverte, la vive male per colpa dell’afa e perciò preferisce rimanere a casa a giocare ai videogiochi (con una console che sembra proprio essere un PC Engine Duo-RX). Un giorno però un’improvvisa visita a casa nostra cambierà la vita del protagonista per sempre: ecco Serafina, la nuova vicina appena trasferitasi in cerca di nuove amicizie e giusto di un po’ di Latte! Il nostro protagonista non potrà fare a meno di notare i suoi due ingombranti seni (e il fatto che chieda proprio il latte!) e comincia a non pensare ad altro, al punto di dubitare della sua esistenza. Lo scopo delle conversazioni e delle scelte da compiere, vero fulcro del genere visual novel, sta nell’ascoltarla, capirla ma anche capire il protagonista, sfruttando questa nuova conoscenza per imparare a crescere e superare i nostri limiti. Oppaidius Summer Trouble! in poche parole racconta una storia ed è una visual novel che poco si presta al carattere del giocatore; il personaggio controllato ha delle caratteristiche ben delineate e per tanto, per quanto ci possa divertire il selezionare le risposte in base a un nostro gusto personale, servono delle “risposte giuste” per ottenere il vero finale. Dopo la prima run (in cui si otterrà sempre il finale A) avremo modo di accedere al gioco+ in cui potremo saltare tutti i dialoghi e arrivare direttamente alla selezione delle risposte. Fra i sogni di Serafina, i save/load state e il gioco + il giocatore ha una vasta gamma di metodi che lo possano portare a ottenere il vero finale della storia e ciò non può che essere un grande punto a favore di ciò che riguarda l’interfaccia utente.

È ovvio che i punti focali di questo titolo sono il comparto testuale e quello grafico: le linee dei dialoghi riescono a farci ridere, soprattutto per le possibilità delle nostre risposte che vanno dal normale, all’assurdo e talvolta al pervertito! Non tutte le risposte incideranno sul finale e perciò, di tanto in tanto, potremo divertirci a dare qualche risposta un po’ fuori luogo. Non mancheranno valanghe di easter egg e riferimenti a videogiochi del passato, un tipico tocco di classe per un gioco che, in un modo o nell’altro, offre anche qualche spunto retrò – prima fra tutte la musica resa con il chip sonoro YM2151, utilizzato nei computer Sharp X68000 e in alcune schede arcade Konami e Sega, ma di questo parleremo più avanti –. Di tanto in tanto il gioco svia dalla classica visual novel e ci saranno momenti in cui ci ritroveremo a fare qualcosa di diverso dal leggere e dare risposte, come fare una nuotata a colpi di tasti “destra” e “sinistra”, controllare un ambiente col mouse come un punta e clicca o… Minigiochi di altro tipo! A volte lo storytelling ci offre una sorta di abbattimento della quarta parete, nulla di incisivo come in Undertale ma comunque il tutto è implementato in maniera molto intelligente per quanto semplice: a volte le risposte in un dialogo saranno un po’ “a senso unico”, qualche altra volta il mouse si sposterà da solo, ma su questo argomento non vogliamo dilungarci molto in quanto in generi come questo è molto facile dare spoiler per sbaglio. Il più grande difetto è la scarsa longevità e non ci vorrà molto dopo il primo finale “trovare” le risposte giuste per ottenere i finali B, C, e BC;
In tutto questo, insieme ai finali della storyline, sbloccherete piano piano le immagini della galleria la cui maggior parte saranno artwork utilizzati per segnalare determinate cutscene (in quanto qui non ci sono vere e proprie animazioni). Fra le immagini ce ne saranno alcune da sbloccare tramite il minigioco Oppaidius Poker dalle fattezze di un gioco per Nintendo Game boy. Ogni finale della visual novel ci darà un credito in più al poker (cinque mani) ma vincere, ovvero arrivare al punteggio preposto da un avversario, è tutt’altro che semplice: si gioca col mazzo intero per due persone (quindi costruire una qualsivoglia scala è sempre un grosso rischio) e le coppie al di fuori dei jack, regina, re e asso saranno utili solo per le doppie coppie. Insomma, le migliori strategie per giocare a poker non risultano sempre le migliori e spesso e volentieri si dovranno adottare strategie ben contrarie al senso comune.

Amore o pulsione?

Lo stile di Vittorio Giorgi, creatore, disegnatore e mente dietro Oppaidius Summer Trouble!, accenna sia gli stili più in voga in Giappone, dunque anime/manga, e probabilmente anche un tocco più occidentale visto che vengono a mancare molte di quelle caratteristiche prettamente nipponiche. La sua determinazione nel portare avanti una visual novel, genere dominato principalmente da developer giapponesi e pensato per un pubblico orientale, è veramente da imitare; il panorama videoludico italiano si apre a quello nipponico e lo fa restituendo un genere molto di nicchia e che in Europa (salvo le eccezioni di Phoenix Wright e pochi altri) è sempre stato poco considerato, soprattutto per il gap culturale. Oppaidius Summer Trouble! ha caratteristiche di humor e contesti prettamente italiani e dunque i giocatori occidentali potranno agire senza “sembrare fuori luogo” nonostante le tematiche romantiche/erotiche. Visto che ne stiamo discutendo, questa visual novel cade nel sub-genere ecchi, fatto per la maggior parte di scene “vedo-non vedo” e nessuna scena di sesso esplicito, ma dobbiamo purtroppo anticipare che ci sono scene di topless, quindi, si, rispettate il PEGI 18 o diventerete ciechi, specie se porterete il boobage level a 100 (esatto, è nelle opzioni), a quel punto vi esploderà il cervello – siete stati avvisati –! Per il resto, la grafica include dei bei background dalle fattezze di un gioco per il PC-98 della NEC o il PC Engine, sempre prodotto dalla medesima leggendaria compagnia giapponese, il tutto composto esattamente come se fosse un bel gioco dei primi anni ’90.
Altro punto da tenere in considerazione, che ci riporta all’epoca d’oro delle visual novel giapponesi, sono i temi che si avvalgono del chip sonoro YM2151, utilizzato nei computer Sharp X68000 e in alcune schede arcade Konami e Sega; i temi sono su uno stile synthpop, a cavallo fra anni ’80 e ’90, che si adatta perfettamente a questo genere in voga in Giappone, cresciuto esponenzialmente grazie soprattutto a computer casalinghi come i già citati PC-98, noto per aver ospitato una miriadi di graphic novel a stampo erotico, o il PC Engine. Tuttavia parlare di erotismo, per quanto giusto, non è tutto, specialmente per il fatto che Oppaidius Summer Trouble! tende a riportare (i giocatori più anzianotti) in estati fatte di divertimento spensierato, nuove scoperte ed esperienze, soprattutto in campo sentimentale e non necessariamente carnale, o per lo meno non nel senso più volgare. A testimonianza di ciò è la lettera che Norihiko Hibino, guest musician che ha lavorato in passato per saghe come Metal Gear, Zone of Enders e Bayonetta, ha voluto dedicare allo sviluppo di Oppaidius Summer Trouble! e allo splendido lavoro fatto da Vittorio Giorgi:

«è bello sapere che molte persone in tutto il mondo continuano ad apprezzare questo tipo di contenuti originariamente creati in Giappone. La canzone che ho composto per Oppaidius Summer Trouble! si intitola “One Summer Memory“, ed è un pezzo che rievoca le belle giornate estive. In Giappone le quattro stagioni sono molto distinte fra loro e il godersi la stagione in corso o ripensare a quelle trascorse è una parte molto importante della nostra cultura. Persino una calma mattinata invernale può richiamare un qualche sentimento nostalgico per le stagioni passate in ognuno di noi. Spero che l’ascolto di questa canzone potrà aiutare le persone ad apprezzare qualsiasi stagione in corso e, in particolare, richiamare una bella giornata estiva. Grazie per l’opportunità di essere parte di questo gioco»

Il grosso della colonna sonora stato composto da Luca della Regina, compositore dello SHMUP italiano in corso di lavorazione Xydonia, mentre i restanti guest musician comprendono Masashi Kageyama (Gimmick!, Sunsoft) e Tsuyoshi Kaneko (Segagaga, Yakuza, Thunder Force IV), entrambi compositori di altissimo rango e apprezzatissimi in tutto il mondo. Inutile dire che il lavoro consegnato è di altissimo livello.

(Da adesso… Solo pensieri innocui… Come due bei cuccioli… Due…)

Tempi migliori

Recensire una visual novel dalle nostre parti è molto difficile, principalmente per il fatto che al di fuori della saga di Ace Attorney e pochi altri giochi, questo genere non ha mai attecchito veramente, ma ciò non toglie che il lavoro compiuto da Vittorio Giorgi, che firma il tutto con il marchio SbargiSoft, è senza dubbio di alta qualità già a primo impatto. Sicuramente potevano essere migliorati molti punti come la longevità, e con esso l’aggiunta di più finali, l’interfaccia grafica del menù iniziale e della galleria e la modalità poker, ma rimane comunque un validissimo acquisto e un ulteriore titolo indipendente italiano che si aggiunge alla sua sempre più vasta scena videoludica nostrana, disponibile al prezzo di 6,99€ su Steam. Chissà se vedremo Oppaidius Summer Trouble! presto su altre piattaforme come Nintendo Switch o Sony PlayStation 4. Se siete interessati alle visual novel di stampo nipponico Oppaidius Summer Trouble! è sicuramente un titolo da non perdere: un’ottima prima opera per Vittorio Giorgi alla quale auguriamo un buon proseguimento di carriera!




Bloodstained: Ritual of the Night – Il ritorno del re

L’anno scorso abbiamo dedicato molto tempo per discutere di Bloodstained: Curse of the Moon, inaspettato primo nuovo titolo di questa nuova saga ispirata a quella di Castlevania, dello sviluppo del titolo principale, che abbiamo finalmente giocato, dei battibecchi fra Konami e il creatore Koji Igarashi, dello sviluppo della campagna Kickstarter (il più velocemente finanziato prima del lancio di Shenmue 3), ma anche di Castlevania: Symphony of the Night e dell’eredità che porta con sé. Il caro Iga ha saputo ascoltare i backer del suo progetto e così ha rimandato l’uscita di Bloodstained: Ritual of the Night dal tardo 2018 al primo 2019 per poi essere spostata un’ultima volta per l’estate dello stesso anno. Il titolo, il cui progetto fu lanciato nel marzo 2014, è uscito lo scorso 18 giugno per PlayStation 4, Xbox One e PC e una settimana dopo (25 giugno) per Nintendo Switch. Quest’ultima sarà la versione che prenderemo in considerazione e vedremo insieme un vero e proprio gioco d’autore, uno di quelli in grado di elevare il videogioco a pura arte e decisamente uno dei migliori di questo 2019.

La versione Switch…

Ebbene sì, se avete avete seguito le vicende di Bloodstained: Ritual of the Night allora saprete che la versione per Nintendo Switch sta risultando la peggiore delle versioni uscite. Cominciamo col ricordare che lo sviluppo di questa particolare versione era cominciato originariamente su Wii U, produrre un porting per Switch non è stato facile viste le brutte sorprese in ambito multipiattaforma come Rime o Doom, ma altre volte il risultato si è rivelato al pari delle altre console, come il caso di Mega Man 11. Bloodstained: Ritual of the Night,  non si schioda dai 30 FPS e soprattutto, al di là di piccoli dettagli grafici mancanti, assistiamo a tempi di caricamento inaspettati fra una stanza e l’altra ma soprattutto crash e glitch legati soprattutto alle interazioni con gli NPC non nemici; anche il riprendere a giocare dopo uno stand-by, sembra destabilizzare l’intero andamento del titolo. Un aggiornamento è stato lanciato il 2 Agosto e sembra che il gioco sia più stabile, anche se ancora sussistono alcuni dei problemi sopracitati. Ciononostante i controlli risultano ben reattivi e l’esperienza totale è ben lungi dall’essere ingiocabile.

Il sogno di Koji Igarashi

Dopo le critiche a Castlvania: Symphony of the Night, elogiato come uno dei giochi più belli di tutti i tempi, era normale aspettarsi nuovi sequel ma la verità è che a Koji Igarashi non vennero mai dati fondi e tool a sufficienza per poter produrre un gioco al pari del suo precedente per via delle sue vendite non stellari. Bloodstained: Ritual of the Night è dunque il  suo secondo metroidvania per console, il primo dopo 23 anni in cui Koji Igarashi si è trovato a lavorare senza le limitazioni dei portatili e con la libertà e tool degni del suo genio creativo. Nonostante non possa più continuare le avventure dei personaggi che ha creato, il suo particolare interesse verso l’occulto, la magia e il fantasy si rispecchia in tutto e per tutto in questo nuovo titolo ufficialmente targato ArtPlay e distribuito da 505 Games.

La storia si svolge durante la prima rivoluzione industriale, sono anni di fermento scientifico e culturale e pertanto le arti occulte cominciano a divenire obsolete. Fra le nubi dell’eruzione di Laki del 1783, vulcano sito in Islanda, arrivano in tutta l’Europa centinaia di migliaia di demoni ma il tutto risulta essere uno stratagemma segreto di una gilda di alchimisti per ricordare alla classe dominante la loro importanza e che la tecnologia è impotente di fronte a entità di questo tipo. Per fronteggiare questa minaccia gli alchimisti forgiano gli Shardbinder, dei ragazzi al cui loro interno vengono impiantati cristalli in grado di sintonizzarli con il potere dei demoni e dunque combatterli.
Dopo questo incipit, cominciamo dal Galeone Minerva (quinto livello del precedente Curse of the Moon), e le prime fasi di gioco serviranno a farci prendere confidenza coi controlli e le abilità di Miriam, la protagonista. Grazie all’assorbimento del degli Shardbinder, Miriam potrà utilizzare le abilità chiave dei suoi nemici, che constano di cinque tipi: Attivazione, classica arma secondaria di Castlevania, Direzionale, simile a quello a precedente ma direzionabile con lo stick sinistro, Effetto, Famiglio, che permette l’attivazione di uno Spirito combattente di supporto che ci accompagnerà dal momento della sua selezione (livellabile anche lui come Miriam), e infine Incantato (noi preferiamo “passivo”) che darà ulteriori abilità alla protagonista in background (come resistenza al fuoco, aumento fortuna, velocità dei movimenti, etc…). A questi si aggiungono anche i Cristalli Abilità che permetteranno a Miriam di compiere nuove azioni, come doppi salti e il nuoto, utili per esplorazione del castello. Le abilità dei cristalli potranno essere ulteriormente migliorate portando a Johannes diversi materiali, drop casuali dei vari nemici del castello e collezionando ulteriori cristalli dello stesso tipo. Inutile ricordare dunque che, come un RPG, il personaggio aumenta di livello accumulando EXP a ogni nemico ucciso.
Il gameplay di base non porta grandi innovazioni, ma per quanto classico è semplicemente squisito: la mappa di gioco, è indubbiamente la più grande mai presentata in uno dei suoi giochi precedentemente prodotti ed è composta in modo tale da favorire un backtracking dinamico e tarato per la crescita della protagonista, caratteristica fondamentale di questo genere. Percorrere un tratto a ritroso non risulterà mai tedioso e tornando in aree già visitate avremo modo di controllare se abbiamo collezionato tutto quanto nell’area provando ogni nostra nuova abilità per accedere a luoghi precedentemente inaccessibili; talvolta è incentivato anche il sequence breaking, ovvero la capacità di visitare luoghi alla quale non si potrebbe accedere senza una determinata abilità ma accessibili se utilizzeremo al meglio quelle già acquisite. In ogni caso il vero fulcro di questo gioco è certamente l’esplorazione e in Bloodstained: Ritual of the Night ci viene consegnato un ambiente veramente eccezionale, una mappa che incentiva la curiosità, l’esplorazione, il backtracking e lo spingersi a superare nemici e ostacoli a ogni costo.

Inoltre, per la prima volta, è stato implementato un sistema di slot per salvare un determinato equip e selezionarlo al momento del bisogno in base alla situazione. Potremo trovarci con una spada con un effetto di fuoco e pertanto a esso potremo equipaggiare vestiti, accessori e un cristallo passivo che ne incentivi i danni. L’arma principale di Miram non differisce molto da una spada e il suo raggio d’azione è veramente povero, tutto il contrario di quella vista nel precedente titolo in cui era permesso il tenere una certa distanza tra noi e i nemici.
Insieme alla campagna di Miriam e alla partita+, nonché alle diverse difficoltà proposte, possiamo sin da subito giocare alla modalità Boss Rush e Time Attack ma ben presto verranno rilasciati ben 13 DLC gratuiti che promettono modalità co-op, versus, una Classic Mode e altri due personaggi giocabili, primo dei quali l’ammazza-vampiri nipponico Zangetsu.

Déjà vu?

Coloro che hanno giocato e rigiocato Castlevania: Symphony of the Night non potranno fare a meno di non notare alcune similitudini che si riducono a un autocitazionismo tal volta fuori luogo e semplicemente poco ispirato. Così come per molti altri elementi, a partire soprattutto dai luoghi della mappa ricollegabili ai luoghi del castello di Dracula del celebre gioco per PlayStation, alla Cattedrale di Dian Cecht di Bloodstained: Ritual of the Night accosteremo immediatamente la Royal Chapel di Symphony of the Night, al Giardino del Silenzio la Marble Gallery, alla Livre Ex Machina la Long Library, e così per moltissimi altri luoghi del castello. Tuttavia, la autocitazione più fastidiosa è senz’altro l’abilità Invert che permetterà a Miriam di invertire la gravità e dunque capovolgere la schermata di gioco: per quanto il richiamo di tale abilità sia abbastanza intuitiva e regala al giocatore l’effetto desiderato, questo non è altro che uno stratagemma poco originale per invertire il castello, esattamente come succedeva in Castlevania: Symphony of the Night ma che qui poco regala alla dinamicità del gameplay. Citare le vecchie opere è indubbiamente interessante ma il problema è che Bloodstained: Ritual of the Night sembra voglia farsi carico dell’eredità di Castlevania anziché lanciarne una nuova.

Lost Paintings

Graficamente Bloodstained: Ritual of the Night non è certamente fra le più complessi ma di certo risulta abbastanza curato e intriso dello stile gotico, fuso con quello anime, di cui Iga è famoso. Durante i dialoghi vengono presentati modelli 3D ben dettagliati ma tutto sommato poco espressivi nonostante un buon doppiaggio: le espressioni facciali non rispecchiano necessariamente lo stato d’animo dei personaggi e pertanto avremo preferito, anche se in questo caso saremo ricaduti nell’ulteriore citazione, semplicemente degli artwork alla quale collegare il parlato come avveniva nei suoi titoli precedenti. Anche se il risultato non è fra i migliori, Iga ha voluto azzardare e, per quanto possibile, distaccarsi dalla saga madre. Gli effetti luce e la profondità dei background, rinnovati verso la fine dello sviluppo,sono ben resi anche in questa versione e tutto sommato Bloodstained: Ritual of the Night presenta uno stile grafico e un art style valido anche se non fra i più ispirati.
La colonna sonora invece è stata affidata a Michiru Yamane, storica compositrice della saga madre… e insomma, basterebbe solo questa frase per garantire la qualità della colonna sonora! Probabilmente, ed è un grosso tassello che mancava ai Castlevania: Lords of shadow, la musica è ciò che rende i titoli di Koji Igarashi grandi e semplicemente epici: le composizioni offrono quel ritmo e quelle sonorità in grado di dare la giusta atmosfera ai vari ambienti, sempre molto diversi fra loro. Luoghi come Cattedrale di Dian Cecht o i Laboratori di Stregoneria prediligono composizioni più classicheggianti, con organi a canne e tappeti di archi, mentre in luoghi come l’Ingresso del castello, il Giardino del Silenzio, la Torre dei Draghi Gemelli o la Caverna Infernale presentano composizioni più moderne con un set più da band e sfumature che aprono verso più generi musicali. A differenza di Castlevania: Symphony of the Night stavolta non sono stati commessi grossi errori sui dialoghi con decisamente un buon lavoro da parte dei doppiatori: alcune battute di dialogo sono troppo “spigliate” per il periodo storico preso in considerazione ma in fondo fanno parte di sezioni extra e inserite, chiaramente, a scopo umoristico. Nel cast figurano se non altro doppiatori di spicco come David Hayter, voce storica di Solid Snake qui impegnato nel prestare la voce a Zangetsu e alla narrazione iniziale, Ray Chase, anche lui impegnato in progetti come Final Fantasy XV e NieR: Automata qui impegnato per prestare la sua voce a Gebel, Erika Lindbeck, che presta la voce alla protagonista Miriam, ma soprattutto Robert Belgrade, voce storica di Alucard in Castlevania: Symphony of the Night qui impegnato a prestare la voce al bibliotecario Orlok Dracul, vampiro dalle sembianze molto vicine al suo vecchio personaggio.

… Vicino alla perfezione

I punti che abbiamo criticato in questo Bloodstained: Ritual of the Night non sono pochi e se non altro vive chiaramente dell’eredità della sua saga madre. C’è un autocitazionismo a tratti fastidioso accompagnati da tanti piccoli elementi, relativi principalmente alla versione Switch (laddove si trova il pubblico che più apprezza questo tipo di giochi), che potevano essere migliorati tranquillamente con pochi sforzi. Ciononostante è impossibile negare la grandezza di questo gioco e l’infuocatissimo gameplay che esso propone: non lodarne il gameplay è semplicemente impossibile e criminale! Narrativamente risulta interessante ma purtroppo contornato personaggi a tratti un po’ scialbi, delle ambientazioni meravigliose ma troppo legate al passato. Per un prossimo titolo andrebbe rivisto l’obiettivo di questa saga: vuole semplicemente colmare un sentimento nostalgico o mettere qualcosa di nuovo sul tavolo? Non c’è nessuna grande innovazione e dunque non si capisce se il gioco guardi avanti oppure indietro. Momentaneamente il risultato con questo Bloodstained: Ritual of the Night è più che soddisfacente e sembra davvero di avere in mano (finalmente) il degno erede di Castlevania: Symphony of the Night: un grande titolo e certamente uno dei migliori giochi di questo 2019.




A Plague Tale: Innocence – Piccola Peste

Asobo Studio sembra un nome uscito dal nulla, alle prese col suo primo titolo. A guardar bene è così, ma a guardare ancora meglio il team in questione vanta un’esperienza quasi ventennale, con collaborazioni in molti progetti di rango e un gioco del tutto proprietario come Fuel. Adesso il developer francese ha deciso di fare sul serio, e con A Plague Tale: Innocence ha fatto di tutto per dimostrarlo.

La selva oscura

Uno dei periodi più controversi della storia dell’uomo è paradossalmente uno dei meno raccontati nei videogame. Il 1300, il basso Medioevo del grande scisma d’Occidente, è un pessimo secolo sotto tanti punti di vista: leggera era glaciale, carestia, Inquisizione Cattolica, la Guerra dei Cent’anni e soprattutto la Peste Nera. Se pensate di vivere in una brutta epoca solo perché Instagram ha cancellato il vostro account, con A Plague Tale: Innocence avrete modo di rivedere le vostre convinzioni affrontando uno spaccato di un mondo terribile in cui qualunque cosa congiura per vedervi morto. Amicia e Hugo, i protagonisti francesi della nostra storia, non solo sono vittime di un mondo avverso ma anche la rappresentazione di un’umanità che cerca di sopravvivere “nonostante tutto”. Dopo la morte dei loro genitori, infatti, comincerà un viaggio che possa garantire la salvezza di entrambi, oltre che essere motivo di crescita. A Plague Tale possiede tra i suoi innumerevoli pregi quello di raccontare nella maniera più egregia due storie diverse in parallelo, con ottime cutscene che non segnano un distacco netto dalle fasi di gameplay: la quindicenne Amicia è alla ricerca della propria autoaffermazione in un mondo dominato dal caos, mentre il piccolo de Rune, cresciuto isolato dal mondo esterno, si trova improvvisamente in un limbo, tra un’infanzia bruscamente strappata via e una maturità che, per forza di cose, deve essere la più rapida possibile.  In ogni caso, sia per Amicia che per Hugo, la parola “Innocence” riassume in maniera molto diretta ciò che i protagonisti si apprestano a perdere.
Emozione, stupore e magniloquenza sono tre parole che riassumono la trama del titolo, capace di toccare le corde giuste del videogiocatore, immergendolo in un mondo distante nel tempo ma capace far apprezzare ogni piccola conquista del genere umano.

Amicia, f*ck Yeah

A plague Tale: Innocence è essenzialmente un gioco stealth con elementi puzzle-solving, con meccaniche classiche in cui è possibile accucciarsi e nascondersi tra la vegetazione per sfuggire dalla vista dei nemici. Tutte meccaniche già viste quindi, ma in grado di funzionare alla perfezione in un contesto inconsueto. Amicia è abile con la fionda, unica vera arma disponibile in grado di colpire mortalmente i nemici privi di elmo o di distrarli. Proprio la distrazione è una dinamica chiave, a volte da sfruttare in piccoli puzzle ambientali, cercando di creare un percorso sicuro tra le ronde nemiche, che vantano una basilare intelligenza artificiale.  Quello per cui il titolo verrà però ricordato è l’enorme e mortale orda di topi, simbolo di peste, in grado di divorarci in pochi secondi. Attraverso l’utilizzo dei bracieri e luci possiamo allontanare il vorace branco, che altrimenti ci ucciderebbe  all’istante. Per proteggerci dai malvagi ambienti francesi, si potrà ricorrere a un crafting molto esemplificato, ma adeguato al potenziamento del nostro equipaggiamento che include la creazione di sostanze alchemiche in grado di farci avanzare nei momenti più intricati. Non si avrà però mai reale filo da torcere nell’avanzamento del gioco: il titolo non ha l’intento di sfidare la pazienza e le meningi del giocatore, facendo della sua natura story-driven il suo punto di forza.
Il vero potenziale del lavoro Asobo lo si ha soprattutto nelle fasi avanzate, dove l’intero arsenale sarà a nostra disposizione: l’approccio ai “livelli” diventa così libero, con il giocatore intento a studiare una possibilità adeguata per superare l’ostacolo. In questo intervengono anche meccaniche co-op in game, con il nostro piccolo Hugo in grado di intrufolarsi in piccoli anfratti, aprendo passaggi per Amicia, oppure per risolvere poco intricati puzzle ambientali. In fondo A Plague Tale è un titolo semplice ma efficace, in grado di intrattenere per tutti i suoi 17 capitoli.

Olio su schermo

Un altro punto a favore della prima fatica di Asobo è il comparto tecnico, che sembra essersi ispirato ai dipinti del XVI e XVII secolo, mostrando scene, ambienti e paesaggi dai tratti morbidi e suggestivi. La Francia del 1300 è caratterizzata a dovere: un mondo freddo, pericoloso, in cui “giustizia” fa pericolosamente rima con “morte”. Si passa da zone in cui è possibile rilassare il ritmo ammirando un tramonto, ad ambienti terribili come campi di battaglia mostrati in tutta la loro crudezza e zone desolate in cui la morte ha già fatto il suo passaggio. Il tutto è rappresentato in maniera egregia, con texture definite e con una particolare attenzione agli abiti del tempo. Meno eclatanti le animazioni facciali, un po’ legnose ma che non rovinano per nulla l’esperienza sul piano emotivo
A dare un altro colpo al nostro cuore ci pensa la colonna sonora, composta da Olivier Deriviere che tra violini, violoncelli e contrabbasso riesce a risaltare ogni momento del gioco in modo superlativo, anche se purtroppo poco varia. Il doppiaggio – non disponibile in italiano – è estremamente curato in inglese, ma nella lingua originale, il francese, riesce a esprimersi al meglio, trasportando con maggior carica il giocatore nelle terribili vicende della Francia medievale.

In conclusione

Nonostante la facilità con cui si arriva ai titoli di coda, A Plague Tale: Innocence riesce nell’intento di raccontare una storia matura, capace di intrattenere e in qualche modo di far immergere il videogiocatore in una delle epoche più ostiche della storia umana. Il primo vero titolo di Asobo dunque, centra in pieno l’obiettivo, diventando un ottimo trampolino di lancio verso più grandi progetti futuri.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Sapphire Radeon RX 580 8GB NITRO+ Special Edition
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10