Sessismo in casa Riot

Gli episodi di sessismo nel mondo del lavoro non sono purtroppo una novità, e nemmeno il nostro campo sembra salvarsi. Tempo fa abbiamo parlato della differenza dei salari medi tra uomini e donne all’interno delle software house, ma stavolta il caso è molto più specifico e intricato: la casa produttrice in questione è l’ormai ben nota Riot Games, che dietro la fama e i fatturati stellari nasconde un ambiente tutt’altro che favorevole per la crescita professionale del gentil sesso. Un’indagine condotta da Kotaku ha raccolto una serie di testimonianze da parte di 28 persone tra dipendenti ed ex dipendenti che dimostrano come la politica dell’azienda sia totalmente opposta alla sua “tolleranza zero su discriminazione, molestie e bullismo” e “celebrazione della diversità” che tanto afferma di rispettare.


Jinx, uno dei champion di League of Legends.

Le difficoltà per una donna che vuole entrare in Riot iniziano sin dal colloquio. Uno dei requisiti fondamentali per entrare è, manco a dirlo, quello di essere gamer, o meglio “core gamer“, anche per ruoli che non riguardano direttamente i videogiochi, come quello delle pubbliche relazioni o del marketing. Lo stesso co-fondatore Marc Merrill afferma che «assumere videogiocatori è un punto critico per il nostro successo». Ma le statistiche parlano chiaro: un’indagine statistica condotta da  Quantic Foundry su un campione di oltre 270.000 persone in tutto il mondo ha riportato che, tra gli assidui giocatori di MOBA, le ragazze costituiscono solo il 10%, addirittura il 7% se si parla di FPS. E se non ami questi generi, se non sei bravo, allora non sei un vero core gamer, o un “Rioter”, e le probabilità di essere assunto calano vertiginosamente, per quanto tu possa essere preparato o specializzato nel ruolo per cui ti stai applicando. Se oltre a questo porti anche la gonna, la situazione non può che peggiorare. Sarà per questo che l’80% del personale della software house è composto da maschi?
Una delle dipendenti che ha preso parte all’analisi di Kotaku ha raccontato di come, durante il suo colloquio, dopo aver esaustivamente risposto a tutte le domande, le fossero state chieste cose sempre più specifiche, come per cercare apposta qualcosa all’interno del suo profilo da giocatrice che non andasse bene. Nonostante fosse stata in seguito assunta, le fu detto che secondo il suo intervistatore lei non aveva la “grinta” per entrare in Riot e che non si sarebbe mai comportato in quel modo se al suo posto ci fosse stato un uomo. E anzi a lei andò bene; altre ragazze con un curriculum di tutto rispetto sono state scartate perché non erano “abbastanza gamer”.
In un altro caso, durante un colloquio telefonico con una ormai ex dipendente che aveva da sempre giocato agli RPG, le domandarono se avesse mai giocato a dei “veri videogiochi”, come Call of Duty.  Un’altra ex impiegata affermò di essere un’appassionata di giochi da tavolo, le venne detto che questo non la rendeva una gamer.
Un’altra ancora ha raccontato che quando si presentò per una posizione che non aveva a che fare con il lato gaming, non fu presa sul serio perché preferiva World of Warcraft a League of Legends.

«Ci sono tutti questi termini generici che vengono usati per trovare qualcosa di sbagliato nelle donne che però non sono specifici. Quando sento dire “lei è emotiva” direi “Okay, perché pensi che sia emotiva?” “Beh sembrava che si stesse emozionando troppo e che stesse sulla difensiva” “L’altro candidato ha fatto lo stesso e ti è piaciuto perché aveva grinta”. Perché è diverso? Forse perché questa persona è di sesso differente? Sento persone che confrontano due candidati di sessi diversi, ed entrambi possono essere dello stesso calibro e aver fatto lo stesso colloquio, ma descritti in modo differente»

Un’altra dipendente ha riferito via email a Kotaku  di aver sentito alcune candidate venire descritte come “aggressive” o “troppo ambizione”, mentre nulla è stato detto in merito alle loro effettive abilità. Per quando riguarda i colloqui con gli uomini, non ha mai sentito nulla del genere.


La sede di Riot Games a Santa Monica, California.

Ma le cose si fanno ancora più difficili per chi entra; dietro un ambiente ben curato dotato di palestra e caffetteria e con cibo gratis, si nasconde una realtà tutt’altro che serena, che rasenta il tossico. Anche col contratto ormai firmato, le Rioter dovranno fare i conti con altri episodi di sessismo e discriminazione: pochissime di loro riescono a essere promosse e ad avere una posizione di rilievo, e quando si preparano per fare il salto, nella maggior parte dei casi trovano quel posto magicamente già occupato da qualcun altro con cui sicuramente non condividono il bagno.
Sembra che non vengano neanche ascoltate, come racconta Lacy, una delle dipendenti che ha scelto di testimoniare, ma anche di lasciare la compagnia a causa di come veniva trattata. Un giorno provò a fare un esperimento, chiedendo a un suo collega di proporre un’idea di cui lei aveva già parlato durante una riunione, ma che non fu ascoltata, e proprio come immaginava, quella stessa idea venne accolta con incredibile entusiasmo.

«Qui la “Bro culture” è terribilmente reale. È come lavorare all’interno di una grande fratellanza»

Fortunatamente però, chi decide di restare non è totalmente solo. Soha El-Sabaawi, presente in azienda da più di due anni e mezzo e precedentemente a capo di un’organizzazione no-profit che aveva come scopo quello di aiutare e valorizzare le sviluppatrici di videogiochi, ha come obbiettivo quello si sensibilizzare a favore della diversità e dell’inclusione attraverso dei corsi, sia per i dipendenti che per gli intervistatori.

Le soluzioni dunque ci sono, le abbiamo davanti agli occhi, ma troppo spesso succede che anche chi crede davvero nel cambiamento quasi quasi perde le speranze nel vedere che dopo tutti gli anni e le parole spesi in favore dell’emancipazione e dell’uguaglianza ci si ritrova ancora in un mondo prevalentemente sessista, dove c’è ancora chi rischia di non potersi pienamente affermare nel lavoro o anche solo come persona, solo perché è nato con i genitali “sbagliati”. La storia del progresso umano è davvero curiosa: siamo riusciti a capire che siamo simili alle scimmie, ma non che tra di noi siamo tutti uguali.

Fonte: Kotaku




Phil Spencer e il valore della diversità nella cultura aziendale

L’argomento delle pari opportunità è uno dei più dibattuti oggi nei vari settori dell’economia. In tema di politiche del lavoro, la disparità (fra sessi, ma anche fra culture ed etnie) è un problema tutt’altro che superato. Ad onta di tutti i progressi fatti dall’uomo nel corso degli anni, a dispetto del traguardo di avere il primo Presidente di colore in uno dei paesi più industrializzati del mondo e di leader femminili che hanno dimostrato carattere e competenza, il modello imperante nel workplace occidentale sembra ancora prediligere più la figura maschile che quella femminile (determinando in vari settori anche una disparità di stipendi) e l’etnia caucasica sulle altre.
Per questo mi è parso importante quanto emerso nel keynote di Phil Spencer durante il DICE Summit 2018 tenutosi qualche giorno fa, e mi pare ancor più importante riprenderlo dato che pochissime testate italiane sembrano avergli dato spazio.
Il vicepresidente di Microsoft ha incentrato il proprio discorso sull’importanza di inclusività e diversità come caratteristiche distintive delle aziende moderne. In particolare, Spencer ha messo in luce quello che gli sembra sia uno dei dati più importanti riguardanti l’evoluzione della propria società, affermando che gli ultimi quattro anni della gestione di Satya Nadella hanno comportato una grande autocoscienza e crescita all’interno della compagnia di Redmond in termini di ambiente di lavoro. Ogni leader della multinazionale ha avuto il compito di analizzare criteri e modi con cui vengono messi insieme i team, nonché il modo di lavorare sui progetti, il team building, la valorizzazione delle diverse risorse umane e l’impegno quotidiano profuso da ognuno per rendere Microsoft un luogo sicuro e inclusivo per tutti i lavoratori, imprimendo così un cambio di rotta in termini di cultura aziendale:

«Questa era, ed è tuttora, un’impresa portata avanti da 100.000 persone: con il compito di creare una cultura più innovativa, più efficace e più rappresentativa possibile, in modo che tutti possano fare del proprio meglio insieme. Non si tratta di una “cultura per la cultura”, ma di un cambiamento con un reale impatto collettivo.
Raggiungere questo obiettivo richiede una “mentalità improntata alla crescita”, perché creare una cultura che rappresenti e tratti tutti equamente è un processo che non finisce mai veramente.»

Spencer ha ricordato il noto after-party di Microsoft alla GDC del 2016, che fu bersagliato da accuse di sessismo, definendo quell’episodio «inequivocabilmente sbagliato, inequivocabilmente sessista e inequivocabilmente intollerabile», e aggiungendo che quella festa ebbe luogo in un momento in cui Microsoft stava invece impegnandosi a lanciare un messaggio del tutto opposto a quello veicolato in quell’occasione.
Il rinnovamento della cultura interna è oggi un fattore molto importante per Microsoft, continua Spencer, rimarcando come, per imprimere un cambiamento, non bisogna assecondare nei fatti (anche non agendo) ciò che non si approva sul piano morale, e invitando i colleghi a sposare questa filosofia. Il ruolo degli operatori di settore in visione di un simile cambiamento è infatti decisivo, sia all’interno (per la creazione di un ambiente di lavoro sano e non discriminatorio), sia all’esterno, agendo sulle proprie community: i videogiochi rappresentano un punto di accesso comune per le persone che approcciano alle nuove tecnologie, e prova ne è il crescente numero di gamer in nazioni come Brasile, India e in certe parti dell’Africa. Il vicepresidente di Microsoft ha quindi invitato gli esponenti dell’industry a mostrarsi coesi per risolvere i problemi all’interno delle community dei loro giochi, dove alcune minoranze di utenti “tossici” tendono a rovinare l’esperienza degli altri giocatori con comportamenti razzisti, verbalmente violenti, o discriminatori, ed elogiando il tal senso il gran lavoro di Riot Games e, in particolare, di Jeff Kaplan e del team di Blizzard al lavoro su Overwatch.

Spencer torna infine sul tema delle pari opportunità, citando uno studio del professor Adam Grant della Wharton School (la business school dell’Università della Pennsylvania) che ha ancora una volta messo in luce come i leader di sesso femminile siano attualmente sottovalutati sul lavoro rispetto ai propri omologhi maschili, e come questo possa costituire un doppio handicap se il leader, oltre a essere donna, è anche di colore. Questo comporta che, in caso di fallimento, il leader donna paghi per i propri errori in maniera spropositata.
Il problema della parità dei sessi sul luogo di lavoro è quanto mai serio e attuale, e il vicepresidente di Microsoft ne ha fatto uno dei perni del proprio keynote, richiamando i colleghi alla responsabilità verso il cambiamento:

«Possiamo fare di meglio. Io e il mio team stessi possiamo fare ancora meglio. Noi, come industria, dobbiamo impegnarci a far meglio ed estirpare questa cultura distorsiva. E dobbiamo capire presto come farlo, perché innumerevoli studi dimostrano che i team con maggiore diversificazione [sessuale, razziale e culturale] sono i più creativi,  i più innovativi e i più propensi a risolvere i grandi problemi. In altre parole, facciamo del nostro meglio affinché i componenti del nostro team possano ampliare a vicenda la loro visione delle cose.»

Spencer pare ottimista, riguardo la crescita di una cultura dell’inclusività: esempi come Wonder Woman, Get Out, Coco e Black Panther nel cinema sono significativi riguardo l’attenzione verso chi finora è stato discriminato, e crede molto nel lavoro  che possono fare i videogame in tal senso.
Negli ultimi anni, c’è da dire, le eroine non sono mancate: soltanto lo scorso anno abbiamo avuto Aloy in Horizon Zero Dawn, Senua in Hellblade, perfino una coppia al femminile in Uncharted: L’eredità perduta, un Life is Strange: Before The Storm ancora interamente al femminile. Questi soli titoli da soli non determineranno un cambiamento culturale immediato, ma sono di certo una secca smentita a tutti quei giocatori che, a dispetto di Lara Croft, diffidano ancora dei protagonisti femminili e li considerano “di scarso appeal”, ritenendo il gaming appannaggio degli uomini, ignorando statistiche che non vedono affatto un divario ampio tra i due sessi, e riflettendo mestamente un pensiero fin troppo diffuso.
C’è da sperare che l’industry videoludica metta seriamente in atto le parole di Spencer e che quelli del settore dei videogame possano essere i primi passi in avanti verso un mondo più equanime e inclusivo.