I videogiochi possono renderci più aggressivi?

Quante volte vi è capitato, magari quando eravate più piccoli, di sentirvi dire dai vostri genitori che l’ultimo videogioco che vi hanno comprato non è adatto a voi perché troppo violento e che questo può influenzarvi negativamente? O di aver sentito innumerevoli telegiornali etichettare Call of Duty e GTA come le cause principali di un omicidio o attentato? Il rapporto tra violenza virtuale e reale è un tema presente da anni e specialmente in questo periodo, con le parole di Donald Trump in merito all’argomento, le considerazioni si sprecano.

Un video pubblicato dal canale della Casa Bianca che si schiera contro la violenza nei videogiochi.

Eppure, nessuno studio ha mai confermato che giocare assiduamente a titoli violenti porti a essere tali nella vita vera, al contrario può portare a diversi benefici (come potete leggere qui). Fortunatamente un altro esperimento condotto di recente arriva a sostenere che uno dei nostri hobby preferiti non ci porta a diventare degli assassini senza scrupoli: secondo Douglas Gentile, psicologo dello sviluppo ed ex Director of Research del NIMF (National Institute on Media and the Family) giocare abitualmente a quel tipo di giochi porti a essere generalmente più aggressivi, ma fa anche una grossa distinzione tra l’aggressività e la violenza fisica. Per aggressività non si intende il senso pieno del termine, ma bensì si riferisce all’indole che è insita in ognuno di noi: nessuno si vede come una persona totalmente cattiva, ma a tutti capita di compiere delle azioni non proprio buone, ma che non sono definibili crudeli, come rispondere male a qualcuno di proposito o ignorarlo, o ancora dire qualcosa di non propriamente carino per il puro scopo di insultare; Gentile con il suo essere “kind of mean” intende proprio questo.

Al suo esperimento hanno preso parte 3000 bambini di Singapore: inizialmente è stato misurato il tempo passato davanti a videogiochi violenti e in seguito come questi mostrano di essere dei “bimbi cattivi” concentrandosi su tre criteri: in che misura si accettano le cose fastidiose che accadono e se si pensa che queste siano in un qualche modo fatte di proposito, come si reagisce alle provocazioni decidendo se è il caso di rispondere in maniera cattiva o meno, e infine le fantasie aggressive, ovvero pensare a come sarebbe essere più o meno cattivi davanti ad altri. Secondo gli studi di Gentile, i bambini che passano più tempo davanti a giochi con scene cruente sono quelli che mostrano di più questi tipi di pensiero.
Questo non vuol dire che tutti i videogiocatori di shooter e simili diventano automaticamente aggressivi, ma influenza allo stesso modo di un film o una serie tv di quel genere, o di quegli imprevisti che accadono nella vita di tutti i giorni come macchiarsi la camicia col caffè o far cadere lo smartphone per terra e scoprire che lo schermo si è rotto; nessuna di queste cose è degna di accuse tanto grandi come quella di causare omicidi di massa o sparatorie nelle scuole, né tanto meno i videogiochi, infatti Gentile è apertamente in disaccordo con chiunque affermi il contrario. Ciò su cui invece è d’accordo e che consiglia di fare sopratutto ai genitori con figli piccoli è quello di osservare il rating di età e di informarsi su che tipo di contenuti offre il gioco che si sta per acquistare.
Ma quindi, perché scagliarsi a mani basse su questo media? Perché nessuno ha mai incolpato film o libri che portano lo stesso tipo di contenuti? Ovviamente nessuno di questi ha colpa, ma la risposta potrebbe derivare dal fatto che il videogioco agli occhi di molti è ancora qualcosa di sconosciuto e di difficile comprensione, e purtroppo, come la storia ci insegna, questi termini vanno spesso a braccetto con sbagliato o pericoloso. Semplicemente sarebbe più facile rendersi conto che come il sangue che si vede in tv è “solo salsa di pomodoro” e le persone che muoiono sono tutti attori, nei videogiochi sono semplicemente file ISO ed effetti sangue. Niente induzione alla violenza, solo intrattenimento.




Sparatoria Florida: il governatore del Kentucky contro i videogiochi

Mercoledì a Parkland, in Florida, un 19enne considerato da tutti un appassionato di armi ha aperto il fuoco in una scuola superiore, uccidendo 17 persone. L’ennesimo attacco sul suolo americano che ha riacceso il dibattito sulle origini di tanta violenza. Lo stesso Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, è intervenuto introducendo un discorso riguardo il «declino della cultura moderna», facendo orecchie da mercante sul vero problema presente sul suolo americano, ovvero la facilità con cui si riesce a reperire armi.

Su questa scia troviamo anche Matt Bevin, governatore del Kentucky, secondo il quale i videogiochi hanno un ruolo cruciale riguardo la «cultura della morte che oggi così facilmente celebriamo», che fondamentalmente è la principale responsabile di incidenti come questo. Bevin in un’intervista per Leland Conway:

«Alcuni videogiochi sono limitati a un pubblico adulto ma tutto il mondo sa che anche i bambini li giocano. Esistono titoli che fanno delle stragi il loro punto di forza, premiando la loro riuscita e l’omicidio di qualcuno che in quel momento chiede pietà. Parlo di videogiochi quotati, anche protetti dal Primo Emendamento.»

Ha poi continuato, riferendosi alla sentenza della Corte Suprema:

«Le reputo spazzatura, come la pornografia: desensibilizza le persone rispetto al vero valore della vita umana, alla dignità delle donne, alla dignità dell’umanità, e stiamo raccogliendo ciò che abbiamo seminato.»

Bevin ha chiesto ai media di assumersi le responsabilità di ciò che rilasciano e continua:

«Perché abbiamo bisogno di videogiochi che incoraggino le persone a uccidere altre persone. Che si tratti di romanzi, che si tratti di Serie TV, che si tratti di un film, chiedo ai produttori di domandarsi quale sia il reale valore dei loro lavori, oltre la speranza di un guadagno. Ma a quale prezzo?»

I videogiochi, così come altri media di intrattenimento, sono dunque per Bevin la causa che ha snaturato la moralità della società moderna. Secondo il governatore, i genitori hanno smesso di educare i propri figli, liberandosi delle loro responsabilità e permettendo ai bambini di «creare le proprie regole senza conseguenze».
Questa però non è la prima volta che Bevin si scaglia contro i videogame in seguito a una strage scolastica. In un video presente su Facebook, in seguito alla sparatoria di Boston dello scorso Gennaio, aveva puntato il dito contro i videogiochi come parte di quell’industria di intrattenimento che «abitua i giovani a una realtà tragica dove la morte è una costante permanente».

Negli Stati Uniti i videogiochi sono assiduamente accusati di avere un ruolo fondamentale in queste stragi, a partire dalla famosa sparatoria di Columbine avvenuta nel 1999 i cui responsabili sarebbero stati dei fan del videogioco Doom. L’assassino della strage alla Virginia Tech del 2007 era solito giocare a Counter-Strike, noto sparatutto, mentre il norvegese Anders Behring Breivik amava Call of Duty. Ma la campagna anti-videogiochi ha toccato il fondo, rendendosi ridicola, per opera dell’avvocato Jack Thompson, che aveva addirittura citato in giudizio Grand Theft Auto IV. Il dubbio che i videogiochi possano avere delle responsabilità ha sfiorato anche Barack Obama, ex presidente degli Stati Uniti d’America che aveva sensibilizzato i centri per il controllo delle malattie a studiare gli effetti dei videogiochi violenti.

Per quanto gli studi siano stati davvero tanti, non si è mai trovata una correlazione tra videogiochi e comportamenti violenti. Che sia invece la facilità con cui un ragazzo, un adulto riesca a procurarsi un’arma all’interno del territorio USA? Perché puntare il dito contro qualcosa che si odia, in questo caso l’industria dei videogiochi, è molto più semplice e veloce che creare una legge che limita la vendita delle armi.

L’industria videoludica non è un mezzo che trasmette violenza. Molto spesso risulta essere un metodo d’intrattenimento culturale in grado di insegnarci qualcosa di importante, raccontandoci una storia e che riesce a spiccare con l’arte e la creatività degli sviluppatori, che con enorme passione provano a plasmare qualcosa che faccia leva sui sentimenti dei videogiocatori.