Chuchel

Da Amanita Design, lo studio ceco che ci ha portato capolavori come Machinarium e Botanicula, arriva Chuchel, una nuova sorprendente avventura grafica (genere che ha da sempre contraddistinto questo developer) dai toni bizzarri ma incredibilmente fantasiosi e coloratissimi; non a caso, il titolo ha vinto il premio “Excellence in Visual Art” al Indipendent Games Festival (meritatissimo, secondo noi), ed è solo l’ennesimo premio simile vinto dallo studio. I giochi di Amanita Design sono sempre curati fin nell’ultimo dettaglio e questo nuovo titolo non è da meno: che sia su PC, Mac, iOS o Android garantisce un gameplay ricco e pieno di risate.

Un tipetto molto particolare

Chuchel è un simpatico pallino nero con una certa affinità con le ciliegie; farebbe di tutto pur di averne una, ma spesso un topino fucsia di nome Kekel e una misteriosa manona pelosa giocano degli scherzetti al nostro bizzarro personaggio e così dovremosempre escogitare qualcosa per raggiungere la nostra ambita ciliegia. Verremo posizionati in scenari in cui spesso ci saranno personaggi e oggetti con i quali potremo interagire; la natura del gioco è quella del punta e clicca, ed è dunque superfluo elencare quali azioni potremo svolgere con i singoli elementi dello scenario; vi basterà solo sapere che spesso e volentieri il nostro Chuchel farà sempre qualcosa di divertente o di adorabilmente ridicolo. Gli scenari sono spesso composti da una sola schermata e i singoli elementi non saranno mai tantissimi ma ciò non significa che i puzzle da risolvere saranno semplici; la soluzione non arriva mai a primo acchito, ci toccherà riprovare più e più volte determinate azioni, sempre con risvolti spesso esilaranti; ci sono poi dei livelli in cui non ci saranno dei veri e propri enigmi ma offriranno al giocatore un divertente intermezzo con il quale poter interagire e dunque avere sempre una scenetta, più o meno personale, fra un livello e l’altro. Le soluzioni dei puzzle non sono mai chiarissime e perciò i game designer hanno pensato bene di inserire alcuni indizi qualora il giocatore si trovi in difficoltà in alcuni punti dall’avventura: il primo ci verrà dato sin da subito, un altro arriverà quando saremo visibilmente in difficoltà e questo sarà un pochettino più ovvio del precedente. Capiterà anche, rimanendo in tema di indizi, che quando cliccheremo su una delle apposite icone, Chuchel comincerà a farfugliarci la soluzione, facendoci sentire, a modo suo (visto che non parla la nostra lingua), dei veri incapaci!
È un titolo che sorprende di continuo e tante volte le meccaniche del gioco cambieranno senza un minimo di preavviso: da un momento all’altro potremo passare da semplici schermate statiche a una planata a bordo di un uccellino evitando ostacoli à la Flappy Bird, ci troveremo a combattere con dei robot giganti, a leccare strani funghi allucinogeni e ad aver a che fare con strambe allucinazioni oppure in un labirinto a mangiare ciliegie insieme a nientepopodimeno che Pac Man!
Al di là di tutto, è sempre il contesto generale a essere imprevedibile: le interazioni con Chuchel o con qualche elemento ambientale sono sempre assurde e, quasi sempre, questo titolo riuscirà a farci ridere e a risollevare il nostro umore, un po’ come avviene quando si guarda un cartone animato con poca logica! Il nostro personaggio infatti è spesso prolisso, esagerato e le lunghe animazioni, cliccando su un elemento dello schermo, servono proprio a sottolineare il brio che il gioco vuole trasmettere. Il gameplay in un certo senso, al di là dei semplici click o di un cambio di meccanica improvviso, potrebbe sembrare un po’ povero ma il titolo ci sorprenderà sempre proprio quando meno ce lo aspettiamo e sempre con risultati spettacolari.

Estasi sensoriale

Chuchel presenta uno stile veramente personale e ogni animazione è veramente curata fotogramma per fotogramma; dire che il solo guardare una schermata del gioco, anche senza far nulla, è un piacere per gli occhi non è un’esagerazione. Alcuni potrebbero lamentarsi del fatto che le animazioni, quando viene triggerata un’azione, non sono skippabili, ma guardare Chuchel risolvere i puzzle “a modo suo” è sempre un piacere da vedere, giocare a questo titolo non è molto diverso dal guardare un bel cartone animato. Descrivere il suo stile grafico non è facile, anche se è chiaro l’intendo di rievocare, a larghe linee, i disegni infantili, e dunque si ritrovano molti tratti in acquerello, a tempera/acrilico e anche a matita, sempre in una maniera imprecisa ma estrosa. È molto difficile dunque accostare un simile art-style a uno già esistente per via della sua unicità e singolarità; potrebbe a tratti ricordare qualcosa come Adventure Time, Gumball o Salad Fingers (se fosse privo di toni macabri e contorti) ma neppure questi esempi sono in grado di descrivere la spettacolare presentazione di questo titolo. Se vi portate a casa la Cherry Edition su Steam otterrete, insieme al gioco, anche l’art book in PDF e la colonna sonora del titolo; inutile dire che questo booklet, composto da ben 89 pagine, è curatissimo e rappresenta davvero un esperienza aggiuntiva perché le illustrazioni al suo interno sono semplicemente fantastiche e il suo acquisto (5€ in più rispetto alla versione base) vale davvero i soldi spesi.
Per accompagnare questo capolavoro di arte visiva c’è un comparto sonoro semplicemente eccezionale; questo è affidato interamente alla band DVA che dunque non ha soltanto composto la soundtrack, che presenta uno stile che si rifà sia alla musica elettronica che a uno strano folk (più precisamente un Freak Folk) e segue spesso l’azione dello schermo come una Silly Symphony, ma hanno anche prodotto tutto l’assetto degli effetti sonori che, probabilmente, è ciò che potrebbe colpire di più il giocatore. Come già accennato in precedenza, “niente è come sembra” e dunque, se ci aspettiamo un “cip” di un uccellino, sentiremo sempre un suono strambo, prodotto spesso sia coi sintetizzatori sia, talvolta, anche a voce! Se utilizzerete le cuffie riuscirete a notare che alcuni effetti sonori, come un’esplosione, un volo o il sibilare di un serpente, sono stati riprodotti con un buffissimo suono fatto a voce, e questo è davvero un tocco di classe!

La ciliegina sulla torta

Chuchel è un gioco davvero spettacolare, che inebrierà i vostri occhi e le vostre orecchie ma, soprattutto, vi farà ridere e vi cambierà le giornate. L’opera attinge molto dai classici del genere, ma è comunque molto accessibile ed è un ottimo titolo sia per chi si vuole aprire verso questo genere e sia per i veterani, anche solo per poter godere dello stupendo art-style e della sua fantastica presentazione. Unica pecca è forse la sua scarsa longevità: i giocatori più esperti potrebbero completarlo in poco tempo e i pochi achievement paralleli non sembrano essere un grosso incentivo per continuare a giocare a questo gioco.
Ci sentiamo dunque di consigliare Chuchel soprattutto ai neofiti del genere che vogliono addentrarsi nel mondo delle avventure grafiche oppure agli estimatori della Amanita Design; questo è solo uno dei spettacolari giochi dello studio ceco e potrebbe costituire un ottimo punto di partenza per conoscere la loro realtà fatta primariamente da giochi simili, per poi recuperare i succitati titoli precendenti.
Il prezzo di Chuchel su Steam non è per niente proibitivo e per 9.99€, o 14.99€ se avete intenzione di guardare l’artbook e ascoltare la colonna sonora (credeteci, sono veramente fantastici), aggiungerete alla vostra libreria un piccolo grande capolavoro fatto di puzzle intriganti, personaggi strambi e suoni buffi! Provare per credere!




The Secret of Middle City

Molti dei giochi indie a cui giochiamo sono spesso meri rimandi al passato,  giochi pixellosi a cui fa sempre un certo piacere giocare; tuttavia, ogni giocatore ha quasi sempre un “guilty pleasure”, un titolo non propriamente bello con la quale ha una certa affinità cui però, trovandosi in contesti pubblici, ne parla anche male. Dunque ci si accorge che il gioco è fondamentalmente carente, lo si prende a parolacce di fronte agli amici gamer ma appena si torna a casa la prima cosa che si fa è accendere il computer e giocare con quel gioco maledetto… ecco, The Secret of Middle City è potenzialmente uno di quei titoli!
Sviluppato dallo studio indie italiano GDG Entertainment, è un gioco punta e clicca dalle tonalità “singolari”: sebbene il budget per la realizzazione sia chiaramente ben ristretto, come spesso accade per questo tipo di giochi, qui si respira un’aria ancora più low cost, un’avventura grafica che si presenta alquanto “scrausa” e, da titolo per PC anni ’90, persino “rotta”. The Secret of Middle City, se non altro, è stato concepito col motore Hollywood, il che significa che, oltre a funzionare su PC e Mac, è stato concepito e gira su Amiga OS 4, sistema operativo ancora reperibile e tuttoggi supportato! L’operazione nostalgica riesce in tutto e per tutto, anche se, sfortunatamente, l’opera attinge troppo e solo al passato, portando con sé sia i pregi che i difetti dei giochi per computer dell’epoca; potremmo dire benissimo di amare e odiare questo gioco allo stesso tempo: lasciateci spiegare.

Un tipetto… singolare

Middle City, 22 Aprile: viene segnalata la scomparsa di Linda Patton, brillante ragazza di questa piccola comunità di montagna. Viene trovato un braccio mozzato vicino a un fiume, insieme a un braccialetto con il suo nome impresso, e perciò si teme il peggio. Si decide dunque di coinvolgere il governo e così viene inviato il miglior agente federale del FBI; purtroppo Dale Cooper è impegnato a Twin Peaks con Laura Palmer e così, in sostituzione, dobbiamo accontentarci dell’agente Cox, un agente provolone, tonto e cascamorto. Durante il filmato iniziale, verremo a conoscenza di un misterioso “grande albero”, un luogo che sembra custodire un grosso segreto; cominceremo così a girare per Middle City in cerca di indizi, tentando di ricostruire quello che è successo a Linda Patton la sera della scomparsa; tutto sembra avvolto nel mistero e, a quanto pare, in molti dicono di guardarci le spalle e che la città nasconde un segreto collettivo. Come in ogni buon punta e clicca dovremo ovviamente andare in cerca di indizi interrogando le persone del luogo, triggerando i dialoghi testuali, che risultano abbastanza esilaranti, mantenendo una linea comica ispirata alle più classiche avventure grafiche della LucasArts ma con sfumature tipicamente italiane. È possibile inoltre, passando il mouse sugli oggetti di un luogo, analizzare gli oggetti che non possiamo prendere; talvolta da questi indizi è possibile capire come procedere nella nostra avventura… o semplicemente scoprire il pensiero dell’agente Cox! Per come è strutturato il gameplay, non c’è in realtà alcuna ragione di spostarsi all’interno dell’ambiente al di fuori dei dialoghi: è possibile analizzare la stanza e raccogliere determinati oggetti solamente col mouse e dunque, se negli ambienti non ci sarà nessuno da interrogare, il nostro agente starà sempre fermo sulla soglia d’ingresso di certi ambienti senza mai spostarsi di un centimetro. Non è un difetto terribile, ma toglie certamente dinamismo e azione al titolo, ci sarebbe piaciuto vedere un detective più attivo anziché far sembrare il tutto una sorta di text game.
Nulla da eccepire riguardo comparto testuale ma, come abbiamo accennato all’inizio, certi elementi nostalgici potevano essere tranquillamente lasciati nel passato da siamo stati presi: non sappiamo se fosse intento dei developer, ma i dialoghi non sono più rivisitabili e dunque non si possono richiamare due volte. È vero che le finestre vanno avanti solamente tramite un nostro click, ma tante volte ci si può semplicemente dimenticare di un dettaglio, il nome di una persona o una destinazione, perciò vi converrà stare attenti a ogni parola che verrà detta anche se, nonostante i dialoghi siano molto divertenti, buona parte delle interazioni è praticamente inutile e non serviranno a ricostruire ciò che è successo la sera dell’accaduto o a costruire delle ipotesi su chi sia il colpevole della sparizione di Linda Patton. Il vero effetto di questa mancanza emerge ancor di più quando si salva e si ritorna a giocare dopo ore; il non poter richiamare determinati dialoghi alla riaccensione del computer è un male per i giocatori più smemorati e, a meno che non si guardi una guida online, finiremo per girare a vuoto per Middle City per parecchio tempo per trovare la conversazione da triggerare, per visitare una destinazione non ancora presa in esame, per consegnare un oggetto o, ancora più criptico, un oggetto combinato che ci permetterà di continuare la campagna. La logica in tal senso viene coinvolta ben poco ai fini della progressione nell’indagine: non si cercano indizi per scoprire i risvolti della scomparsa di Linda Patton ma si gioca per mandare avanti l’avventura. I NPC potrebbero anche parlarci di luoghi da visitare e/o persone da interrogare ma, fino a quando determinati obiettivi (di cui il gioco stesso ci tiene all’oscuro) non verranno soddisfatti, non potremo procedere verso certi luoghi.
Man mano andremo ricostruendo il quadro completo, Middle City si aprirà sempre di più, ma scoprire quali parti della città, dopo determinati dialoghi, risultano sbloccate è sempre abbastanza criptico: difficilmente sapremo quando e dove si troveranno i nuovi luoghi da visitare (sarebbe bastato segnalarlo con una schermata incidentale) e questo lede in termini di funzionalità il design.
L’inventario contiene le opzioni usa/dai e combina/unisci, ma capire quali sono gli oggetti da unire e quali da usare in certe circostanze è spesso molto difficile: forse questa è una caratteristica che solamente gli appassionati più infoiati delle avventure grafiche potranno apprezzare.

Floppy pieni di “sorprese”

La grafica di The Secret of Middle City è stata realizzata a mano per poi essere ritoccata in seguito nei computer Amiga; si nota un certo art style tipico delle avventure grafiche degli anni ’90, eppure alcuni elementi risultano fuori posto: cominciamo dalle cutscene, molte delle quali sono disegnate e colorate a matita; nulla in contrario a questa scelta stilistica, anzi, è uno stile molto audace in un ambiente in cui tutto è stilizzato e progettato millimetro per millimetro al computer. Si vede chiaramente la passione del disegnatore Stefano Buonocore, perno fondamentale dello sviluppo di questo gioco, per le vecchie avventure grafiche e per gli art stile tipici dei giochi per i vecchi computer europei; tuttavia alcuni NPC, nonostante gli ambienti siano ben lontani dallo stile delle cutscene, presentano spesso lo stesso stile a matita, ben lontano dal protagonista, facendoli spiccare in modo poco armonico rispetto al contesto, come fossero stati estrapolati da un altro gioco.
Il titolo verrà giocato in 3:4. Ai bordi troveremo le varie opzioni del gioco ma, anche se si tratta di un chiaro elemento nostalgico, rimanda a un’idea volontariamente cheap. L’inventario, per esempio, è richiamabile cliccando sulla sua icona ai bordi dello schermo, e per toglierlo bisognerà cliccare nuovamente sulla stessa; per rendere questo processo più veloce, e dunque tornare velocemente in azione, sarebbe stato molto meglio cliccare da qualche parte lontano dal box del menù anziché riportare il mouse sull’icona del menù oggetti.
Sembra voler intenzionalmente richiamare (in maniera nostalgica) alcuni di quei giochi presenti in Giochi per il mio Computer, a tratti anche quei terribili giochi per PC in regalo con le scatole di cereali Kellogs o con le merendine del Mulino Bianco; ci riesce anche, ma non è che stiamo finendo in un campo fin troppo nostalgico? È probabile inoltre che la programmazione avvenuta su Amiga impedisca al gioco una risoluzione ottimale: abbiamo ottenuto una versione del gioco standalone e non siamo riusciti a giocare a questo titolo in modalità full screen per via di un errore, costringendoci a giocarlo in modalità windowed. L’operazione è stata tentata su più di un PC, con lo stesso identico risultato. Non sappiamo dire se la stessa cosa avviene su Steam (dove il gioco è in vendita per 14,99€) o su Amiga OS 4.
I temi musicali del gioco richiamano a dovere l’epoca delle avventure grafiche anni ’90; i temi sono molto semplici ma riescono a restituire quelle le sensazioni di una passeggiata all’interno di questa piccola comunità di montagna. Non mancheranno chiaramente temi più “oscuri” quando andremo a visitare qualche luogo misterioso o intraprenderemo un dialogo particolarmente importante; in questi frangenti lo stile melodico richiama chiaramente quello tipico di Angelo Badalamenti, compositore dell’acclamatissima serie TV I Segreti di Twin Peaks (che, ovviamente, influenza tantissimo la trama di questo titolo), e bisogna dire che questi temi sono particolarmente belli, nonostante i toni demenziali della quale il gioco è intriso. Come abbiamo già detto, i dialoghi sono interamente testuali, ma ci sarebbe tanto piaciuto se questi fossero stati doppiati ed essere dunque di supporto al testo, come avvenuto lo scorso anno in Thimbleweed Park, punta e clicca di Ron Gilbert che compie la stessa “operazione nostalgia”.

Tirando le somme

Cosa pensiamo dunque di The Secret of Middle City? Dire, come abbiamo detto all’inizio, che sia allo stesso tempo bello e brutto non è un assurdità. Ci sono elementi, come la grafica, il sonoro o le battutine stupide di Cox, che rendono il gioco adorabile e un bel salto nel passato; tuttavia, ce ne sono altri, come l’astrusità dell’inventario, il non poter richiamare i dialoghi una seconda volta e il non poter capire quando e dove certi luoghi diventano accessibili, che ce lo fanno anche odiare. È chiaramente un titolo pensato principalmente per gli amanti delle avventure grafiche di una certa età (anche perché non mancano certi disegni e scene un po’ piccanti) e chiaramente non per tutti: è uno di quei giochi in cui si sarebbe potuto fare anche di più, ma si è puntato forse troppo sull’effetto nostalgia, prendendo del passato sia gli aspetti positivi che quelli negativi, riportandoli nel presente senza un’adeguata revisione, consegnando un’avventura grafica meno curata, con meno carattere e certamente non all’altezza di molti altri titoli odierni del genere. Il prezzo su Steam non risulta competitivo, e forse andrebbe rivisto verso il basso per stimolare l’acquisto a gamer curiosi che vogliano comunque godersi qualche ora di divertimento. Se vi mancano questo tipo di avventure grafiche, quel senso di “cheap” tipico di certi giochi per PC di fine anni ’90, e soprattutto se avete un AmigaOne X5000 (il modello corrente di Amiga), beh… allora questo gioco fa per voi!




GameCompass – Le Retroconsole (02×05)

Il Super Nintendo è tornato in versione mini, ma altre retroconsole sono in arrivo: Gero Micciché, Simone Bruno e Andrea Celauro ce ne parlano in una puntata totalmente dedicata alla retromania del momento, che ci vede in attesa di riedizioni di Commodore 64, Atari, Sega Mega Drive e tanto altro, con una videorecensione di Thimbleweed Park (titolo che ci riporta direttamente ai vecchi giochi Lucas), una guida per chi voglia approcciare al mondo del retrogaming e l’immancabile Top 5 con i migliori giochi di settembre selezionati dalla redazione di GameCompass!




Ron Gilbert pianifica un DLC per Thimbleweed Park

Durante un’interessante live Twitch di Zak McKracken and the Alien Mindbenders condotta da Fabio “Kenobit” Bortolotti e Luca Font sul canale di EveryEye (che potete rivedere qui), è intervenuto via Skype in qualità di ospite David Fox.
Dopo una ventina di minuti in video, l’autore del gioco, che è anche co-autore di Thimbleweed Park, ha risposto con grande disponibilità alle domande di alcuni degli oltre 500 utenti connessi in chat. A un certo punto, parlando di Ransome Il Clown, Fox ha svelato una possibile buona notizia all’orizzonte per i fan del suo ultimo lavoro:

Avete letto bene: Ron Gilbert starebbe pensando a un DLC della voce di Ransome incensurata.
David Fox aggiunge di aver dovuto editare più di 600 linee di testo alle quali aggiungere i numerosi “beep” presenti nei dialoghi dell’irriverente clown, con svariate picchi di 3-4 beep in alcune singole linee di testo. «I had to spread the beeping of lines out over a couple of weeks», continua Fox riferendosi alla mole del lavoro richiesta dalla censura del testo, ma precisa:

davidbfox: So obviously, the voice actor who did Ransome recorded all the lines with the actual swearing, totally adlibbing it all since we never wrote the actual words in there. It’s really hilarious listening to it.

Insomma, Ian James Corlett, l’attore che ha dato voce a Ransome Il Clown, ha imprecato realmente e ad libitum, in assenza di turpiloquio anche nel copione, improvvisando gli insulti più svariati e risultando molto divertente, a dire di Fox.
La notizia è una piacevole conferma di quanto già scritto da Gilbert  in un post pubblicato sul blog ufficiale del gioco dove mostrò l’immagine dei file audio incensurati e accennò all’intenzione di pubblicare un “uncensored pack”:

Prima che il game designer si congedasse, un utente gli ha chiesto cosa pensasse dei moderni giochi d’avventura, e la risposta è stata abbastanza netta:

mars_rulez: David, what do you think of modern adventure-like games? like Telltale titles or Life is Strange

davidbfox: @mars_rulez I don’t play a lot of current games. I did play through part of Telltale’s Walking Dead, and mostly didn’t care for it (I’m a fan of the TV show). I don’t like branching stories where it feels like you can’t win no matter what choice you make, and I don’t care for games where I feel like I have to react really fast in order to not get killed. Much prefer thinking adventures.

Una frase, quella di David Fox, che ha il valore di una dichiarazione poetica.




Le 5 migliori avventure grafiche di Ron Gilbert (ai tempi della LucasArts)

Parlare di avventure grafiche nel mondo dei videogame significa sempre in qualche modo parlare di Ron Gilbert.
Il game designer e programmatore statunitense è certamente uno dei padri assoluti del genere, la cui nascita può collocarsi circa negli anni ’80, quando lo stesso Gilbert trasformò le avventure testuali nei punta e clicca che oggi tutti conosciamo. Erano i tempi della Lucasfilm games, poi diventata LucasArts, azienda con la quale sfornò capolavori entrati nella storia che poggiavano su un’applicazione da lui stesso inventata per semplificare lo sviluppo delle avventure, lo SCUMM. Il sodalizio fra Gilbert e LucasArts non può dirsi lungo ma fu di certo molto fervido, e di quel periodo ci sono almeno 5 avventure grafiche assolutamente da ricordare:

La prima è Maniac Mansion, considerata una delle prime avventure grafiche della storia, uscita nel 1987 e sviluppata con il game developer Gary Winnick, che l’anno prima aveva lavorato su Labyrinth sempre per la Lucasfilmgames.
Sviluppato inizialmente per Commodore 64, Maniac Mansion è la parodia di un classico film horror, dove si racconta la storia di un gruppo di giovani ragazzi che devono aiutare un loro amico a salvare la propria ragazza rapita dal pazzo dottor Fred Edison. Il gioco è interamente ambientato nella magione degli Edison e riscontrò un enorme successo dovuto all’innovativa modalità di gioco, all’ampio ventaglio di personaggi e alla possibilità di sceglierne 3 da gestire in parallelo nel corso gioco, agli enigmi ben congegnati, a un’umorismo grottesco e debordante e a una serie di trovate che caratterizzeranno la cifra stilistica di Ron Gilbert e della Lucas, la quale produrrà anche un seguito del gioco, Day of The Tentacle, sviluppato però da Dave Grossmann e Tim Schafer che da Gilbert prenderanno alcune idee.

Nel 1988, abbiamo Zak McKracken and the Alien Mindbenders, avventura che gode dello stesso stile grafico di Maniac Mansion ma che questa volta fa il verso a film del genere L’invasione degli Ultracorpi e alle storie sul controllo mentale alieno. Ideato da David Fox e con Ron Gilbert nel ruolo di designer, il gioco vede per protagonista Zak, un giornalista che scopre un complotto extraterrestre e dovrà fare di tutto per sventarlo, spaziando da scenari storici come Stonehenge, le Piramidi, Atlantide e arrivando sino a Marte. Anche qui si potranno controllare più personaggi, ma solo nel corso del gioco, quando in aiuto di Zak accorreranno la scienziata Annie e le studentesse di Yale Melissa e Leslie.

Un solo personaggio, ma di grande spessore, ha invece per protagonista l’avventura grafica dell’anno successivo, Indiana Jones e l’ultima crociata, uscita nello stesso anno del famoso film per sfruttarne il grande richiamo. La Lucasfilm Games affida l’operazione proprio a David Fox e Ron Gilbert e il livello qualitativo del gioco non risente del peso dell’opera cinematografica i quali inseriscono nel gioco una componente action finora inedita al genere, con combattimenti che rendono la storia più dinamica ma che il giocatore può scegliere di evitare tramite le giuste risposte nel corso i dialoghi, dando dunque al giocatore una possibilità di percorsi alternativi e accontentando così tutti gli utenti in relazione all’approccio preferito. Questa strada sarà poi ripresa nel successivo capitolo videoludico di Indiana Jones, l’acclamato Fate of Atlantis.

Ma è del 1990 quello che è considerato uno dei grandi capolavori di Ron Gilbert dell’epoca Lucas: parliamo di The Secret of Monkey Island, parodia piratesca che vede al centro il giovane Guybrush Threepwood, che sogna di diventare un temibile pirata e del quale si seguono le peripezie prima nelle tre prove affrontate sull’isola di Melèe e poi nella spedizione di salvataggio del governatore Elaine Marley, rapita dal temibile pirata fantasma LeChuck, che lo porterà a sbarcare proprio sulla mitica Monkey Island. É certamente il gioco della maturità per Ron Gilbert, dove trovano la massima espressione il suo umorismo grottesco, le sue idee più visionarie e una rinnovata visione del game design. In Monkey Island prendono finalmente forma compiuta le idee riguardo le avventure grafiche elaborate da Gilbert in questi anni di esperienza, idee che nel 1989 il game designer espresse in un breve scritto chiamato Why Adventure Games Suck, ovvero Perché i giochi d’avventura fanno schifo, un insieme di regole imprescindibili per le avventure grafiche che costituisce oggi un vero e proprio manifesto per chi sviluppa adventure game.

Il successo di The Secret of Monkey Island fu tale che nel giro di un anno ne fu realizzato il seguito, LeChuck’s Revenge, nel quale Guybrush si ritrova nuovamente ad affrontare il suo storico nemico, stavolta resuscitato da un suo tirapiedi, e a ricercare il tesoro nascosto di Big Whoop. Questo episodio, che vede il protagonista a navigare per varie isole, con un ampio numero di scenari, dialoghi spiazzanti e scene memorabili, gode di una storia complessa e curatissima, con virate surreali e inaspettate soprattutto nel finale, e con tutte le caratteristiche della narrativa di Gilbert, ricca di enigmi elaborati, quadri di gioco unici e humor dissacrante, ha contribuito a fare di Monkey Island una serie cult senza precedenti nel mondo videoludico, che ha visto produrre vari sequel non giudicati mai all’altezza.

Pur avendo subito il genere punta e clicca una forte inflessione negli ultimi 2 decenni, Ron Gilbert è tornato quest’anno in grande stile con Thimbleweed Park, dimostrando che le avventure grafiche hanno ancora molto da far dire a chi sa scriverle con arte.




Thimbleweed Park

Accendere lo schermo e ritrovarsi improvvisamente negli anni ’80 non appare più strano in un’epoca in cui vari campi dell’arte e della creatività si alimentano di revival. Il meccanismo della nostalgia ha portato alla produzione di svariate retroconsole (non ultima il Super Nintendo Classic Mini e l’ultimissimo Commodore 64), al successo di serie tv come Stranger Things, al ritorno di brand come AlienGhostbusters, Blade Runner e l’anno prossimo potremmo aspettarci un ragionevole successo di Ready, Player One, film a firma Steven Spielberg tratto dal best seller di Ernest Cline interamente improntato su riferimenti anni ’80: quale miglior momento per tornare con un’avventura grafica old style, in pixel art e ambientata, fra l’altro, nei rombanti eighties? Detta così, la nuova opera di Ron Gilbert potrebbe suonare come una grossa furbata, ammiccante a nostalgici e a vecchi fan lucasiani, e uscita nel miglior momento possibile. Ma è davvero questo Thimbleweed Park?

Back to the Mansion

Per i giocatori meno giovani (e per i più giovani che amano studiare un po’ di storia tra retrogaming e vecchie avventure grafiche), le texture e i personaggi sono un diretto richiamo a un unico titolo, quel Maniac Mansion capostipite dei moderni adventure game e pietra miliare del passaggio dall’avventura testuale a quella grafica. Uscito nel 1987 su Commodore 64Maniac Mansion fu una novità assoluta nel mercato videoludico, per l’originalità della storia narrata (una straordinaria parodia di un b-movie horror, con tanto di teenager per protagonisti), per la possibilità di manovrare 3 personaggi in parallelo, per quell’umorismo grottesco e debordante che sarà il marchio di fabbrica dei titoli della LucasFilm Games (poi LucasArts) a venire ma soprattutto perché finalmente “vestiva” ciò che fino a quel momento era stato solo un nudo susseguirsi di linee di testo. Non la prima avventura grafica della storia, ma certamente la prima di successo, al punto da meritarsi un porting su NES, territorio – quello delle console – nel quale il genere languiva. A distanza di 30 anni, gli stessi creatori di Maniac MansionRon Gilbert e Gary Winnick, hanno deciso di celebrare l’anniversario riportandoci indietro nel tempo, proprio in quel 1987 in cui uscì la loro prima, celebratissima avventura grafica.

Welcome to Thimbleweed Park

Ed eccoci dunque catapultati negli anni ’80 nell’amena cittadina di Thimbleweed Park, a vestire inizialmente i panni degli agenti Ray e Reyes, incaricati dal FBI di indagare su un cadavere riverso nel guado di un fiume. Ovviamente l’obiettivo sarà quello di raccogliere prove e interrogare gli abitanti del piccolo paese – ormai spopolato – per trovare il colpevole di quel che è un evidente un omicidio: ci sono le premesse del più classico dei racconti investigativi “made in U.S.A.”, e in effetti l’intento parodistico ha come target proprio storie di questo genere. Non è un caso che la coppia di agenti richiami la fisicità di Mulder e Scully di X-Files e che Thimbleweed Park sembri a tratti una grottesca Twin Peaks (le battute sul “bistrot” e sulle sue presunte prelibatezze, l’incendio alla fabbrica di cuscini, principale azienda della città, che ricorda da vicino quello della segheria; e poi, scusate, mi consentite di non considerare totalmente casuali le iniziali “TP”?). Apparirà subito chiaro – leggendo i loro block notes – che Ray e Reyes nascondono ben altri obiettivi. Nel loro peregrinare all’interno della cittadina, gli agenti entreranno in contatto con vari personaggi, tre dei quali – oltre loro – saranno sotto il diretto controllo del giocatore.

Personaggi in cerca di soluzione

Ed è qui che entrano in scena Ransome il Clown, il fantasma Franklyn e la supernerd Delores: il primo vittima di una maledizione che gli impedisce di togliersi il trucco di scena, il secondo condannato a vagare fra i piani dell’hotel del paese, e la terza tornata a Thimbleweed Park a seguito della morte del nonno Chuck (il nome vi richiama alla mente qualche villain dell’universo Lucas?), fratello di Franklyn (che, sì, è il padre di Delores), proprietario della fabbrica di cuscini e storico plenipotenziario del paese, onnipresente nei dialoghi con gli abitanti, dai quali si potranno trarre informazioni utili per il proseguimento della storia e per la soluzione di vari enigmi. Se i personaggi principali hanno caratteristiche marcate e tratti ben definiti che esprimono bene l’attenzione di Gilbert e Winnick nel delineare a fondo ogni character, questa si vede ancor di più nella cura dei NPC che – dalle sorelle Pigeon Brothers ai complottisti della radio, fino al polimorfo personaggio dello sceriffo-concierge-medico legale, una delle figure più riuscite di tutto il gioco – ci regala maschere straordinarie capaci di caricare ulteriormente il già grottesco e suggestivo quadro d’insieme, contribuendo in maniera decisiva a innalzare il ritmo di gioco e a rendere memorabile il deforme affresco della piccola cittadina americana.

Piccoli enigmi e grandi citazioni

Chi abbia già giocato alle avventure grafiche della Lucas non potrà non aver notato le numerose citazioni presenti in Thimbleweed Park, che spaziano da Maniac Mansion – della quale ritroviamo parte della villa, con l’orologio a pendolo all’ingresso e il salone munito di scala a chiocciola col cartello “out of order” – a Zak McKracken and the Alien Mindbenders (a citare entrambi i titoli basta una motosega) passando per The Secret of Monkey Island, i cui rimandi sono numerosissimi, non ultima la testa del navigatore, che tornerà anche qui utile in uno degli enigmi del gioco.
A proposito di quest’ultimi, pur non essendo proibitivi, non sempre i puzzle presenti risultano semplicissimi. Certo, saranno più avvantaggiati i giocatori avvezzi alle dinamiche dei punta e clicca di casa Lucas, i quali raramente ponevano quesiti risolvibili secondo i dettami logici dei classici puzzle ma, al contrario, costringevano al pensiero laterale, a grossi sforzi immaginativi, basandosi a volte su giochi di parole spesso di difficile adattamento sul piano linguistico (vedi gli enigmi della “red herring” e della “monkey wrench” proprio in The Secret of Monkey Island) e mettendo il giocatore a volte in condizione di dover tentare ogni combinazione possibile pur di andare avanti. I giusti indizi per risolvere ogni enigma non mancano ma, per chi volesse sforzarsi un po’ meno, è possibile selezionare una modalità facilitata, scremata dagli enigmi più ostici (ma mi sento di sconsigliarla).
Tornando in tema di citazioni, Gilbert e Winnick hanno messo in Thimbleweed Park un  bel po’ di autobiografia: il personaggio che più rappresenta gli autori è certamente Delores, che non a caso rappresenta una figura centrale nella storia. Delores riesce a realizzare il sogno di diventare una sviluppatrice di videogame, ed è chiaro come dalla sua scelta scaturisca, oltre alla rabbia del nonno che arriva a diseredarla, il disprezzo degli altri familiari (la sorella in primis) e lo scherno della gente comune. C’è un po’ della visione diffusa della società del tempo che sorrideva a chi dicesse di occuparsi di videogame (oggi va un po’ meglio, ma i passi da fare sono ancora tanti), ma ci sono anche chiari riferimenti gli albori della carriera di Gilbert, dal Graphics Basic, estensione per Basic creata nel 1983 con Tom McFarlane, al fantomatico developer MMucasFlem al quale Delores invia la propria candidatura.
Le citazioni non sono state colte né gradite dall’utenza più giovane e, nell’ultimo aggiornamento, assieme a una sala giochi con vari coin-op giocabili, Terrible Toybox ha aggiunto l’opzione “Citazioni Fastidiose“, attivabile da chi voglia fruire dei numerosi tributi all’universo Lucas presenti nel titolo.

Modernità eighties

Dal punto di vista visivoThimbleweed Park centra perfettamente il punto, unendo un art-style che richiama le avventure grafiche di fine anni ’80 (una su tutte, dicevamo, Maniac Mansion) ma che serba la sua attualità, offrendo ambienti e paesaggi che riescono a essere evocativi di un’epoca passata ma mai vetusti o polverosi, trasportando il giocatore in un altro tempo senza mai dargli la sensazione di essere alle prese con un prodotto figlio del retrogaming, e restituendo anzi un senso di forte modernità nonostante l’impianto grafico old style interamente in pixel-art.
Non può dirsi diversamente riguardo la colonna sonora, nella quale Steve Kirk riesce a compendiare ed enfatizzare il mood delle varie sequenze, chiudendo il cerchio di ogni ambientazione, mischiando sintetizzatori e strumenti classici (addirittura un Theremin) e alternando musiche d’ambiente a ritmiche proprie del rock progressivo. L’effetto ottenuto è quello che dicevamo prima, un retrò che conserva la sua modernità, in questo caso amplificando l’aura di mistero nel dipanarsi della storia, con il plusvalore di rafforzare “l’idea” di ogni ambiente attraversato dal giocatore: i suoni tenui del jingle che fa da sottofondo al Quickie Pal o il tema che suona all’ascensore dell’Edmond Hotel ne sono pregevoli esempli. Ma Kirk si mostra versatile anche nel dar voce al pezzo di Razor and the Scummettes (rock band capitanata dall’omonimo personaggio di Maniac Mansion, Razor appunto), dando prova di gran capacità mimetica nell’elaborazione di un tappeto sonoro steso sotto gli strani accadimenti della rocambolesca Thimbleweed Park, e non facendo per niente rimpiangere il MIDI delle colonne sonore dell’epoca.
Un paio di parole sui vari porting: per scrivere questa recensione, abbiamo interamente giocato la versione per PC in occasione della release del gioco a marzo  2017 (prima, quindi, dei vari aggiornamenti che abbiamo già citato) e rigiocato interamente quella per PS4 a settembre 2017; abbiamo inoltre testato quella per iPad, uscita sempre a settembre 2017; si attendeva per il 3 ottobre la release su Android, che sancirà la presenza di Thimbleweed Park su tutte le principali piattaforme disponibili adatte al gaming, ma Ron Gilbert ne ha annunciato il rinvio.
Le versioni differiscono fra loro quasi esclusivamente sul piano dei controlli, dove la prima (per PC) è ovviamente la più classica e anche la più congeniale al genere punta e clicca: giochi di questo tipo sono stati pensati prevedendo mouse e tastiera tra le mani del player e l’ultimo lavoro di Gilbert non fa eccezione, sancendo però un passo avanti in termini di tempistiche di gioco, fluidità e movimenti, e dunque di gameplay. I percorsi dei personaggi sono ottimizzati in modo da sottoporre il giocatore al minor numero di movimenti “inutili”, e consentendogli di giungere al punto di arrivo nel minor tempo. Su questo non fa eccezione la versione per PS4, la quale ha una minor rapidità di navigazione, ma marginale, tanto da non inficiarne l’esperienza. I tasti direzionali permettono di spostare il cursore e di selezionare i verbi d’azione da correlare agli oggetti presenti nell’inventario o nello scenario per muovere i personaggi e interagire con l’ambiente. Tramite il tasto X si potranno compiere le azioni e accelerare la velocità di movimento del personaggio, mentre il tasto quadrato permette di compiere le azioni che vengono suggerite su schermo. I tasti dorsali (L1 e R1) agevolano il passaggio fra i vari punti di interazione all’interno di ogni scenario, mentre L2 e R2 ci permetteranno di switchare comodamente fra tutti e cinque i personaggi. Scorrendo il dito sul tasto touch-pad potremo inoltre muovere il cursore come se avessimo un mouse, ma alla lunga questa opzione risulta poco comoda.
La versione mobile del gioco risulta altresì maneggevole e funzionale, lasciando invariata l’interfaccia e con il surplus di poter fare a meno del cursore: per spostarsi basterà ovviamente toccare il punto di destinazione, così come per utilizzare oggetti (cliccando sul verbo e poi sull’oggetto). Anche la scelta dei personaggi giocabili e la selezione dei dialoghi è facilitata dall’approccio interamente touch dei punta e clicca, che su mobile sembrano trovare una declinazione ideale, potendo far a meno del puntamento e consentendo al giocatore di cliccare direttamente la propria scelta, rendendo superfluo l’utilizzo di controller, mouse e tastiera che sarà reso possibile nella versione Android.

Come scrivere un Adventure Game

Nel suo storico microsaggio Why Adventure Games Suck, scritto nel 1989 e rivisto nel 2004, Ron Gilbert scriveva:

«One of the most important keys to drama is timing. Anyone who has designed a story game knows that the player rarely does anything at the right time or in the right order. If we let the game run on a clock that is independent from the player’s actions, we are going to be guaranteed that few things will happen with dramatic timing.»

Quello dell’equilibrio dei tempi drammatici è uno degli aspetti su cui il Grumpy Gamer (storico nickname di Gilbert, Ndr) si è sempre incaponito, e che ha caratterizzato negli anni la sua cifra di narratore, prima che di game designer.
Da questo punto di vista, Thimbleweed Park è un modello di arte del racconto videoludico, con tempi narrativi calibrati e un ritmo di gioco che non incespica, dove si gode di una storia scritta splendidamente. I dialoghi sono sulla falsariga dei grandi giochi Lucas, ma con ulteriori passi avanti sul piano stilistico, con una forza che Fabio “Kenobit” Bortolotti ha reso egregiamente in italiano, anche in situazioni impervie come quella di dover rendere intellegibile nella nostra lingua lo scozzese stretto del personaggio di Doug, trasposto in abruzzese, o quella di restituire al meglio l’irriverenza sboccata di Ransome Il Clown.
Non si parla soltanto dell’umorismo lucasiano di cui sono intrise le numerosissime linee di testo: la storia di Thimbleweed Park è figlia di una grande operazione metatestuale, che ci offre maschere vive nei suoi cinque personaggi in cerca di espiazione:  Franklyn, dal temperamento mite, dalla personalità debole ed estremamente remissivo, Ransome, sprezzante, cinico e sboccato, Ray, nella sua durezza e caparbietà, Reyes, un po’ tonto e risoluto, e Delores, tenace, idealista e controcorrente come dovrebbe essere un vero game designer.
È il percorso di una catarsi, quello dei protagonisti del Teatro dell’Assurdo di Thimbleweed Park, ognuno animato dalla propria singolare ricerca; una catarsi probabilmente impossibile all’interno della finzione videoludica, almeno finché il computer che le dà vita resta acceso, sembra dirci Gilbert dai meandri del wireframe, elaborando una storia che certamente ricorderemo.
Thimbleweed Park è un capolavoro di metaletterarietà che sul finale tocca picchi esistenziali come pochi, non meno di quanto lo fu (esistenzialista e metaletterario) quello di Monkey Island 2: LeChuck’s Revenge, unendo in un’armonia singolare il grottesco e il drammatico, il demenziale e il serioso in un’opera che è certamente una delle migliori produzioni di Ron Gilbert in tutta la sua carriera di game designer.




Slitta l’uscita di Thimbleweed Park per Android

Ron Gilbert ha annunciato sul sito ufficiale di Thimbleweed Park che il rilascio della versione Android dell’acclamato punta e clicca slitterà di una settimana, dal 3 al 10 ottobre. «La buona notizia», continua Gilbert «è che la build per Android supporterà controller, mouse e tastiera, nonché un più vasto range di hardware».
Gilbert ha spiegato inoltre il perché del ritardo del rilascio sul Play Store: «Lo sviluppo su Android è sempre duro a causa della vasta gamma di dispositivi destinatari. Quando siamo arrivati ​​alla fine del test, alcuni dispositivi hanno mostrato problemi di GPU che era necessario risolvere. Ci siamo impegnati a far sì che la versione Android funzioni con i controller, oltre che a mouse e tastiera, e questo richiede più tempo di quanto preventivato affinché tutto funzioni.»
In chiusura del post, Gilbert sdrammatizza alla sua maniera: «È dura quando la release di una versione di un gioco slitta, senti di aver fallito qualcosa. Ma si tratta solo di una settimana e avremo maggior compatibilità, oltre ai controller, al mouse e alla tastiera. Ho menzionato i controller, mouse e tastiera? Sì, li avremo.»

Thimbleweed Park è stato rilasciato a marzo 2017 per PC, ed è attualmente presente anche su PS4, Xbox, Nintendo Switch, iPhone e iPad.




Annunciate le date d’uscita di Thimbleweed Park per Switch e Mobile

Dopo essere approdato su PS4 lo scorso 22 agosto, si aspettavano soltanto le date di rilascio delle versioni per Nintendo Switch, iOs e Android, e l’annuncio delle date è arrivato: Thimbleweed Park arriverà prima su iPhone e iPad il prossimo 19 settembre, poi su Switch il 22 settembre per poi essere disponibile su Play Store a partire dal prossimo 3 ottobre.
L’ultima opera di Ron Gilbert e Gary Winnick sarà così disponibile su tutte le piattaforme di gaming, forte dell’ottimo riscontro di critica e pubblico che lo ha accompagnato a pochi mesi dall’uscita.

 




Thimbleweed Park, il trailer per Nintendo Switch

Ron Gilbert ha pubblicato il trailer della versione per Nintendo Switch di Thimbleweed Park, l’ultimo punta e clicca scritto con Gary Winnick e pubblicato dalla sua Terrible Toybox.
Ancora non si ha una data d’uscita, anche se ieri in un tweet il game designer ha rivelato una finestra di lancio:


Di seguito il trailer di Thimbleweed Park per Nintendo Switch:




Annunciata la data d’uscita di Thimbleweed Park su PS4

Thimbleweed Park arriva finalmente su PS4. Dopo un’attesa di alcuni mesi, anche i possessori della console potranno giocare il punta e clicca di Terrible Toybox a partire dal 22 agosto. La notizia è stata resa nota dallo stesso creatore, Ron Gilbert, in un post pubblicato su PlayStation Blog.
Per chi non conoscesse l’ultima opera del creatore di Monkey Island, si tratta di un’avventura  grafica in pixel art che si rifà ai grandi capolavori dell’epoca LucasFilm Games (Maniac Mansion su tutti, e non a caso è uscita in occasione del trentennale del gioco ed è ambientata nel 1987) ed è una riproposizione parodistica di una detective story dai contorni sovrannaturali che mette dentro elementi tratti dalla letteratura di Stephen King e da note serie tv quali X-Files e Twin Peaks. per offrire un’avventura davvero strana e meravigliosa.

Nel post pubblicato, Ron Gilbert precisa che gli utenti «meravigliati dalla precisione con la quale un punta e clicca funziona su console, senza un mouse», in ragione dell’enorme quantità di tempo spesa dall’intero team a perfezionare i controlli su pad senza far perdere le emozioni delle avventure degli anni ’80 e ’90. In realtà questo era già avvenuto sul NES, dove si può ricordare un porting di Maniac Mansion in 8 bit.
Ron Gilbert ha sviluppato il gioco affiancato da altri due grandi nomi della vecchia guardia Lucas, Gary Winnick e David Fox, e il riscontro della critica è stato estremamente positivo. Il gioco è già giocabile dal 30 marzo su PC, Mac e Xbox One. In attesa della data di rilascio dell’ormai confermata versione per Nintendo Switch, vi lasciamo al trailer di lancio per PS4: