Captain Bone

L’universo dei giochi indie è immenso, con moltissimi titoli sviluppati da piccole software house sparse per il mondo. Una si trova a circa 50 Km da Agrigento, in quella Licata dove lo chef Pino Cuttaia è riuscito a portare due stelle Michelin facendo gridare al miracolo. E un piccolo miracolo – o una sanissima follia – sembra quella di sviluppare videogame in un angolo sperduto di una regione che non si distingue per avanzamento tecnologico e industriale.
Ma il team di sviluppo Orange Team non pare essersi scoraggiato e ha deciso di provarci, sviluppando dal 2016 a oggi quanto basta per produrre la pre-Alpha di Captain Bone che ci consente di completare una singola missione e di visitare un piccolo villaggio.

Captain Bone si presenta come un action-adventure in single player, che ambienta la sua storia nelle isole dei Caraibi durante il XVII secolo, più precisamente nell’isola di Nassau. Il protagonista è un buffo pirata scheletrico rimasto in mutande dopo il suo ultimo sbarco: la prima unica missione di questa versione è quella di recuperare dei vestiti per procedere con la sua avventura.
Dopo esserci ritrovati sul pontile ci avvieremo verso la cittadina. La prima sensazione è di leggero spaesamento: sin dai primi minuti si soffre un po’ la mancanza di indicazioni atte a indirizzare verso il completamento delle quest, che potrebbero essere implementati in futuro con una mappa o qualche espediente che eviti al giocatore di perdersi per ore a girovagare per il borgo in mutande.
Sono presenti pochi NPC con cui poter interagire e allo stato attuale non tutti forniscono indizi grandemente rilevanti. Se dei tre elementi in quest’unica quest da trovare il cappello risulta abbastanza agevole, lo stesso non può dirsi per il giubbotto e per i pantaloni: chi scrive ha dovuto chiedere indicazioni direttamente agli sviluppatori. La risoluzione in effetti non era ardua, ma alcuni asset di gioco (banalmente quello che permette di accedere allo strumento per recuperare i pantaloni) andrebbe forse maggiormente messo in evidenza nell’environment: la cittadina ha una sua ampiezza, è ricca di elementi, e si potrebbe girare molto prima di notare il punto giusto in cui guardare, a scapito della fluidità di gioco. Qualche bug attualmente presente potrebbe inoltre mettere i bastoni fra le ruote o addirittura impedire il completamento della quest: un personaggio molto importante a un certo punto è letteralmente sparito e abbiamo dovuto iniziare nuovamente la partita per dargli modo di riprendere il suo moto e ritrovarlo.
Se le interazioni in termini di indizi sono migliorabili, i dialoghi risultano invece parecchio divertenti e ben studiati, con riferimenti chiaramente lucasiani (se l’ambientazione piratesca non bastasse a richiamare la saga di Monkey Island, i fan più attenti troveranno conferma nella presenza del simbolo ™ al termine di alcune parole) che seguono un algoritmo random: ogni volta che parleremo con loro la conversazione non sarà la stessa, ma con frasi generate in modo casuale, così da  conferire molta varietà ai dialoghi.
Un limite attuale in questa pre-alpha di Captain Bone è l’impossibilità di saltare i dialoghi: bisogna aspettare diversi secondi per potere leggere la battuta successiva, elemento che rischia di appesantire l’esperienza  e che verrà probabilmente corretto permettendo di poter andare avanti premendo un tasto, come ci si aspetta venga implementata nella prossima release l’interfaccia dei dialoghi, al momento abbastanza spoglia e minimale, testo bianco su sfondo nero, che non rende giustizia a dei dialoghi in realtà molto divertenti.

Le animazioni sono fluide e già ben curate, con alcuni movimenti del protagonista da migliorare, come quando, dopo una corsa, ci si ferma e si vede il personaggio scivolare per un po’ prima di fermarsi del tutto.
L’AI, che è sempre un problema non da poco, vede ancora dei margini di miglioramento, con NPC che si lanciano dalle alture o finiscono incastrati tra le varie case, oppure che se colpiti da un gancio del protagonista finiscono per rincorrerlo per tutta la città, non lasciandogli tregua. La vita del capitano non è molta e si perde facilmente, anche solamente saltando da una parte all’altra di una scala o discesa, causando danno. In tal senso, sembra un po’ eccessivo che Captain Bone possa morire a seguito di un semplice salto che ci costringerà a ricominciare da capo.
Come detto, è possibile colpire i personaggi non giocati: ci si aspetta dunque un combat system che in questa fase non è possibile valutare.
Il motore grafico utilizzato da Captain Bone è l’Unreal Engine 4, che riesce a gestire in maniera ottimale luci e ombre di giorno, mentre la luminosità scarseggia dopo il tramonto, presentando qualche piccolo inestetismo nelle lanterne sparse per tutta la città; le luci delle lanterne, molte volte risultano scarse o assenti, lasciando il giocatore quasi completamente al buio.
I modelli tridimensionali dei personaggi hanno una loro personalità: niente spigoli o visi squadrati, ma volti e corpo molto arrotondati che sembrano modellati a mano, creando un effetto simile alla plastilina.
Il comparto sonoro presenta un buon ventaglio di suoni che possono ancora vedere qualche revisione in termini di utilizzo durante la run. La soundtrack, infatti, è molto orecchiabile, in pieno tema piratesco, con un jingle che rimangono facilmente impressi, ma alcuni elementi sono decontestualizzati, come il sound del mare, che si continua a sentire, in maniera abbastanza marcata, anche all’interno della città.
Dei piccoli errori e bug attualmente presenti possono essere risolti senza difficoltà, come delle piccole implementazioni, quali l’uso del tasto Esc per uscire dai vari menù o il caricamento automatico del salvataggio dopo essere andati Game Over, potrebbero essere comunque di peso.
Tirando le somme, possiamo comunque dire con certezza che i ragazzi di Orange Team stiano facendo un bel lavoro con Captain Bone: i difetti riportati sopra sono abbastanza normali in questa fase e c’è di certo ancora non poco da migliorare. Ma la base del gioco c’è tutta, implementando delle buone quest, continuando con dei dialoghi divertenti e dal buon ritmo, e innestando la parte action in maniera equilibrata può venir fuori un prodotto di tutto rispetto.
Restiamo dunque in attesa di sviluppi, e non vediamo l’ora di vedere il resto del gioco.




Bulb Boy

Avete presente quei giochi da giocare quando siete soli a casa? Possibilmente di notte, con le luci spente e nel pieno silenzio? Bene, Bulb Boy, della compagnia polacca Bulbware, è esattamente quel tipo di gioco, un titolo in grado di spaventarti  con animazioni, un crescendo sul piano dell’intensità ed elementi ambientali così bizzarri tanto da farti rimanere basito, inorridito ma al contempo affascinato! In compagnia del solo testone luminoso di Bulb Boy ci siamo addentrati in questa particolarissima avventura grafica per Nintendo Switch: cosa c’è dietro a questo oscuro titolo dalle fattezze ludico-cartoonesche ma allo stesso tempo orripilante, oscuro e incredibilmente bello? Scopriamolo insieme, e dato che ci spaventa farlo da soli… teniamoci per mano!

Presenze inquietanti

Una sera Bulb Boy, tolta la dentiera al Nonno, accudito il cane volante (che c’è? Non ne avete mai visto uno?) e spento il televisore va a dormire; poco dopo essersi messo a letto, la sua casetta viene inglobata da una forza malefica, riempiendo la casa di mostri di ogni tipo; anche se parecchio impaurito, Bulb Boy si arma di coraggio e decide di andare alla ricerca del suo caro cagnolino e del generoso nonno all’interno della sua abitazione invasa dagli orribili mostri. Il gioco si pone come un punta e clicca, nel quale è possibile procedere una volta risolto un puzzle all’interno di una stanza nella quale ci si muove tridimensionalmente; le atmosfere generali ricordano anche titoli come Limbo, ma anche alcuni contesti che vedono certe situazioni da risolvere “in fretta” e con un po’ di abilità, oltre che il solo ingegno. La particolarità di Bulb Boy è che, a seconda dell’enigma da risolvere, può smontare la sua luminosa testa per farla semplicemente rotolare o attaccarla in altri corpi come pesci o ragni (non a caso si chiama “Bulb” boy: la sua testa è una sorta di lampadina da montare e smontare dappertutto); grazie a questo aspetto, il gioco offre la giusta (insolita) varietà, con enigmi da risolvere che risultano sempre molto vari e un gameplay che si rinnova, di conseguenza, molto spesso. A ogni modo, ci capiterà spesso, nelle sezioni flashback (che si avvieranno solitamente fra una stanza e l’altra), di controllare il cane e il lentissimo nonno ma queste sezioni durano molto meno rispetto alle parti ambientate nel presente: onestamente nulla di che ma riescono a dare al gioco qualche sfumatura di profondità in più. Il puzzle solving del titolo varia da semplici interazioni con oggetti a schermate ravvicinate in cui è possibile azionare determinati meccanismi con maggior precisione e dettaglio; in entrambe le situazioni avremo comunque modo di utilizzare degli oggetti che troveremo per casa e completare al meglio i puzzle che ci vengono posti. A tal proposito, che il compimento del puzzle risieda nell’attivare determinati elementi in un ordine preciso o in fretta, le soluzioni sono tanto orride quanto facili; per quanto bizzarro possa essere il risultato delle nostre azioni, la soluzione è spesso troppo ovvia e il fattore sfida generale del titolo è veramente basso e lascerà solamente una sensazione d’orrore e non tanto la soddisfazione di avere risolto un puzzle tosto (come in un punta e clicca della Lucasarts o in Chuchel).
Bulb Boy, tutto sommato, è programmato bene, anche se per un attimo abbiamo creduto di aver corrotto il nostro file di gioco: c’è stato un momento in cui, nella stanza col mostro a forma di pollo arrosto (che c’è? Esistono, e sono pericolosissimi!) il protagonista  non interagiva con gli elementi ambientali necessari per procedere nella stanza e perciò cadevamo sempre fra le grinfie del pennuto trapassato. Per risolvere il problema, abbiamo dovuto cancellare il salvataggio (che non cancella l’intero file ma ci riporta all’inizio di una stanza, cancellando dunque i soli progressi che attivano i checkpoint intermedi) ma il problema continuava a sussistere; a questo punto abbiamo semplicemente resettato l’applicazione e, finalmente, Bulb Boy è tornato ad interagire con gli elementi che componevano il puzzle di quella stanza e siamo così riusciti a procedere nella nostra avventura. Si tratta fortunatamente di un piccolo bug, risolvibile con molta facilità, nulla che guasti la nostra esperienza ma comunque abbastanza sgradevole; speriamo che arrivi prima o poi una patch per risolvere questa minuscola imperfezione.

Hai paura del buio?

Bulb Boy si presenta come una sorta di incubo cupo, verdastro e bizzarro ma con una nota cartoonesca che concede alla grafica un tratto distintivo molto forte e al gameplay una sorta di humor bizzarro (seppur molto spaventoso). Come il nome del protagonista ci suggerisce, la testa del nostro protagonista brilla di luce propria e ci permette di illuminare le buie stanze della sua casa; gli effetti di luce − accentuatissimi visto che si gioca quasi al buio − sono veramente sublimi e, in qualunque posizione ci troviamo o in relazione a come ci muoviamo, le ombre si sposteranno in base a come sono disposti gli oggetti nella stanza restituendo in tutto e per tutto la profondità dell’ambiente. Inoltre, è possibile scegliere la luminosità della testa del protagonista e perciò, a seconda di come la regolate, sarà possibile visualizzare più parti della stanza stando fermi; anche questa è un’aggiunta veramente interessante che potrà mettere alla prova il vostro coraggio (e la vostra vista).
Il character design, si mantiene sempre sul bizzarro, i mostri, che riescono a trasmetterci una sorta di paura, hanno sempre quella nota di “non pauroso” che, grazie alle atmosfere e i toni generali del gioco, riescono a inquietarci al punto giusto, un po’ come succede per la paura per i clown… no, tranquilli, qui non ce ne sono (ci mancavano solo i clown per farlo diventare L’uomo senza sonno)! Le animazioni, nonché le interazioni con gli oggetti dell’ambiente, sono sempre molto bizzarre: Bulb Boy non attiverà mai un interruttore con un dito o farà quello che pensiamo possa fare e perciò il gioco ci sorprenderà di continuo quanto ci inquieterà. Per questi motivi il fattore paura funziona e anche in maniera originale: fortunatamente non ci vengono proposti i soliti jumpscare ma il gioco ci inquieta con un suo senso persecuzione dalla quale nasconderci. Non ci troviamo mai senza un’idea su come risolvere un puzzle o sconfiggere un mostro all’interno di una stanza ma siamo sempre sotto costante paura e ansia, un’inquietudine da “paura del buio” che, bisogna ammettere, funziona molto bene. Inoltre, quando il nostro Bulb Boy viene ucciso, le animazioni sono orrende e spesso e volentieri il nostro volto si deformerà con una forte nota di inquietudine; provare per credere!
La colonna sonora di questo titolo si mantiene su un ambient molto dark e tetro, ideale per un gioco del genere; non ci saranno grossi temi memorabili ma giusto delle tetre melodie e accordi che accompagneranno il nostro protagonista attraverso le buie stanze della sua casa e i suoi brevi ricordi. Una particolare menzione va fatta ai terrificanti effetti sonori; i personaggi (quasi) umani non spiccicheranno una parola riconoscibile in nessuna lingua e i versi dei mostri sono veramente spaventosi, ben eseguiti e mai scontati. Un vero peccato, tuttavia, che pochi elementi del comparto sonoro sono davvero memorabili.

Sarà abbastanza luminoso?

Bulb Boy è un titolo più che ok: la sua bella giocabilità, che sorprende ad ogni interazione, e il suo particolarissimo art-style sono sicuramente buone ragioni per comprare, per i soli 7,99€ del prezzo di lancio, questo bel titolo sull’e-Shop di Nintendo Switch. Tuttavia, nonostante tutti questi bei fattori, l’esperienza è semplicemente troppo facile e troppo corta e perciò risulta difficile consigliare questo titolo sia ai neofiti del genere che ai veterani. Il gioco ha certamente i suoi punti di forza ma la sua giocabilità, seppur molto pulita, non offre né nulla di nuovo né nulla di interessante e il suo art-style, che è sicuramente bellissimo, potrebbe risultare trito e ritrito se messo a paragone con altri titoli dalle stesse tonalità come Little Nightmares e Limbo. Bulb Boy è sicuramente un titolo molto interessante e di certo non merita di passare in secondo piano, è solo che, in un certo senso, risulta difficile trovare un target per questo titolo. Consigliamo questo titolo agli amanti delle avventure grafiche? Agli appassionati dei videogiochi e film horror? I casual gamer? Gli hardcore gamer? Gli indie gamer? Per dirvi la verità non lo sappiamo, ma di una cosa siamo certi: il prezzo non è per nulla proibitivo, perciò mettetelo nella vostra wishlist e, qualora vi trovate qualche spicciolo in più o sarà in offerta, prendete in considerazione l’acquisto di questo titolo.




Chuchel

Da Amanita Design, lo studio ceco che ci ha portato capolavori come Machinarium e Botanicula, arriva Chuchel, una nuova sorprendente avventura grafica (genere che ha da sempre contraddistinto questo developer) dai toni bizzarri ma incredibilmente fantasiosi e coloratissimi; non a caso, il titolo ha vinto il premio “Excellence in Visual Art” al Indipendent Games Festival (meritatissimo, secondo noi), ed è solo l’ennesimo premio simile vinto dallo studio. I giochi di Amanita Design sono sempre curati fin nell’ultimo dettaglio e questo nuovo titolo non è da meno: che sia su PC, Mac, iOS o Android garantisce un gameplay ricco e pieno di risate.

Un tipetto molto particolare

Chuchel è un simpatico pallino nero con una certa affinità con le ciliegie; farebbe di tutto pur di averne una, ma spesso un topino fucsia di nome Kekel e una misteriosa manona pelosa giocano degli scherzetti al nostro bizzarro personaggio e così dovremosempre escogitare qualcosa per raggiungere la nostra ambita ciliegia. Verremo posizionati in scenari in cui spesso ci saranno personaggi e oggetti con i quali potremo interagire; la natura del gioco è quella del punta e clicca, ed è dunque superfluo elencare quali azioni potremo svolgere con i singoli elementi dello scenario; vi basterà solo sapere che spesso e volentieri il nostro Chuchel farà sempre qualcosa di divertente o di adorabilmente ridicolo. Gli scenari sono spesso composti da una sola schermata e i singoli elementi non saranno mai tantissimi ma ciò non significa che i puzzle da risolvere saranno semplici; la soluzione non arriva mai a primo acchito, ci toccherà riprovare più e più volte determinate azioni, sempre con risvolti spesso esilaranti; ci sono poi dei livelli in cui non ci saranno dei veri e propri enigmi ma offriranno al giocatore un divertente intermezzo con il quale poter interagire e dunque avere sempre una scenetta, più o meno personale, fra un livello e l’altro. Le soluzioni dei puzzle non sono mai chiarissime e perciò i game designer hanno pensato bene di inserire alcuni indizi qualora il giocatore si trovi in difficoltà in alcuni punti dall’avventura: il primo ci verrà dato sin da subito, un altro arriverà quando saremo visibilmente in difficoltà e questo sarà un pochettino più ovvio del precedente. Capiterà anche, rimanendo in tema di indizi, che quando cliccheremo su una delle apposite icone, Chuchel comincerà a farfugliarci la soluzione, facendoci sentire, a modo suo (visto che non parla la nostra lingua), dei veri incapaci!
È un titolo che sorprende di continuo e tante volte le meccaniche del gioco cambieranno senza un minimo di preavviso: da un momento all’altro potremo passare da semplici schermate statiche a una planata a bordo di un uccellino evitando ostacoli à la Flappy Bird, ci troveremo a combattere con dei robot giganti, a leccare strani funghi allucinogeni e ad aver a che fare con strambe allucinazioni oppure in un labirinto a mangiare ciliegie insieme a nientepopodimeno che Pac Man!
Al di là di tutto, è sempre il contesto generale a essere imprevedibile: le interazioni con Chuchel o con qualche elemento ambientale sono sempre assurde e, quasi sempre, questo titolo riuscirà a farci ridere e a risollevare il nostro umore, un po’ come avviene quando si guarda un cartone animato con poca logica! Il nostro personaggio infatti è spesso prolisso, esagerato e le lunghe animazioni, cliccando su un elemento dello schermo, servono proprio a sottolineare il brio che il gioco vuole trasmettere. Il gameplay in un certo senso, al di là dei semplici click o di un cambio di meccanica improvviso, potrebbe sembrare un po’ povero ma il titolo ci sorprenderà sempre proprio quando meno ce lo aspettiamo e sempre con risultati spettacolari.

Estasi sensoriale

Chuchel presenta uno stile veramente personale e ogni animazione è veramente curata fotogramma per fotogramma; dire che il solo guardare una schermata del gioco, anche senza far nulla, è un piacere per gli occhi non è un’esagerazione. Alcuni potrebbero lamentarsi del fatto che le animazioni, quando viene triggerata un’azione, non sono skippabili, ma guardare Chuchel risolvere i puzzle “a modo suo” è sempre un piacere da vedere, giocare a questo titolo non è molto diverso dal guardare un bel cartone animato. Descrivere il suo stile grafico non è facile, anche se è chiaro l’intendo di rievocare, a larghe linee, i disegni infantili, e dunque si ritrovano molti tratti in acquerello, a tempera/acrilico e anche a matita, sempre in una maniera imprecisa ma estrosa. È molto difficile dunque accostare un simile art-style a uno già esistente per via della sua unicità e singolarità; potrebbe a tratti ricordare qualcosa come Adventure Time, Gumball o Salad Fingers (se fosse privo di toni macabri e contorti) ma neppure questi esempi sono in grado di descrivere la spettacolare presentazione di questo titolo. Se vi portate a casa la Cherry Edition su Steam otterrete, insieme al gioco, anche l’art book in PDF e la colonna sonora del titolo; inutile dire che questo booklet, composto da ben 89 pagine, è curatissimo e rappresenta davvero un esperienza aggiuntiva perché le illustrazioni al suo interno sono semplicemente fantastiche e il suo acquisto (5€ in più rispetto alla versione base) vale davvero i soldi spesi.
Per accompagnare questo capolavoro di arte visiva c’è un comparto sonoro semplicemente eccezionale; questo è affidato interamente alla band DVA che dunque non ha soltanto composto la soundtrack, che presenta uno stile che si rifà sia alla musica elettronica che a uno strano folk (più precisamente un Freak Folk) e segue spesso l’azione dello schermo come una Silly Symphony, ma hanno anche prodotto tutto l’assetto degli effetti sonori che, probabilmente, è ciò che potrebbe colpire di più il giocatore. Come già accennato in precedenza, “niente è come sembra” e dunque, se ci aspettiamo un “cip” di un uccellino, sentiremo sempre un suono strambo, prodotto spesso sia coi sintetizzatori sia, talvolta, anche a voce! Se utilizzerete le cuffie riuscirete a notare che alcuni effetti sonori, come un’esplosione, un volo o il sibilare di un serpente, sono stati riprodotti con un buffissimo suono fatto a voce, e questo è davvero un tocco di classe!

La ciliegina sulla torta

Chuchel è un gioco davvero spettacolare, che inebrierà i vostri occhi e le vostre orecchie ma, soprattutto, vi farà ridere e vi cambierà le giornate. L’opera attinge molto dai classici del genere, ma è comunque molto accessibile ed è un ottimo titolo sia per chi si vuole aprire verso questo genere e sia per i veterani, anche solo per poter godere dello stupendo art-style e della sua fantastica presentazione. Unica pecca è forse la sua scarsa longevità: i giocatori più esperti potrebbero completarlo in poco tempo e i pochi achievement paralleli non sembrano essere un grosso incentivo per continuare a giocare a questo gioco.
Ci sentiamo dunque di consigliare Chuchel soprattutto ai neofiti del genere che vogliono addentrarsi nel mondo delle avventure grafiche oppure agli estimatori della Amanita Design; questo è solo uno dei spettacolari giochi dello studio ceco e potrebbe costituire un ottimo punto di partenza per conoscere la loro realtà fatta primariamente da giochi simili, per poi recuperare i succitati titoli precendenti.
Il prezzo di Chuchel su Steam non è per niente proibitivo e per 9.99€, o 14.99€ se avete intenzione di guardare l’artbook e ascoltare la colonna sonora (credeteci, sono veramente fantastici), aggiungerete alla vostra libreria un piccolo grande capolavoro fatto di puzzle intriganti, personaggi strambi e suoni buffi! Provare per credere!




The Secret of Middle City

Molti dei giochi indie a cui giochiamo sono spesso meri rimandi al passato,  giochi pixellosi a cui fa sempre un certo piacere giocare; tuttavia, ogni giocatore ha quasi sempre un “guilty pleasure”, un titolo non propriamente bello con la quale ha una certa affinità cui però, trovandosi in contesti pubblici, ne parla anche male. Dunque ci si accorge che il gioco è fondamentalmente carente, lo si prende a parolacce di fronte agli amici gamer ma appena si torna a casa la prima cosa che si fa è accendere il computer e giocare con quel gioco maledetto… ecco, The Secret of Middle City è potenzialmente uno di quei titoli!
Sviluppato dallo studio indie italiano GDG Entertainment, è un gioco punta e clicca dalle tonalità “singolari”: sebbene il budget per la realizzazione sia chiaramente ben ristretto, come spesso accade per questo tipo di giochi, qui si respira un’aria ancora più low cost, un’avventura grafica che si presenta alquanto “scrausa” e, da titolo per PC anni ’90, persino “rotta”. The Secret of Middle City, se non altro, è stato concepito col motore Hollywood, il che significa che, oltre a funzionare su PC e Mac, è stato concepito e gira su Amiga OS 4, sistema operativo ancora reperibile e tuttoggi supportato! L’operazione nostalgica riesce in tutto e per tutto, anche se, sfortunatamente, l’opera attinge troppo e solo al passato, portando con sé sia i pregi che i difetti dei giochi per computer dell’epoca; potremmo dire benissimo di amare e odiare questo gioco allo stesso tempo: lasciateci spiegare.

Un tipetto… singolare

Middle City, 22 Aprile: viene segnalata la scomparsa di Linda Patton, brillante ragazza di questa piccola comunità di montagna. Viene trovato un braccio mozzato vicino a un fiume, insieme a un braccialetto con il suo nome impresso, e perciò si teme il peggio. Si decide dunque di coinvolgere il governo e così viene inviato il miglior agente federale del FBI; purtroppo Dale Cooper è impegnato a Twin Peaks con Laura Palmer e così, in sostituzione, dobbiamo accontentarci dell’agente Cox, un agente provolone, tonto e cascamorto. Durante il filmato iniziale, verremo a conoscenza di un misterioso “grande albero”, un luogo che sembra custodire un grosso segreto; cominceremo così a girare per Middle City in cerca di indizi, tentando di ricostruire quello che è successo a Linda Patton la sera della scomparsa; tutto sembra avvolto nel mistero e, a quanto pare, in molti dicono di guardarci le spalle e che la città nasconde un segreto collettivo. Come in ogni buon punta e clicca dovremo ovviamente andare in cerca di indizi interrogando le persone del luogo, triggerando i dialoghi testuali, che risultano abbastanza esilaranti, mantenendo una linea comica ispirata alle più classiche avventure grafiche della LucasArts ma con sfumature tipicamente italiane. È possibile inoltre, passando il mouse sugli oggetti di un luogo, analizzare gli oggetti che non possiamo prendere; talvolta da questi indizi è possibile capire come procedere nella nostra avventura… o semplicemente scoprire il pensiero dell’agente Cox! Per come è strutturato il gameplay, non c’è in realtà alcuna ragione di spostarsi all’interno dell’ambiente al di fuori dei dialoghi: è possibile analizzare la stanza e raccogliere determinati oggetti solamente col mouse e dunque, se negli ambienti non ci sarà nessuno da interrogare, il nostro agente starà sempre fermo sulla soglia d’ingresso di certi ambienti senza mai spostarsi di un centimetro. Non è un difetto terribile, ma toglie certamente dinamismo e azione al titolo, ci sarebbe piaciuto vedere un detective più attivo anziché far sembrare il tutto una sorta di text game.
Nulla da eccepire riguardo comparto testuale ma, come abbiamo accennato all’inizio, certi elementi nostalgici potevano essere tranquillamente lasciati nel passato da siamo stati presi: non sappiamo se fosse intento dei developer, ma i dialoghi non sono più rivisitabili e dunque non si possono richiamare due volte. È vero che le finestre vanno avanti solamente tramite un nostro click, ma tante volte ci si può semplicemente dimenticare di un dettaglio, il nome di una persona o una destinazione, perciò vi converrà stare attenti a ogni parola che verrà detta anche se, nonostante i dialoghi siano molto divertenti, buona parte delle interazioni è praticamente inutile e non serviranno a ricostruire ciò che è successo la sera dell’accaduto o a costruire delle ipotesi su chi sia il colpevole della sparizione di Linda Patton. Il vero effetto di questa mancanza emerge ancor di più quando si salva e si ritorna a giocare dopo ore; il non poter richiamare determinati dialoghi alla riaccensione del computer è un male per i giocatori più smemorati e, a meno che non si guardi una guida online, finiremo per girare a vuoto per Middle City per parecchio tempo per trovare la conversazione da triggerare, per visitare una destinazione non ancora presa in esame, per consegnare un oggetto o, ancora più criptico, un oggetto combinato che ci permetterà di continuare la campagna. La logica in tal senso viene coinvolta ben poco ai fini della progressione nell’indagine: non si cercano indizi per scoprire i risvolti della scomparsa di Linda Patton ma si gioca per mandare avanti l’avventura. I NPC potrebbero anche parlarci di luoghi da visitare e/o persone da interrogare ma, fino a quando determinati obiettivi (di cui il gioco stesso ci tiene all’oscuro) non verranno soddisfatti, non potremo procedere verso certi luoghi.
Man mano andremo ricostruendo il quadro completo, Middle City si aprirà sempre di più, ma scoprire quali parti della città, dopo determinati dialoghi, risultano sbloccate è sempre abbastanza criptico: difficilmente sapremo quando e dove si troveranno i nuovi luoghi da visitare (sarebbe bastato segnalarlo con una schermata incidentale) e questo lede in termini di funzionalità il design.
L’inventario contiene le opzioni usa/dai e combina/unisci, ma capire quali sono gli oggetti da unire e quali da usare in certe circostanze è spesso molto difficile: forse questa è una caratteristica che solamente gli appassionati più infoiati delle avventure grafiche potranno apprezzare.

Floppy pieni di “sorprese”

La grafica di The Secret of Middle City è stata realizzata a mano per poi essere ritoccata in seguito nei computer Amiga; si nota un certo art style tipico delle avventure grafiche degli anni ’90, eppure alcuni elementi risultano fuori posto: cominciamo dalle cutscene, molte delle quali sono disegnate e colorate a matita; nulla in contrario a questa scelta stilistica, anzi, è uno stile molto audace in un ambiente in cui tutto è stilizzato e progettato millimetro per millimetro al computer. Si vede chiaramente la passione del disegnatore Stefano Buonocore, perno fondamentale dello sviluppo di questo gioco, per le vecchie avventure grafiche e per gli art stile tipici dei giochi per i vecchi computer europei; tuttavia alcuni NPC, nonostante gli ambienti siano ben lontani dallo stile delle cutscene, presentano spesso lo stesso stile a matita, ben lontano dal protagonista, facendoli spiccare in modo poco armonico rispetto al contesto, come fossero stati estrapolati da un altro gioco.
Il titolo verrà giocato in 3:4. Ai bordi troveremo le varie opzioni del gioco ma, anche se si tratta di un chiaro elemento nostalgico, rimanda a un’idea volontariamente cheap. L’inventario, per esempio, è richiamabile cliccando sulla sua icona ai bordi dello schermo, e per toglierlo bisognerà cliccare nuovamente sulla stessa; per rendere questo processo più veloce, e dunque tornare velocemente in azione, sarebbe stato molto meglio cliccare da qualche parte lontano dal box del menù anziché riportare il mouse sull’icona del menù oggetti.
Sembra voler intenzionalmente richiamare (in maniera nostalgica) alcuni di quei giochi presenti in Giochi per il mio Computer, a tratti anche quei terribili giochi per PC in regalo con le scatole di cereali Kellogs o con le merendine del Mulino Bianco; ci riesce anche, ma non è che stiamo finendo in un campo fin troppo nostalgico? È probabile inoltre che la programmazione avvenuta su Amiga impedisca al gioco una risoluzione ottimale: abbiamo ottenuto una versione del gioco standalone e non siamo riusciti a giocare a questo titolo in modalità full screen per via di un errore, costringendoci a giocarlo in modalità windowed. L’operazione è stata tentata su più di un PC, con lo stesso identico risultato. Non sappiamo dire se la stessa cosa avviene su Steam (dove il gioco è in vendita per 14,99€) o su Amiga OS 4.
I temi musicali del gioco richiamano a dovere l’epoca delle avventure grafiche anni ’90; i temi sono molto semplici ma riescono a restituire quelle le sensazioni di una passeggiata all’interno di questa piccola comunità di montagna. Non mancheranno chiaramente temi più “oscuri” quando andremo a visitare qualche luogo misterioso o intraprenderemo un dialogo particolarmente importante; in questi frangenti lo stile melodico richiama chiaramente quello tipico di Angelo Badalamenti, compositore dell’acclamatissima serie TV I Segreti di Twin Peaks (che, ovviamente, influenza tantissimo la trama di questo titolo), e bisogna dire che questi temi sono particolarmente belli, nonostante i toni demenziali della quale il gioco è intriso. Come abbiamo già detto, i dialoghi sono interamente testuali, ma ci sarebbe tanto piaciuto se questi fossero stati doppiati ed essere dunque di supporto al testo, come avvenuto lo scorso anno in Thimbleweed Park, punta e clicca di Ron Gilbert che compie la stessa “operazione nostalgia”.

Tirando le somme

Cosa pensiamo dunque di The Secret of Middle City? Dire, come abbiamo detto all’inizio, che sia allo stesso tempo bello e brutto non è un assurdità. Ci sono elementi, come la grafica, il sonoro o le battutine stupide di Cox, che rendono il gioco adorabile e un bel salto nel passato; tuttavia, ce ne sono altri, come l’astrusità dell’inventario, il non poter richiamare i dialoghi una seconda volta e il non poter capire quando e dove certi luoghi diventano accessibili, che ce lo fanno anche odiare. È chiaramente un titolo pensato principalmente per gli amanti delle avventure grafiche di una certa età (anche perché non mancano certi disegni e scene un po’ piccanti) e chiaramente non per tutti: è uno di quei giochi in cui si sarebbe potuto fare anche di più, ma si è puntato forse troppo sull’effetto nostalgia, prendendo del passato sia gli aspetti positivi che quelli negativi, riportandoli nel presente senza un’adeguata revisione, consegnando un’avventura grafica meno curata, con meno carattere e certamente non all’altezza di molti altri titoli odierni del genere. Il prezzo su Steam non risulta competitivo, e forse andrebbe rivisto verso il basso per stimolare l’acquisto a gamer curiosi che vogliano comunque godersi qualche ora di divertimento. Se vi mancano questo tipo di avventure grafiche, quel senso di “cheap” tipico di certi giochi per PC di fine anni ’90, e soprattutto se avete un AmigaOne X5000 (il modello corrente di Amiga), beh… allora questo gioco fa per voi!




Le 5 migliori avventure grafiche di Ron Gilbert (ai tempi della LucasArts)

Parlare di avventure grafiche nel mondo dei videogame significa sempre in qualche modo parlare di Ron Gilbert.
Il game designer e programmatore statunitense è certamente uno dei padri assoluti del genere, la cui nascita può collocarsi circa negli anni ’80, quando lo stesso Gilbert trasformò le avventure testuali nei punta e clicca che oggi tutti conosciamo. Erano i tempi della Lucasfilm games, poi diventata LucasArts, azienda con la quale sfornò capolavori entrati nella storia che poggiavano su un’applicazione da lui stesso inventata per semplificare lo sviluppo delle avventure, lo SCUMM. Il sodalizio fra Gilbert e LucasArts non può dirsi lungo ma fu di certo molto fervido, e di quel periodo ci sono almeno 5 avventure grafiche assolutamente da ricordare:

La prima è Maniac Mansion, considerata una delle prime avventure grafiche della storia, uscita nel 1987 e sviluppata con il game developer Gary Winnick, che l’anno prima aveva lavorato su Labyrinth sempre per la Lucasfilmgames.
Sviluppato inizialmente per Commodore 64, Maniac Mansion è la parodia di un classico film horror, dove si racconta la storia di un gruppo di giovani ragazzi che devono aiutare un loro amico a salvare la propria ragazza rapita dal pazzo dottor Fred Edison. Il gioco è interamente ambientato nella magione degli Edison e riscontrò un enorme successo dovuto all’innovativa modalità di gioco, all’ampio ventaglio di personaggi e alla possibilità di sceglierne 3 da gestire in parallelo nel corso gioco, agli enigmi ben congegnati, a un’umorismo grottesco e debordante e a una serie di trovate che caratterizzeranno la cifra stilistica di Ron Gilbert e della Lucas, la quale produrrà anche un seguito del gioco, Day of The Tentacle, sviluppato però da Dave Grossmann e Tim Schafer che da Gilbert prenderanno alcune idee.

Nel 1988, abbiamo Zak McKracken and the Alien Mindbenders, avventura che gode dello stesso stile grafico di Maniac Mansion ma che questa volta fa il verso a film del genere L’invasione degli Ultracorpi e alle storie sul controllo mentale alieno. Ideato da David Fox e con Ron Gilbert nel ruolo di designer, il gioco vede per protagonista Zak, un giornalista che scopre un complotto extraterrestre e dovrà fare di tutto per sventarlo, spaziando da scenari storici come Stonehenge, le Piramidi, Atlantide e arrivando sino a Marte. Anche qui si potranno controllare più personaggi, ma solo nel corso del gioco, quando in aiuto di Zak accorreranno la scienziata Annie e le studentesse di Yale Melissa e Leslie.

Un solo personaggio, ma di grande spessore, ha invece per protagonista l’avventura grafica dell’anno successivo, Indiana Jones e l’ultima crociata, uscita nello stesso anno del famoso film per sfruttarne il grande richiamo. La Lucasfilm Games affida l’operazione proprio a David Fox e Ron Gilbert e il livello qualitativo del gioco non risente del peso dell’opera cinematografica i quali inseriscono nel gioco una componente action finora inedita al genere, con combattimenti che rendono la storia più dinamica ma che il giocatore può scegliere di evitare tramite le giuste risposte nel corso i dialoghi, dando dunque al giocatore una possibilità di percorsi alternativi e accontentando così tutti gli utenti in relazione all’approccio preferito. Questa strada sarà poi ripresa nel successivo capitolo videoludico di Indiana Jones, l’acclamato Fate of Atlantis.

Ma è del 1990 quello che è considerato uno dei grandi capolavori di Ron Gilbert dell’epoca Lucas: parliamo di The Secret of Monkey Island, parodia piratesca che vede al centro il giovane Guybrush Threepwood, che sogna di diventare un temibile pirata e del quale si seguono le peripezie prima nelle tre prove affrontate sull’isola di Melèe e poi nella spedizione di salvataggio del governatore Elaine Marley, rapita dal temibile pirata fantasma LeChuck, che lo porterà a sbarcare proprio sulla mitica Monkey Island. É certamente il gioco della maturità per Ron Gilbert, dove trovano la massima espressione il suo umorismo grottesco, le sue idee più visionarie e una rinnovata visione del game design. In Monkey Island prendono finalmente forma compiuta le idee riguardo le avventure grafiche elaborate da Gilbert in questi anni di esperienza, idee che nel 1989 il game designer espresse in un breve scritto chiamato Why Adventure Games Suck, ovvero Perché i giochi d’avventura fanno schifo, un insieme di regole imprescindibili per le avventure grafiche che costituisce oggi un vero e proprio manifesto per chi sviluppa adventure game.

Il successo di The Secret of Monkey Island fu tale che nel giro di un anno ne fu realizzato il seguito, LeChuck’s Revenge, nel quale Guybrush si ritrova nuovamente ad affrontare il suo storico nemico, stavolta resuscitato da un suo tirapiedi, e a ricercare il tesoro nascosto di Big Whoop. Questo episodio, che vede il protagonista a navigare per varie isole, con un ampio numero di scenari, dialoghi spiazzanti e scene memorabili, gode di una storia complessa e curatissima, con virate surreali e inaspettate soprattutto nel finale, e con tutte le caratteristiche della narrativa di Gilbert, ricca di enigmi elaborati, quadri di gioco unici e humor dissacrante, ha contribuito a fare di Monkey Island una serie cult senza precedenti nel mondo videoludico, che ha visto produrre vari sequel non giudicati mai all’altezza.

Pur avendo subito il genere punta e clicca una forte inflessione negli ultimi 2 decenni, Ron Gilbert è tornato quest’anno in grande stile con Thimbleweed Park, dimostrando che le avventure grafiche hanno ancora molto da far dire a chi sa scriverle con arte.