Il Nintendo Virtual Boy: dal concetto al flop

È incredibile come oggi la tecnologia dei visori per la realtà virtuale sia (quasi) quella che già, a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, si sognava a occhi aperti. Da quei giorni fino a oggi i VR headset sono esistiti ma ben fuori dal mercato dei videogiochi: alla NASA, già negli anni ’70, i visori VR venivano già utilizzati all’ordine del giorno per esercitazioni e simulazioni di diverso tipo. I videogiochi sembravano il perfetto campo d’applicazione per questo tipo di tecnologia: già negli anni ’60 la giovanissima SEGA lanciò Periscope che, per quanto fosse un gioco elettromeccanico, preannunciò in qualche modo come fosse possibile immergersi in un mondo artificiale tramite più sensi possibili; più avanti nel tempo, Atari lanciò Battlezone, un vero antenato dei VR headset visto che per giocare bisognava guardare attraverso un telescopio (e il successo divenne tale che questo si trasformò in The Bradley Trainer, un vero e proprio strumento utilizzato per le esercitazioni dei capocarro). Ai giocatori servirono ben pochi assaggi per immaginare questa splendida tecnologia: fin dove ci si poteva spingere con la tecnologia? Fin dove era possibile arrivare? Ma soprattutto, quando il mercato avrebbe per messo ai giocatori di avere un personalissimo headset VR? In un mondo pieno di sogni e speranze, Nintendo un giorno provò a consegnare un primo prototipo di visore VR (anche se in realtà era una console) che potesse essere economico e aprire le porte della realtà virtuale, ma che invece finì per essere uno dei più tremendi fallimenti commerciali nella storia dei videogiochi. Oggi, in vista del rilascio del nuovissimo visore VR Nintendo tramite la linea di prodotti Labo, vi parleremo del loro primo vero esperimento in questo campo, un evento che, probabilmente, posticipò di molto l’arrivo dei visori VR su larga scala in attesa di una migliore tecnologia accessibile a tutti. Qui su Dusty Rooms vi parleremo del famosissimo incubo rosso nero… no, non l’AC Milan, ma il Nintendo Virtual Boy!

Il Private Eye

Che ci crediate o meno, le radici del Virtual Boy risalgono al 1985, una decade prima del suo rilascio, prima ancora del rilascio del Game Boy e del Super Nintendo. Tuttavia il concetto di questa macchina non nasce a Kyoto ma a Cambridge, in Massachusetts, dalla mente di un abile ingegnere che lavorò al primo scanner piano per computer. Allen Becker, per via del suo lavoro, era costretto a spostarsi spesso per lavoro e ciò significava salire a bordo di tanti aerei: ai tempi erano molto stretti e molti dispositivi elettronici, come il popolarissimo Walkman o i primi computer portatili, non potevano essere accesi durante il volo. Anche se non ci fosse stato alcun divieto, era impossibile portare un computer portatile all’interno di un aereo e poter continuare a lavorare in viaggio: questi dispositivi esistevano già ma erano molto inferiori ai computer fissi, serviva un’alimentazione fissa e, per quanto portatili, era impossibile usarli negli angusti sedili degli aerei dei tempi.

Di lì a poco, Allen Becker si mise a lavorare a un qualcosa che potesse funzionare come un PC ma che fosse piccolo e comodo da usare in ogni situazione. L’idea era quella di costruire qualcosa composto da due pezzi: un piccolo computerino da attaccare a un piccolo schermo. Ma come fare? I monitor CRT a tubo catodico, la migliore tecnologia per l’epoca, richiedevano troppa potenza ed erano troppo ingombranti, e gli LCD, per quanto impiegati in oggetti come calcolatrici, radiosveglie e orologi da polso, non erano al passo coi tempi in quanto serviva ancora molta ricerca e sviluppo. La scelta così cadde sul LED, strumento con la quale Becker lavorò proprio per il suo scanner. Intorno a quei anni un famoso scienziato e inventore di nome Raymond Kurzweil, una delle menti più grandi degli ultimi secoli, usò il suo scanner per creare una macchina che potesse aiutare i ciechi a leggere; ispirato da questa idea, la sua intenzione era quella di utilizzare i LED, che muovendosi velocemente scannerizzavano un testo per poi trasmetterlo allo schermo del PC, per proiettare le immagini direttamente alla retina dell’occhio umano. Per proiettare un immagine serviva che questi LED fossero in costante movimento, cosa che poteva provocare forti danni alla retina; con un colpo di genio, Allen Becker decise di far proiettare l’immagine dei LED a degli specchi che oscillavano per 50 volte al secondo, in modo da non nuocere all’utente e trasmettere un immagine ancora più nitida e chiara. In assenza di finanziamenti per poter avviare un prototipo, l’ingegnere cominciò ad utilizzare pezzi di alcune stampati per poter creare delle bozze e fu proprio in questo periodo che la scelta cadde sui LED rossi: per quanto all’apparenza fosse una scelta poco saggia, in quanto per funzionare avevano bisogno del buio, in realtà si poteva rivelare una scelta vincente, poiché i LED rossi erano i più comuni e i meno costosi e dunque la sua invenzione finale poteva essere prodotta economicamente e venduta a prezzi competitivi. Inoltre, essendo ancora nel 1986, da lì alla realizzazione del prodotto finale, la tecnologia poteva migliorare ancora di più, perciò non c’era bisogno di preoccuparsi più di tanto. In sei mesi di lavoro, utilizzando la tecnologia che venne in seguito da lui battezzata come “Scanned Linear Array“, Alan Becker creò il primo prototipo del Private Eye nel 1987, un micro schermo per computer composto da un cerchio, da appoggiare alla testa esattamente come una corona, che regeva un piccolo dispositivo che si andava a posizionare davanti all’occhio dell’utente.
Il Private Eye non nasceva come videogioco, Alan Becker visionava la sua creazione per scopi ben diversi dal gaming: egli sperava infatti che i chirurghi potessero utilizzarlo per tenere sempre sotto controllo la scheda del paziente e gli esiti delle risonanze magnetiche durante le operazioni, che i meccanici potessero utilizzarlo per tenere i manuali delle auto (letteralmente) sott’occhio e che l’utente comune potesse utilizzarlo per altri usi, come ad esempio alla guida per dare una sbirciata alle mappe. Se ci pensate, Allen Becker anticipò il concetto dei Google Glass di quasi ben 25 anni!
Fondata la Reflection Technology nel 1987 Allen Becker andò subito alla ricerca di investitori ma, sebbene il Private Eye attrasse qualche interesse da parte di alcune compagnie aeree, nessuno finanziò questo rivoluzionario progetto perché era troppo difficile immaginarne degli impieghi reali – in questo caso si può dire che la sua invenzione era davvero “troppo avanti”. Tuttavia nulla era perduto, bisognava solamente trovare un altro impiego per questa tecnologia.

Verso il gaming

Negli anni ’90 si assistette a grandi rivoluzioni tecnologiche: la grafica 3D diventava sempre più facile da processare, gli effetti speciali al cinema si facevano sempre più reali e film come Il Tagliaerbe (The Lawnmower Man) non facevano altro che alimentare le fantasie degli appassionati di tecnologia, computer e videogiochi di tutto il mondo. Nelle fiere come il Consumer Electroincs Show veniva dedicato dello spazio per i visori per la realtà virtuale ma il tutto era a uno stadio primitivo: Reflection Technology creò un prototipo di un visore letteralmente mettendo due Private Eye su un casco da saldatore e, nonostante la bizzarra idea, il loro fu uno dei visori più apprezzati durante le fiere. Veniva avviata una demo di un gioco in cui si era alla guida di un carro armato, esattamente come in Battlezone di Atari (alcuni pensano che il gioco fosse proprio quello) e, fra i tanti stand, il loro riscosse un grande successo fra appassionati e non. Reflective Technology aveva creato, quasi accidentalmente, una realtà virtuale con pochissime risorse, facile da produrre e persino divertente! Per tale motivo servivano investimenti, ma compagnie come Hasbro e Mattel, per quanto interessate, non volevano ancora nulla a che fare con gli headset VR, specialmente per il fatto che la tecnologia per l’headtracking era agli albori: era lenta, imprecisa e per tanto avrebbe avrebbe assicurato motion sickness agli utenti. A questo punto, visto che ormai il suo scopo era chiaro, era meglio presentare il Private Eye direttamente alle compagnie videoludiche.

(Eh… Non ci sono più gli headset di una volta!)

Alan Becker raggiunse per prima Sega, dove fu accolto da uno scettico Tom Kalinske che respinse il progetto. Il motivo principale, oltre ai problemi relativi al motion sickness, fu proprio il singolo colore: Sega aveva già lanciato il Sega Game Gear cui era in grado di gestire una palette capace di 4096 colori. Lanciare un prodotto così, dopo l’incredibile Sega Mega Drive, e il Game Gear che riscuoteva un buon successo grazie alla promozione dei suoi vantaggi rispetto alla concorrenza, rappresentava un grosso rischio per la compagnia, e così Sega decise di tirarsene fuori (magari avesse pensato così prima del lancio del 32X).
Becker non si scoraggiò e invece andò dalla concorrenza per riscontrare il risultato opposto: Reflection Technology mostrò a Nintendo le capacità del loro visore e tutti ne rimasero sorpresi, soprattutto una delle persone chiave della compagnia, Gunpei Yokoi, il padre del Ultra Hand, dei Game and Watch e del magistrale Game Boy. Il sistema di Becker sembrava realmente ispirato dalla sua filosofia (che a tutt’oggi influenza Nintendo): utilizzare una tecnologia superata per poterla riutilizzare in modi diversi, sfruttandola al limite delle sue capacità, guadagnando bene con una produzione che si manteneva a costi contenutissimi. Il Nintendo Gameboy, in poche parole, era la perfetta rappresentazione della sua filosofia: grazie allo schermo monocromatico riuscì ad avere il più grosso vantaggio sui competitor, punto sulla quale né SegaAtari col loro Lynx si concentrarono, ovvero la più lunga durata delle batterie (per giunta ne servivano due in meno rispetto alla concorrenza, che ne utilizzava sei), nonché una piattaforma semplicissima per ciò che riguardava la programmazione da parte delle 3rd party. Le aree create tramite l’uso dei LED potevano dare un senso di profondità potenzialmente infinito in quanto il contrasto per gli oggetti era semplicemente il buio stesso, un vuoto di colore; era esattamente quel tipo di cose che interessavano a Gunpei Yokoi che, prossimo alla pensione, odiava il fatto che il mondo del gaming si stesse interessando troppo alle tecnologie e meno al core gameplay, alla fantasia e la genialità dei giochi e dei dispositivi stessi. Un secondo meeting fu organizzato con i piani alti di Nintendo, in cui Yokoi e Becker presentarono il prototipo di quello che poteva essere un nuovo prodotto da lanciare… durante l’incontro, Hiroshi Yamauchi si addormentò! Becker e Reflection Technology non potevano fare altro che interpretare che quel gesto come disinteresse per il loro prodotto, un ulteriore fallimento, ma Gunpei Yokoi e altri funzionari Nintendo li rassicurarono dicendogli che in realtà… era una reazione più che positiva! Il business in estremo Oriente è ben diverso da quello di stampo americano o europeo e Yamauchi ne incarnava tutte le caratteristiche: il fatto che dormisse significava che stava letteralmente facendo “sogni tranquilli”, era così confidente in Gunpei Yokoi che non c’era alcun bisogno di intervenire (una cosa simile accadde quando Nintendo accolse i funzionari Atari per una possibile distribuzione del Famicom in Nord America, meeting in cui Hiroshi Yamauchi entrava e usciva dalla stanza per sottolineare quanto fosse impegnato e che se Atari non avesse colto l’occasione al volo avrebbero potuto perderla). In poche parole quel gesto si traduceva con “totale approvazione“, e così fu: Reflection Technology ricevette 10 milioni di dollari per avviare il segretissimo “Dragon Project“, che fu subito dopo rinominato “VR32“.

(Gunpei Yokoi)

Il travagliato sviluppo: tagli e compromessi

Il prodotto in quello stato (un casco per saldatori con due Private Eye collegati a un unità centrale) non poteva assolutamente essere venduto, e pertanto doveva essere ridisegnato. Gunpei Yokoi avanzò l’idea di costruire un visore con la console stessa inserita al suo interno, insieme a un sistema di head tracking che avrebbe permesso al giocatore di avanzare nel mondo 3D camminando nella realtà; il leggendario inventore di casa Nintendo descrisse il concetto come una “Virtual Utopia” e fu considerato come uno dei nomi finali per la console (ciò è riflesso nelle cartucce dei giochi del Virtual Boy che includono la sigla VUE nei numeri seriali). Per il processore si optò per un chip 32 bit (NEC V810), la scelta ideale per creare della grafica poligonale ma, per via delle radiazioni emesse da questo dispositivo, tenendo in considerazione che la console doveva essere tenuta in testa per giocare, furono costretti a chiuderlo in una sorta di scatola di metallo spesso per evitare danni di qualsiasi tipo. L’aggiunta di questo componente rese il visore pesantissimo e così si optò per una sorta di tracolla mista a uno stand per mantenere il sistema di head tracking e movimento. A questo punto i legali Nintendo misero in alt il progetto di Gunpei Yokoi: si preoccupavano soprattutto per i più piccoli che sarebbero potuti inciampare per casa con il visore in testa, il Virtual Boy poteva diventare una vera e propria causa di infiniti incidenti domestici. La ricerca sull’head tracking non andava neppure bene in quanto non era ancora perfettamente sincronizzata coi movimenti della testa e provocava ancora motion sickness; fu così che il Virtual Boy fu relegato a quel buffo stand che oggi conosciamo (e amiamo, in qualche modo), rendendolo così a tutti gli effetti una console casalinga (nonostante sia stata promossa più in là come console portatile, con il nome rafforzato per altro da quel “Boy” che lo legava al retaggio dell’incredibile Gameboy).

I primi giochi sviluppati utilizzavano una grafica 2D abilmente disegnata per dare quel senso di profondità che ci si poteva aspettare, dunque un finto 3D. Gunpei Yokoi voleva comunque implementare un ulteriore chip per poter rendere elementi 3D pienamente poligonali e mappati ma ancora una volta fu bloccato: Nintendo aveva già speso considerevoli somme di denaro per lo stampo fisico della console, perciò non si poteva tornare indietro, e fu così che la console rimase solo con un unico chip 32 bit non capace di poter rendere quelle immagini 3D che tutti quanti si aspettavano. Nonostante lo scetticismo che cominciava a crescere in Gunpei Yokoi, Nintendo era così confidente sul Virtual Boy che sperava di lanciarlo come quarto progetto principale; fu addirittura aperta una nuova fabbrica in Cina per produrre esclusivamente il nuovo prodotto!

Cambi di programma e il disastroso lancio

Seppur l’arrivo del Virtual Boy fu accompagnato con un particolare entusiasmo, Hiroshi Yamauchi sentiva la pressione dei competitor Sega e Sony che avrebbero lanciato i loro Saturn e PlayStation alla fine del 1994; l’Ultra 64 (precedente nome del Nintendo 64) sarebbe stato pronto solamente nel 1996, quindi era necessario immettere un prodotto nel mercato il prima possibile. In tutto questo però le cose al dipartimento di ricerca e sviluppo 1 (R&D 1), dove veniva sviluppato il Virtual Boy, non andavano per niente bene, e piano piano i fondi necessari per il miglioramento di questo dispositivo (molto difficile da gestire in quanto doveva produrre grafica 3D senza poligoni, con due schermi all’interno del visore e con meno elettricità possibile per mantenere la sua “portatilità”) furono trasferiti al più concreto progetto del Ultra 64 gestito dal R&D3, il quinto prodotto. L’attenzione per il Virtual Boy calò gradualmente dal 1995, e ciò lo si può riscontrare a tutt’oggi nella libreria dei giochi della console: la presenza di Mario nella console fu limitata a soli due giochi, mentre di The Legend of Zelda, Metroid e altri franchise principali non se ne parlava neanche, eppure questa strana macchina doveva essere lanciata nel mercato nonostante tutto. Ultimata la console, questa finì fra le mani del dipartimento marketing che doveva promuovere la console evitando ad ogni modo di non distogliere l’attenzione dal Nintendo 64. Le pubblicità lanciate più in là per il Virtual Boy, nonostante fossero molto strane, riscontrarono un buon successo in quanto puntavano al (reale) fatto che senza provare la console di persona non si poteva neanche avere un idea di come fossero i giochi. Il lancio era prossimo e il Virtual Boy doveva competere con Sega Saturn e Sony PlayStation, console ben fuori dalla sua portata e con… più colori!

(Perché scappare dal Virtual Boy? Non dovrebbe essere una console rivoluzionaria?)

Il Virtual Boy fu rivelato al pubblico in Giappone il 15 Novembre 1994, per lo Shoshinkai Software Expo, esattamente una settimana prima del lancio del Sega Saturn. Le reazioni del pubblico furono miste: da un lato la gente apprezzò la grafica (simil) 3D ma dall’altro rimase delusa per il singolo colore rosso e l’esorbitante prezzo di 15.000¥ (199,99$), molto più alto del prezzo di un Gameboy o persino di un Super Nintendo, macchine che offrivano un alternativa già visivamente superiore (pur essendo 8 e 16 bit rispettivamente).
Qualche mese dopo il Virtual Boy riscontrò gli stessi pareri negli Stati Uniti ma lì gli venne dato il beneficio del dubbio: il NES non riscontrò grandi pareri positivi alla presentazione, né il landscape videoludico sembrava a loro favore ma alcuni erano sicuri che il Virtual Boy avrebbe venduto almeno 3 milioni di unità. Tuttavia c’era un punto ancora non chiaro sulla vita di questa nuova console, ovvero la sicurezza della console stessa. Quei pochi che comprarono le prime unità sia in Giappone che negli Stati Uniti nelle date del lancio (21/07/1995 e 14/08/1995) trovarono una confezione colma di avvertenze per la salute dei giocatori, persino sulla facciata principale della scatola! Si sparse immediatamente la voce, soprattutto in Giappone, che il Virtual Boy fosse un dispositivo tremendo per gli occhi dei giocatori e che avrebbe potuto portare persino alla cecità. In realtà, a questo punto bisogna spezzare una lancia a favore del Virtual Boy e sfatare un mito che da sempre avvolge questa console:  Nintendo chiese a Reflection Technology di condurre ricerche sulla sicurezza di questa nuova console e pertanto un Virtual Boy fu mandato allo Shepens Eye Research Institute a Boston. I risultati furono più che normali, il Virtual Boy era a ogni modo sicuro ma era comunque raccomandabile non farlo usare ai bambini sotto i sette anni poiché lo sviluppo dell’occhio, a quell’età, non è ancora completo. Tuttavia Nintendo rilasciò il Virtual Boy prima ancora che le ricerche fossero concluse ed è per questo che la console fu imbottita di avvertenze (probabilmente se avessero aspettato i risultati dei test probabilmente ne avrebbero potuto mettere meno); il tutto era aggravato inoltre da una nuova legge approvata intorno alla metà del 1995 in Giappone con la quale le compagnie produttrici di beni di consumo diventavano più facilmente imputabili in caso di malfunzionamenti o incidenti di varia natura che coinvolgessero i loro prodotti. Nonostante fosse possibile sistemare il contrasto e calibrare le lenti del Virtual Boy, i legali Nintendo non volevano correre rischi e perciò armarono la console di avvertenze e convinsero gli sviluppatori ad inserire nei loro giochi un cronometro al termine del quale fa apparire dei messaggi che invitano il giocatori a fermarsi per un break.
Il lancio in Giappone passò quasi inosservato e la produzione della console fu già fermata nel Dicembre dello stesso anno; queste furono in realtà “buone notizie” per gli Stati Uniti, nei quali si può dire che la console ebbe una vita migliore. Durante la prime settimane vendette addirittura di più del Sega Saturn e tagliando la produzione in Giappone si poterono permettere un price drop drastico di soli 99$ per il Natale del 1995. Ciò non bastò per salvare questa macchina e, nonostante gli sforzi, la console non decollò mai, né ebbe mai una fanbase solida o un parco titoli interessante (giochi nettamente migliori erano reperibili su Sega Saturn, Sony PlayStation e persino Gameboy e Super Nintendo); le figure di vendita si chiusero per 770.000 unità totali fra Giappone e Stati Uniti, il Virtual Boy non raggiunse mai né l’Europa né l’Australia.

(Un overview di tutti i giochi presenti su Virtual Boy da parte dell’utente Dubbloseven)

Chiusa una porta, si apre un portone

Anche se nuovi giochi furono annunciati per l’E3 del 1996 (un gioco di Worms, un porting di Goldeneye 007, un gioco di carri armati ispirato alla demo di Reflection Technology e altri) Nintendo interruppe la produzione del Virtual Boy di lì a poco in modo che sia loro che i suoi utenti si potessero concentrare sul Nintendo 64, vero successore del Super Nintendo; i rimanenti Virtual Boy rimasti nei negozi furono venduti intorno ai 20$. Insieme ai giochi, altri prodotti non arrivarono mai a quei pochi consumatori, come lo stand aggiustabile e il link cable che, esattamente come quello del GameBoy, avrebbe permesso di collegare due Virtual Boy per il multiplayer. Nintendo riuscì a spostare l’attenzione dei fan al Nintendo 64 e il Virtual Boy, essendo stato una vera e propria meteora, fu dimenticato di lì a poco. All’interno della compagnia il Virtual Boy fu visto come una disgrazia, e Gunpei Yokoi si sentì responsabile di ciò che successe; Hiroshi Yamauchi però era tranquillo e, nonostante Yokoi si addossasse la colpa del fallimento dell’intero progetto, non diede mai la responsabilità di ciò che successe al suo collaboratore.

Yokoi si sentiva ugualmente coperto di vergogna. Il Virtual Boy doveva essere il suo ultimo prodotto prima del suo programmato (e meritatissimo) pensionamento a cinquant’anni ma l’insuccesso di quest’ultimo lo spinse a restare in Nintendo ancora per un po’. In molti riportano che il Virtual Boy sia stata la causa del suo presunto licenziamento, ma non è così (in quanto in primo luogo non fu licenziato, ma si ritirò di sua spontanea volontà): Gunpei Yokoi di lì a poco tornò a interessarsi del GameBoy, e presto lanciò nel mercato il GameBoy Pocket, un nuovo successo per Nintendo nonché suo vero ultimo prodotto nella compagnia.
Di solito, in Giappone, quando persone chiave come Gunpei Yokoi vanno in pensione è tradizione lasciare un ultimo segno della loro permanenza nella compagnia, sia come lascito sia per dare un ultimo sprint prima del meritato riposo; non poteva di certo andar via col Virtual Boy, il GameBoy Poket si rivelò il prodotto perfetto con la quale uscire di scena. L’abbandono di Gunpei Yokoi ebbe ripercussioni persino sulla borsa di Kyoto in quanto le azioni di Nintendo calarono drasticamente già dal giorno in cui andò via! Tuttavia i giornali di settore speculavano al licenziamento avvenuto sulla base dell’insuccesso del Virtual Boy. Yokoi sentì la pressione dell’opinione pubblica e decise di non darsi sotto: di lì a poco il leggendario inventore fondò la Koto Laboratory e la loro nuova console, il WanderSwan, fu presa in considerazione e successivamente prodotta dalla grandissima Bandai. Tuttavia Gunpei Yokoi non poté assistere né lancio nel 1999 in Giappone né al successo del WanderSwan in quanto morì in un incidente stradale nel 1997.

La Reflection Technology uscì distrutta dall’insuccesso del Virtual Boy, ma tentò di rifarsi con un nuovo prodotto chiamato Faxwiew, un piccolo dispositivo che permetteva di visualizzare i fax guardando attraverso un piccolo schermo, esattamente come il Private Eye o lo stesso Virtual Boy. Tuttavia nessuno finanziò questa invenzione e la Reflection Technology chiuse i battenti di lì a poco. Allen Becker cominciò invece a lavorare nel campo della purificazione delle acque per le nazioni in via di sviluppo, ma purtroppo si spense nel 2001, all’età di 53 anni.

(Allen Becker)

Per correttezza

Il Virtual Boy fu una console terribile, con una dubbia tecnologia e una grafica in grado di far venire il mal di testa a chi la usa, ma non è tutta da buttare.
Per quanto la si possa schernire, i giochi, nonostante la semplicità, sono ben lungi dal fare schifo, e perciò vogliamo rendere giustizia ad alcuni titoli di questa console, mai rilasciati per nessun’altra console. Esistono giochi che hanno davvero provato a trarre il massimo da questa console e dimostrato, per quanto possibile, che il Virtual Boy poteva realmente dare la sensazione di essere immersi in una realtà virtuale. Uno di questi giochi è certamente Teleroboxer, considerabile come una specie di spin-off della saga di Punch Out!!. Oltre al fatto di giocare con una visuale POV, dando già da subito l’impressione di essere all’interno del gioco, questo titolo sfruttava soprattutto lo strano controller del Virtual Boy che, in un certo senso, può essere considerato come una sorta di precursore dei controlli dual analog in quanto fu il primo ad includere due D-pad; al di là dei metodi di gioco, Teleroboxer è soprattutto un gioco molto divertente e se c’è un gioco per cui provare un Virtual Boy è proprio questo. Fondamentalmente, per quanto superficiale possa essere l’immersione, altri giochi che includono la visuale POV come Red Alarm, Bound High, Innsmouth no Yakata e Niko-Chan Battle meritano di essere provati con la console reale. Altri titoli come Mario Tennis, Mario Clash, Galactic Pinball e Waterworld (unico gioco basato su un film prodotto su questa console) sono  abbastanza interessanti e possono essere anche giocati anche con un emulatore, visto che gli effetti 3D non sono mandatori per questi titoli.
Discorso a parte va invece fatto per Virtual Boy Wario Land, altro grande titolo per i collezionisti di questa console; questo è considerato una vera e propria gemma del Virtual Boy e il fatto che sia rimasto relegato alla libreria della console e mai più rilasciato per nessun’altra riempie il cuore di tristezza (potrete comunque giocarlo con un emulatore). Per questo ci piacerebbe un giorno trovare per Nintendo Switch una collection con tutti i giochi mai usciti per Virtual Boy da giocare col nuovo headset VR della linea Nintendo Labo! Chissà se arriverà mai.

Non ci sono grandi premesse da fare per un collezionista o amatore che abbia intenzione di acquistare un Virtual Boy: assicuratevi solamente che il tutto funzioni regolarmente, soprattutto il sistema dei vetri riflettenti. Tuttavia, per voi che vi siete incuriositi leggendo queste righe, il Virtual Boy è raro e costoso e per quanto sia possibile trovarlo in vendita su siti come Ebay, e non ci sono grossi rischi di riceverne uno non funzionante, dovrete pagare ben più del suo prezzo originale. Certi titoli, essendo usciti alcuni solo in Giappone e altri solo negli Stati Uniti, sono rari e costosi e ancora non esiste, diciamo, una fanbase così grande che si stia mettendo a l’opera per produrre nuovi accessori, everdrive e pezzi di ricambio per questa console (e probabilmente non ci sarà mai). Esiste un sito in grado di produrvi una sorta di flashdrive per la console ma dovrete fornire al tecnico una cartuccia da sacrificare (e inoltre non sappiamo quanto sia affidabile). Acquistare questa console è solo una particolarissima e costostissima chiccheria ma… insomma, potreste dire di avere un Virtual Boy!




VR in the Box: la realtà virtuale di Nintendo

Seppur lenta, l’ascesa della realtà virtuale non pare arrestarsi, e anche Nintendo si butta nella mischia con il Toy-con 04 VR Kit, nuovo prodotto della linea Nintendo Labo.
Sulla falsariga dei precedenti kit, un’oretta piena verrà dedicata all’assemblaggio degli stravagantissimi controller “Do It Yourself”, poi basterà inserire la cartuccia e godersi la realtà virtuale in salsa Nintendo.

La grande N sfrutta qui la versatilità di Labo per fornire esperienze che i competitor rendono possibili solo acquistando periferiche esterne: se per avere un fucile in mano giocando con il PSVR è necessario l’acquisto di un AIM controller, qui è possibile costruire da sé un’arma con cui sparare, senza dover ricorrere ai controller classici. La risoluzione di Switch in dock può essere un ostacolo a chi ha già provato altri visori di sicuro più avanzati, ma questo non sembra spaventare la casa di Kyoto, che punta sulla creatività offrendo toy-con di ogni sorta come quello del cigno, le cui ali genereranno addirittura un po’ di vento (regalando agli utenti un ulteriore layer di realismo), quello dell’elefante, che sarà il tool per creare dei disegni in 3D, quello della fotocamera e quello della girandola.

La grande N ha aspettato tanto prima di gettarsi nella mischia del VR, e questo era di certo dettato da ragioni di studio di una tecnologia ancora delicata: il prezzo di lancio di 70€ è di certo il più competitivo a fronte di una VR ancora costosa sul mercato, anche se, come già criticato per i precedenti kit Labo in passato, al momento si tratta di investire di fatto su una sorta di super-demo di 60€ con dei controller DIY venduti per 10€.

Nintendo pare voler mandare un messaggio chiaro: un software, un kit DIY. L’unicità di questa esperienza, legata soprattutto al tenere con mano oggetti simili a quelli utilizzati nei giochi, spinge a credere che Nintendo difficilmente lancerà nei negozi un visore VR dai prezzi simili al Google Cardboard, senza software o controller DIY da accostarvi, non almeno in tempi brevi. Per quanto interessante sia il modellare un controller di cartone attorno al Joycon questo potrebbe costarci una fortuna ogni volta che un titolo debba accostare un’esperienza VR, senza considerare poi lo spazio da dedicare in casa per i controller già costruiti, specialmente se abbiamo collezionato anche i kit precedenti! In questi giorni sono stati rilasciati gli aggiornamenti per The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Super Mario Odyssey e in molti non sono rimasti soddisfatti per il fatto che le esperienze VR non aggiungono quasi nulla all’esperienza di base. Tuttavia la scelta di inserire queste nuove opzioni per due capisaldi dello Switch è secondo noi una scelta dettata dalla fretta di rendere il parco titoli per il VR immediatamente vario ma non necessariamente divertente o funzionale: nessuno dei due titoli è stato progettato con un esperienza VR in mente e perciò era comunque difficile aspettarsi un miracolo. Almeno i possessori avranno adesso tre titoli da sperimentare col visore ma per un esperienza VR pensata a 360° bisognerà aspettare ancora un po’. Sappiamo inoltre che lo sviluppo di Metroid Prime 4 è partito da capo: che includerà, visto che il mondo viene letteralmente visualizzato tramite il casco di Samus Aran, un esperienza VR incredibile?

Una domanda sorge comunque spontanea: le compagnie 3rd party potranno offrire in futuro alternative al Kit VR con dei controller più versatili per ogni titolo e senza includere software extra? Se così fosse vedremo molti più visori 3rd Party sugli scaffali, possibilmente costruiti con materiali migliori del cartone, e che potrebbero eclissare l’invenzione originaria Nintendo. Il lancio di questo Kit VR ha senza dubbio ottime premesse, ma adesso Nintendo, se non vorrà che altre compagnie ci pensino al posto suo, dovrà puntare a tutta quella fascia di pubblico che non ha intenzione di possedere il Toy-con Kit 04 di Nintendo Labo, né possedere miriadi di controller di cartone sparsi per casa, e potrebbe farlo con la semplice mossa di offrire un visore VR della qualità e del prezzo del Google Cardboard, con tutto quel che comporta (prima fra tutti l’assenza di ulteriori controller o software, o l’inclusione di accessori più versatili): una strategia semplice, che potrebbe portare ottimi frutti.




Firewall Zero Hour

Firewall Zero Hour

Firewall Zero Hour, il nuovo titolo per Playstation VR sviluppato dalla software house First Contact Entertainment, si candida ad essere il primo vero FPS tattico in realtà virtuale. Il gioco, completamente in italiano sia nei testi che nel parlato, è destinato soltanto a un pubblico che abbia già compiuto 16 anni.
È indispensabile la presenza di un visore PSVR per utilizzarlo, mentre è opzionale l’utilizzo dell’AIM Controller che, a scapito del realismo e dell’efficienza di tracciamento dei movimenti, può essere sostituito dal classico Dualshock controller della Playstation, a differenza del  Playstation Move che non è supportato.
Il titolo che abbiamo per le mani è immediatamente entusiasmante, si viene subito colpiti dalla perfezione grafica, dalla ricchezza di dettagli e dal realismo immersivo. Sfortunatamente, un paio di dettagli non da poco fanno scendere la valutazione globale e, se non fosse per queste piccole pecche, il gioco avrebbe tranquillamente potuto ambire ad un 10 pieno.

Firewall Zero Hour

La storia

La First Contact Entertainment ha fatto davvero pochi sforzi nel creare una storia completa e coinvolgente, puntando invece tutto su qualità grafica ed efficienza tecnica del gioco. Infatti è proprio la storia a essere uno degli unici due punti dolenti, di questo titolo. Impersoneremo un mercenario, che sceglieremo tra una selezione di 12 soldati provenienti da altrettanti Stati, che avrà come unico obiettivo quello di completare il contratto che gli è stato assegnato in cambio di una remunerazione in criptovaluta.
I contratti, che si svolgeranno in nove diverse ambientazioni equamente distribuite in tre Stati, si distinguono in soltanto due categorie, quelli da attaccante e quelli da difensore.
Nella prima tipologia di contratti, dovremo raggiungere uno dei firewall presenti disattivarlo, quindi localizzare e raggiungere un computer portatile. A questo punto saremo costretti a restare nel raggio di un paio di metri dal computer per proteggere la connessione stabilita, fintanto che il nostro centro di comando e controllo, non riuscirà ad hackerare il laptop e completerà la sottrazione dei dati presenti. Terminato il download dei dati, verremo immediatamente pagati in Crypto e si concluderà così la missione. Tralasciando completamente la classica fase di “estrazione in gergo militare, in altre parole quando cerchiamo di uscire vivi dal campo di battaglia.
Nella seconda tipologia di contratto, cioè quella da difensore, dovremo invece impedire agli attaccanti, a suon di proiettili e di mine di prossimità, di raggiungere il laptop e quindi di sottrarre i dati contenuti, per un periodo di tempo limitato.
Alla fine di ogni contratto riceveremo una valutazione e delle ricompense, che saranno più sostanziose se completeremo la missione con successo, e con esse potremo poi acquistare upgrade per le armi e nuove dotazioni.

Tecnicamente, quasi perfetto

La First Contact Entertainment con Firewall Zero Hour fa scuola e mostra come, con un oculato lavoro di programmazione, si possano raggiungere livelli graficamente eccellenti anche con il Playstation VR, smentendo in tal senso i detrattori del device Sony.
La prima vera emozione si prova già nel tutorial, che non sarebbe niente di eccezionale se non fosse per la grafica che ci stupisce e coinvolge immediatamente. Prima ancora di iniziare a seguire le istruzioni, ci guardiamo in giro e, appena volgiamo lo sguardo al nostro abbigliamento, quasi sobbalziamo per la meraviglia, data la ricchezza di dettagli della nostra mimetica e dei vari accessori equipaggiati. Le texture sono belle da far paura, le luci, i riflessi e le ombre sono estremamente realistiche, anche qui un lavoro assolutamente degno di lode. Le animazioni fluide e armoniose ci coinvolgono sempre più in un mondo che stentiamo a non credere reale.
La fisica del gioco è ben studiata e assolutamente testata a dovere. Tutto funziona egregiamente, non mostrando alcuna pecca anche nei classici punti deboli, come le varie collisioni con muri, porte e oggetti, tutto calcolato alla perfezione.
Risulta evidente come un gran lavoro di beta testing sia stato fatto per portare il titolo ad un livello tecnico al top.
L’audio tridimensionale è assolutamente realistico, coinvolgente e persino indispensabile per giocare in maniera efficace. Infatti grazie al rumore dei passi dei soldati nemici potremo identificare un pericolo in arrivo o all’udire di spari in una certa direzione potremo sviluppare la nostra strategia d’attacco.
Il doppiaggio (in italiano) è naturale e ben realizzato, si alternano voci femminili a voci maschili che ci daranno le poche istruzioni necessarie allo svolgimento del contratto.
Il sistema di controllo, sfrutta l’ormai brevettata tecnica della rotazione a scatti, che riesce a eliminare completamente i pericoli legati al motion sickness sempre in agguato sui titoli VR. Tutti i movimenti del nostro mercenario sono fluidi e naturali, anche i comandi sono posizionati alla perfezione sia sul Dual Shock che sull’AIM Controller, rendendo estremamente immediato e naturale il controllo del personaggio. L’unico piccolo appunto relativo ai movimenti è la velocità della corsa, che rassomiglia piuttosto ad una camminata sostenuta e nelle situazioni più concitate, come ad esempio in un imboscata dovrebbe assolutamente essere ad un livello più elevato.

Il dispositivo di controllo per godere a pieno di Firewall Zero Hour è certamente l’AIM Controller che durante il gioco viene tracciato alla perfezione, senza la necessità di dover mai fare quelle manovre di scuotimento per riallinearlo, a cui altri titoli per PS VR ci avevano abituato. Il Dual Shock, seppur comportandosi bene come device di movimento del personaggio, non sempre viene tracciato altrettanto bene, costringendoci quindi a un riallineamento ogni tanto e sopratutto facendo perdere quella sensazione realistica di tenere una vera arma in mano.

Firewall Zero Hour

Le modalità di gioco sono estremamente limitate, escludendo la modalità di Addestramento, l’unica opzione rimanente è quella chiamata Contratti.
Nella fase di addestramento potremo far pratica con le varie armi, gli scenari e i tipi di missione, iniziando in single player, contro dei bot dalla limitata intelligenza artificiale che ben presto riusciremo a sottomettere, individuandone i punti deboli e la prevedibilità. Infatti tenderanno a farci agguati in gruppetti di tre o quattro provenendo da più direzioni, restando per lo più privi di copertura, puntando tutto sull’effetto sorpresa. Il radar da polso ci mostrerà i movimenti dei soldati nemici quando saranno a pochi metri da noi, semplificandoci così il nostro sporco lavoro da spietato mercenario. Qualche proiettile ben piazzato grazie alla perfetta mira del nostro fucile ci libererà velocemente degli incursori. I caricatori a disposizione sono limitati,  vanno quindi utilizzati con dovizia e parsimonia e, sebbene sia possibile trovare delle valigette contenenti dei colpi extra, questa ricerca ci costringerà a deviare dal nostro piano d’attacco e ci esporrà ad imboscate nemiche.
Il vero cuore del gioco è la modalità Contratti, che ci catapulterà in realistici scontri a fuoco, mixando tattiche d’aggressione, coordinamento tra i compagni dello sparuto plotone, espedienti d’astuzia e momenti di pura azione, come nemmeno nei migliori film hollywoodiani si sia mai visto. La presenza, quindi, di un buon impianto di cuffie e microfono è fondamentale per comunicare con i compagni e coordinare gli attacchi, sebbene sia anche possibile giocare utilizzando il microfono della Playstation Camera e l’audio proveniente dalla TV.
L’approccio strategico di questo FPS si respira sin dalla fase di preparazione alla missione, scegliendo i mercenari più adatti e i giusti armamenti avremo un sicuro vantaggio tattico.

Firewall Zero Hour

Non è tutto piombo quel che luccica

Il più grosso difetto di questo titolo è legato alle interminabili attese nella fase di formazione delle squadre delle partite multi-player, i Contratti. Ci si trova nella stanza ad attendere per decine di minuti che si formino entrambe le squadre vedendo apparire i nostri potenziali compagni, che dopo qualche minuto di infruttuosa attesa abbandonano, rendendo così ancor più difficile raggiungere l’inizio di un match. A rendere ancora più frustrante il difetto è il fatto che una volta raggiunto il numero di 8 giocatori, 4 per squadra, la partita si concluda con un unica missione, che spesso dura anche pochi secondi o nel migliore dei casi qualche minuto.
Per ovviare a questo problema, sarebbero stati sufficienti due piccolissimi accorgimenti rendendo l’attesa molto meno noiosa e frustrante. Sarebbe bastato aggiungere un semplice poligono di tiro nelle stanza d’attesa e fare delle partite da 3 o meglio 5 round.




Varjo: il nuovo visore in grado di combinare mondi virtuali con la realtà

Il visore per realtà virtuale Varjo era stato presentato nel 2017 ma adesso, la società, ha svelato la sua intenzione di introdurre un add-on, un’innovativo accessorio che permetterà di usarlo in modalità mixed reality.
Questo offre grafica e video ad altissima risoluzione grazie al suo display bionico, uno schermo che imita il funzionamento dell’occhio umano dando priorità alla qualità dell’immagine a cui punta l’utente. Il nuovo dispositivo sarà in grado di unire la realtà virtuale a un flusso video in tempo reale di qualità cinematografica, catturato dalle telecamere del visore, consentendo agli utenti di interagire contemporaneamente con il mondo di fronte a loro e il mondo virtuale. Secondo Urho Konttori, amministratore delegato di Varjo:

“Abbiamo raggiunto una pietra miliare significativa per la piattaforma di calcolo immersiva di Varjo, in cui i mondi reali e digitali diventano un tutt’uno; i nostri hardware e software brevettati con human-eye resolution trasformano la realtà mista da una curiosità a uno strumento professionale e rivoluzionario.”

Il concetto di realtà mista è simile a quello della realtà aumentata, dove oggetti e informazioni virtuali vengono sovrapposti al mondo fisico, dipendendo dal mondo reale e dalle azioni dell’utente.
Varjo, con sede a Helsinki, è stata fondata nel 2016 e ha impiegato 18 mesi per sviluppare il suo prototipo Bionic Display. Il dispositivo offre una soluzione alternativa ai problemi di risoluzione con gli attuali visori per realtà virtuale, con i quali gli utenti vedono un’immagine sgranata quando la grafica è estesa su un ampio campo visivo.
Senza l’uso di questa tecnologia, sarebbe necessaria un’enorme potenza di elaborazione, per rendere l’intero campo visivo con una densità di pixel sufficiente da far sembrare un mondo virtuale cristallino all’occhio umano, e senza ritardi.
Varjo scavalca questo requisito utilizzando più display, tra i quali, grazie al tracciamento oculare, solo l’area che si trova nella linea visiva diretta dell’utente ha il display con più alta risoluzione.
L’esordio del visore mixed reality di Varjo è in programma per la fine di quest’anno, e il lancio dell’add-on è previsto per l’inizio del 2019.

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Bravo Team

La software house SuperMassive Games, già nota per titoli di spessore come Until Dawn per PS4, The Inpatient e Until Dawn: Rush of Blood per PSVR, abbandona la sua “safe zone” della ambientazioni horror, per lanciarsi in tra gli scenari degli scontri militari.
Bravo Team, è un gioco che come genere si piazza tra un FPS e un On-Rail Shooter, il tutto in rigorosa salsa Co-Op. Il titolo è completamente tradotto in italiano, ed è uscito il 6 Marzo 2018.

Scorta al Presidente

Bravo Team ci cala nelle vesti di un soldato americano demandato a fare da scorta alla Presidente di un non meglio precisato Stato dell’est Europa. L’incipit ci vede insieme ai nostri compagni d’arme su un SUV blindato per scortarla a destinazione, ma il viaggio viene interrotto da un gruppo di terroristi che rapiscono il nostro Capo di Stato.
Ripresasi dallo shock dell’attacco, la squadra abbandona il SUV per trovarsi sotto il fuoco incrociato delle milizie locali, che fino a poco prima erano ritenute nostre alleate. In breve i nostri compagni vengono decimati, e si rimane soltanto in due, guidati tramite contatto radio dal centro di controllo della missione.
La prima impressione è subito positiva e la storia si lascia scoprire piacevolmente, riservandoci qualche interessante sorpresa.

Sparatorie in Co-op

Bravo Team ci propone la sua versione di combattimenti urbani in co-op. Saremo assistiti da un compagno durante tutto il gioco, dovremo collaborare, alternandoci con le coperture e sferrando attacchi combinati. Potremo anche rigiocare le stesse missioni della campagna anche in modalità co-op online, avendo quindi come compagno un altro giocatore.
Il gioco dà il meglio di sé con l’AIM controller, ma può essere giocato sia tramite il classico gamepad della Playstation 4 che tramite i Playstation Move.
I movimenti nel gioco sono gestiti tramite salti da un riparo all’altro in posizioni prestabilite. Gli spostamenti vengono mostrati come un’animazione in terza persona, e un simile approccio risulta inizialmente abbastanza strano, ma in breve si comincia ad apprezzare la possibilità di ammirare le azioni di combattimento da una prospettiva diversa anche in VR.
Le armi che ci vengono messe a disposizione sono davvero poche e poco potenti, anche gli approvvigionamenti di munizioni sono scarsi, soprattutto nei livelli più difficili. Purtroppo la carenza di armi veramente potenti toglie non poco divertimento al titolo, che avrebbe tratto giovamento dall’aggiunta di qualche bomba a mano e qualche arma più incisiva, mentre un punto a favore è certamente l’aver previsto la possibilità che il fucile si inceppi, elemento che nelle azioni più concitate ci causerà non pochi grattacapi e che alza l’asticella della sfida.

La grafica non basta

La SuperMassive Games si supera sul piano tecnico sfornando un gioco graficamente tra i migliori titoli per PSVR finora sfornati, con texture eccellenti, ambientazioni immersive e ben dettagliate, un effetto nebbia davvero ben riuscito e un generale realismo abbastanza fedele. Le animazioni dei personaggi sono discrete, si registra qualche movimento legnoso di troppo, visibile.
Gli spostamenti da un riparo all’altro si eseguono puntando l’arma verso l’appostamento prescelto e premendo il tasto X. La visuale, a questo punto, si sposta in terza persona e vedremo così il nostro personaggio spostarsi da un riparo all’altro. Proprio grazie a questo approccio, la SuperMassive Games riesce a eliminare completamente qualsiasi possibile problema legato al “motion sickness“, problema che affligge finora la gran parte dei titoli in VR.
Il comparto audio è davvero buono, tutto doppiato in italiano in maniera eccellente, condito da effetti sonori abbastanza realistici si lascia apprezzare durante tutto il gioco.
Il sistema di mira con AIM Controller è molto preciso e immediato, soltanto l’assenza di un vero rinculo ci ricorda che non abbiamo una arma reale tra le mani.
Purtroppo il titolo pecca in termini di longevità. La campagna base single player dura al massimo 3 ore e la seconda modalità in single player ci riproporrà gli stessi scenari, cambiando solo l’assegnazione dei punteggi per i colpi messi a segno.
A peggiorare la situazione arriva la modalità co-op online che, rappresentando il cuore pulsante di Bravo Team, dovrebbe aggiungere ore di divertimento e novità da scoprire. Sfortunatamente la SuperMassive Games va un po’ al risparmio, non disegnando delle mappe specifiche per il co-op online, costringendoci a rigiocare insieme a un compagno reale le stesse identiche missioni già completate nella campagna single player.
La mancanza di divertimento aggiuntivo, nella modalità multiplayer, non deve aver generato molto richiamo, e non di rado bisognerà aspettare tra i 10 e i 20 minuti prima di trovare un compagno online, per poi abbandonare definitivamente questa modalità una volta conclusa la partita.

Bravo, ma non bravissimo

Bravo Team è assolutamente un titolo da provare per apprezzare il proprio AIM Controller in azione, ma la scarsa longevità e la carenza di armi lasciano un po’ l’amaro in bocca, rendendo evidente come un titolo che avrebbe potuto avere tutte le carte in regola per essere un capolavoro si sia perso nel classico bicchiere d’acqua.
Non tutto è perduto, però, il potenziale rimane ancora immutato, le basi ci sono tutte e un bel DLC che ci offra nuove e più potenti armi, qualche ambientazione aggiuntiva e una modalità online dedicata potrebbe risolvere molti problemi e rianimare un gioco nel quale il divertimento dura per un tempo troppo limitato.




La realtà virtuale potrà ridare la vista a ciechi e ipovedenti?

Il giornalista londinese Alex Lee ha una rara malattia genetica che gli causato una riduzione della vista e, quando giocava ai videogiochi, vedeva molto sfocato. Ma un volta indossato un visore VR per provare L.A. Noire di Rockstar Games, si è accorto di vedere meglio di quanto avesse fatto negli ultimi cinque anni. «È stata una sorpresa», ha dichiarato; «ho potuto vedere meglio con la realtà virtuale rispetto alla vita reale».
Secondo Michael Crossland, professore di oftalmologia dell’Università di Sydney, la realtà virtuale potrebbe aiutare i non vedenti perché gli schermi, essendo molto vicini agli occhi, incorporando immagini grandi, luci brillanti e testo in grassetto, aiutano gli ipovedenti a vedere in maniera più nitida.

Una manciata di aziende attualmente, si sono messe al lavoro per trovare modi specifici per sfruttare questa funzionalità, in modo di ridare la vista a ciechi e ipovedenti. RaayonNova, con sede a New York, sta già lavorando sul progetto di lenti a contatto intelligenti con un sistema di controllo motorio funzionante, nonostante alcuni problemi dati dalle attuali teconologie. Ogni obiettivo del visore possiede uno schermo incorporabile proprio sopra la cornea, con funzionalità specifiche per aiutare i non vedenti, come un display incorporato che utilizza il colore per dirigere chi lo indossa, per ingrandire i segnali stradali o avvisare la persona quando è vicina a un pericolo.

Proprio a tal proposito, il fondatore Aleksandr Shtukater, commenta:

«Riteniamo che le applicazioni AR e VR siano destinate a sostituire gli smartphone in futuro. La nostra soluzione consiste nel collegare il dispositivo al senso della vista in modo discreto e proiettare le informazioni direttamente sulla retina, in modo efficiente e non invasivo”

RaayonNova spera di lanciare le lenti nel 2019, e potrebbero essere gli unici dispositivi di questo tipo sul mercato, se ce la farà.

«In futuro, una mamma potrà monitorare il suo bambino a distanza e cambiare inquadratura della telecamera, avviando magari anche una conversazione con il figlio, il tutto mentre lavora in ufficio. Anche un individuo pigro, o stanco dopo tante ore di lavoro, potrà ordinare da un ristorante cinese online prima di tornare a casa, attraverso una lente a contatto intelligente.”

 

Le dimensioni contano

Anche i normovedenti hanno bisogno di aiuto: Secondo Hans Streng, l’amministratore delegato di Luxexcel, azienda olandese che produce lenti a contatto stampate in 3D, il 60% degli americani ha bisogno di correzione oculare. Luxexcel ha recentemente stretto una partnership con Vuzix per realizzare lenti graduate stampate in 3D basate sul funzionamento degli occhiali Vuzix Blade AR, che sovrappongono informazioni come direzioni, mappe e previsioni del tempo sul mondo.

Un’altra società che sta lavorando per i non vedenti è l’Istituto Fraunhofer in Germania, che si propone anche di riuscire a ridurre le dimensioni dei visori Goggles VR. Negli ultimi dieci anni, Uwe Vogel, responsabile dei microdisplay e dei sensori, ha promosso dei microdisplay OLED per VR e AR:

«I visori per la realtà virtuale sono sempre più popolari, ma fino a ora sono stati creati solo modelli pesanti e di grandi dimensioni. Ci si aspetta che i microdisplay cambino, e che sia possibile produrre visori ergonomici e leggeri;  in questi anni, i nuovi display OLED raggiungono frame rate molto alti, con risoluzioni estremamente elevate con l’estensione Full HD.»

Ma come saranno gli schermi digitali in futuro?  Secondo Vogel, il trucco non consiste solo nell’aumentare risoluzione e frequenza dei fotogrammi, ma anche mantenere il il consumo energetico più basso possibile.
Fraunhofer ha lavorato a questo progetto decennale con LOMID 2020, un progetto finanziato dall’UE che mira a rendere i microdisplay compatti, economici e performanti rispetto ad altri sul mercato, con risoluzione migliore rispetto ai display per smartphone. Questo periodo è concentrato su una lunga serie di test su persone classificate legalmente come cieche. I nuovi display utilizzano la tecnologia OLED-on-CMOS per immagini luminose ad alto contrasto, più grandi, nitide e con una densità di pixel maggiore rispetto alla concorrenza.
Anche gli smartglasses potrebbero avere un ruolo fondamentale: specialmente se con ottica compatta e con fotocamera integrata, i non vedenti potranno muoversi e interagire in sicurezza nell’ambiente circostante.




HTC: Vive o Vive PRO? Il confronto

 

Per chi fosse intenzionato ad acquistare un visore HTC, con l’uscita del nuovo modello PRO, il dubbio su quale scegliere sorge spontaneo: comprare quest’ultimo o risparmiare acquistando il primo?
Entrambi hanno impostazioni simili, permettono di giocare gli stessi titoli e hanno accesso a gran parte delle stesse periferiche per migliorare l’esperienza immersiva, ma in realtà presentano differenze che, in base alle preferenze, potrebbero rivelarsi significative.

Design e comfort

Il design dei due visori potrebbe sembrare molto simile, ma presenta in realtà delle differenze che incidono molto sull’esperienza. Il più ovvio riguarda la modalità con cui si indossano: il primo Vive si indossa per mezzo di un cinturino elasticizzato regolabile, mentre il Vive Pro ha una fascia in plastica rigida con imbottitura significativa intorno alla testa con una ruota di torsione per adattarla. HTC afferma che il nuovo Vive Pro è più leggero dell’originale, ma questa differenza di peso non risulta troppo evidente. Tuttavia, è provato che Vive Pro sia più confortevole da indossare per periodi leggermente più lunghi, con anche la presenza di cuffie integrate; include controlli del volume e offre una qualità del suono straordinariamente ricca e potente.
Inoltre, il Vive Pro supporta la possibilità di regolare la distanza delle lenti dagli occhi, il che lo rende più comodo per chi indossa gli occhiali.
Un’altra caratteristica da menzionare è la fotocamera frontale aggiuntiva sul pannello anteriore: non è chiaro in che modo questa nuova funzione verrà sfruttata, ma sembra indicare che ciò darà alla versione Pro un vantaggio su alcune future esperienze VR in fase di sviluppo. Nel Vive più evoluto inoltre, stati risolti alcuni problemi di progettazione e limitazioni del vecchio modello,il tutto racchiuso da un nuovo look blu ed  esteticamente molto gradevole.

Installazione

Configurare un visore come Vive richiede un po’ di tempo ed è ancora necessario un PC abbastanza potente per eseguire l’operazione, insieme a una coppia di controller Vive e un paio di stazioni base di HTC per sbloccare la capacità di tracciamento dei movimenti. Il collegamento del visore al PC richiede lo stesso procedimento, anche la periferica di collegamento che unisce i due è migliorata nel Pro, essendoci un cavo in meno di cui preoccuparsi e un pulsante d’accensione apposito.
L’attuale configurazione di Vive Pro non include le stazioni base o i controller, cottenibili comunque in bundle con Vive. Sono del tutto simili al primo modello, ma se non le si possiede sarà necessario comprare le stazioni base a circa 160€ ciascuna e a 150€ circa i controller. Oppure è possibile investire nel pacchetto Vive Pro, che attenzioneremo meglio in seguito.

Display

Principlalmente, la più rilevante miglioria effettuata per quanto riguarda il Vive Pro è il display. Oltre a passare dalla tecnologia di visualizzazione OLED a quella AMOLED, anche la risoluzione risulta fortemente migliorata: il Pro offre una risoluzione di 2.880×1.600 (615 PPI) contro i 2.160×1.200 (448 PPI) del primo Vive.

Monitoraggio

Essendo necessarie le stazioni base, lo spazio richiesto per utilizzare entrambi i visori è ancora un minimo di 2 metri x 1,5 metri e il massimo è di circa 5 metri.
Questo è destinato a cambiare, almeno nel caso di Vive Pro, che supporterà le stazioni base di prossima generazione che verranno lanciate entro la fine dell’anno. Ciò consentirà ai proprietari di Vive Pro di collegarne più di due per estendere l’area di gioco a 100 metri quadrati, anche se per adesso entrambi sono limitati alla stessa quantità di spazio VR libero.
Tralasciando questo, il nuovo adattatore wireless del PRO, eviterà la preoccupazione di inciampare sui vari cavi; questo componente aggiuntivo non viene fornito insieme al visore, quindi l’impostazione di monitoraggio è in definitiva la stessa per entrambi.

Prezzo

L’HTC Vive Pro ha attualmente un prezzo di 879€ per il solo visore mentre il prezzo dell’intero pacchetto (visore, controller e due stazioni base) sfonda il muro dei 1200€, prezzo fuori portata per la maggior parte degli utenti.
Il prezzo del pacchetto Vive Standard nel frattempo, è sceso a a circa 650€, con inclusi tutti gli accessori. Vale comunque la pena di tenere conto della concorrenza, in quanto è ora possibile acquistare il pacchetto Oculus Rift, che include visore e controller Touch a quasi allo stesso prezzo.

Il verdetto

Per assicurarsi di avere il meglio per quanto riguarda l’esperienza di realtà virtuale, la scelta ovviamente ricade sul Vive Pro. Basta essere disposti a spendere di più per concedersi il lusso dell’aggiornamento della risoluzione e un design più confortevole. Inoltre, stanno per essere lanciati tante nuovi elementi per migliorare ulteriormente l’esperienza con questo nuovo visore.




I migliori visori VR per smartphone

La moda delle app e giochi in realtà virtuale per dispositivi mobili sta esplodendo: basta utilizzare l’hardware e la tecnologia del display dello smartphone per fornire le immagini, utilizzando visori che sono essenzialmente case contenenti lenti, spesso con alcune caratteristiche extra.
Per chi stesse valutando l’acquisto di un visore, ecco le caratteristiche principali dei più conosciuti.

Samsung Gear VR

Se possedete un telefono Samsung recente, potrebbe valere la pena acquistare il nuovissimo Gear VR. Rispetto alla precedente versione, l’ultimo dispositivo è ora più comodo, fornisce più spazio per chi necessitasse di indossare gli occhiali, e include prese d’aria per evitare l’appannamento dello schermo. Inoltre, Samsung e Oculus provvedono ad aggiornare continuamente la lista dei contenuti per questo dispositivo, non solo giochi ma anche cortometraggi e programmi TV.
E’ stato recentemente aggiunto un controller al set, che tiene traccia del movimento della mano e possiede un touchpad circolare cliccabile, che consente di puntare, trascinare e rilasciare oggetti, inclinare e naturalmente sparare nel caso stessimo giocando a degli sparatutto.

Google Daydream View

Il nuovo Google Daydream View sfoggia un design più elegante e più confortevole. Inoltre è disponibile in due nuovi colori: nero e rosa (che Google chiama “corallo”). Ha anche un headstrap che ne migliora l’ergonomia.
Il nuovo Daydream View ha tanti nuovi elementi, studiati per rendere l’esperienza migliore rispetto al suo predecessore. Il campo visivo è salito da 90° a 100°. È presente anche un nuovo dissipatore di calore che migliora le prestazioni durante le sessioni più lunghe. Il nuovo dispositivo è anche compatibile con un numero ancora maggiore di telefoni, in particolare con i Samsung Galaxy S8 e S8+.

Google Cardboard

L’originale e anche il più economico Cardboard, presenta una semplice procedura di assemblaggio in tre fasi, un pulsante di controllo migliore e supporto per smartphone fino a 6 pollici. È interessante notare che Google ha aperto la piattaforma anche agli sviluppatori iOS. Cardboard è un visore “fai-da-te” a basso costo che chiunque può costruire, anche se sono disponibili molte alternative terze parti, come DodoCase. In effetti, una rapida ricerca online rivela che è possibile acquistarne uno per circa 5€.

Merge VR Goggles

Come il Google Daydream View, il visore Merge VR opta per un materiale più morbido piuttosto che per la rigida plastica. Il materiale utilizzato infatti è una schiuma morbida e flessibile, che non solo rende il dispositivo estremamente comodo da indossare ma protegge il telefono da eventuali urti. Si adatta a qualsiasi smartphone da 4 a 7 pollici ed è dotato anche di lenti regolabili.

Xiaomi Mi VR Play

Questo non è il dispositivo “Daydream” della società, che è ancora mancante, ma è comunque una buona alternativa ad altri dispositivi VR mobile più costosi.
Non è il dispositivo migliore ma fa il suo lavoro e funziona sia con i telefoni iOS che Android, oltre a essere abbastanza economico. In Cina è stato appena rilasciato la nuova e più comoda versione, lo Xiaomi Mi VR Play 2, ma non è chiaro quando sarà disponibile nei mercati occidentali.

Zeiss One Plus

Lo Zeiss VR One Plus fuzniona con qualsiasi telefono iOS o Android tra 4,7 e 5,2 pollici. Contiene un lettore multimediale per immagini e video YouTube e un’app per esperienze in realtà aumentata. Inoltre è progettato per essere indossato comodamente anche sopra gli occhiali. Tra le caratteristiche degne di nota figurano una fascia per la testa rimovibile e un inserto in schiuma che si appoggia sul contorno degli occhi quando lo si indossa; è possibile anche pulire le lenti e ha a disposizione anche una versione universale che supporta smartphone tra 4,7 e 5,5 pollici.

Freefly VR Beyond

Il visore FreeFly VR offre un campo visivo a 120° e persino un controller Bluetooth per consentire un controllo migliore dei giochi in realtà virtuale. L’ultima versione di FreeFly, chiamata Beyond, incorpora i dual trigger con tocco capacitivo Crossfire. È compatibile con smartphone tra 4,7 e 6,1 pollici.

View-Master DLX VR

Il visore View-Master Mattel di seconda generazione è stato il primo a essere venduto nei negozi Apple, anche se ultimamente è un po’ scomparso dai radar; tuttavia, è possibile acquistarlo presso altri store.
Il DLX VR ha un supporto per smartphone ridisegnato, ideato per funzionare con dimensioni di smartphone diverse e offre un supporto aggiornato per cuffie e lenti. Tutto è modellato sull’iconico design View-Master con un tocco di modernità in più.

BlitzWolf BR-VR3

L’ultimo visore di BlitzWolf si adatta a qualsiasi smartphone fino a 6,3 pollici e garantisce il massimo comfort grazie all’ imbottitura in pelle. Permette di regolare la distanza individuale delle lenti dalla pupilla, correggendo un’eventuale miopia.




Innamorarsi in VR

Da quando la realtà virtuale ha iniziato a fare capolino sul mercato, in molti si sono chiesti a quali campi si potesse adattare e in quali modi: subito si è pensato di rendere ancora più interattive delle esperienze di gioco già esistenti (come è successo con Fallout 4 , Doom e tanti altri) o di crearne di nuove fatte apposta per dimostrare quanto dei dispositivi del genere possano essere immersivi nella loro semplicità (vedi Job Simulator), oppure ancora dei veri e propri “viaggi virtuali” che portano chi ha l’headset addosso in posti lontani, dalle grandi metropoli ai più importanti monumenti storici fino ai luoghi più esotici e sperduti altrimenti irraggiungibili. Alcuni tra i più furbetti hanno pensato di sfruttare la VR per scopi più “hot” portando la pornografia a un livello più alto, creando giochi a puro tema sessuale dove l’utente si trova effettivamente nel mezzo dell’azione: qui il Giappone fa dà padrone al genere eroge con i suoi Custom Maid 3D e Honey Select. Ma, se invece di concentrarsi sul lato più carnale di una relazione (o presunta tale), ci si spostasse su quello più romantico?
Esistono infatti già dei progetti il cui scopo principale è quello di incontrare la nostra presunta anima gemella (che sia reale o meno), conoscersi, frequentarsi e diventare effettivamente una coppia.
Un primo esempio è Virtually Dating, che non è un videogioco, bensì una serie di episodi dove due perfetti sconosciuti, una volta scannerizzati e con un HTC Vive addosso, si incontrano all’interno di un mondo totalmente virtuale, nonostante si trovino effettivamente l’uno davanti all’altra. In poche parole un appuntamento al buio in computer grafica.

Sposare la vostra waifu è sempre stato il vostro sogno? Probabilmente non vorreste arrivare a compiere un tale passo, ma ancora una volta il Giappone ci sorprende con Niitzuma LovelyxCation, dove si potrà effettivamente frequentare fino a convolare a nozze con una dei tre personaggi proposti. E non si parla solo di matrimonio in-game, ma anche di quello vero, in una chiesa vera, attraverso una cerimonia a tutti gli effetti.

Un’esperienza più “normale” può essere invece offerta da VR Kanojo, dove il giocatore deve dare delle lezioni di recupero a una ragazza, lezioni che prima o poi sfoceranno in altro. Vi ricorda un certo Summer Lesson che ha falsamente promesso lo stesso tipo di contenuti?

Ma la domanda principale è: ci si può effettivamente innamorare grazie a un videogioco in realtà virtuale? La risposta al momento è ““.
Fall In Love è uno di quei titoli che in un qualche modo ci prova, avendo come scopo principale quello di incoraggiare un’autentica conversazione e suscitare all’interno di chi gioca una connessione emotiva con il suo interlocutore, per quanto fittizio. Il gioco si ispira inoltre alle note “36 domande per innamorarsi“, grazie alle quali, secondo l’ideatore, lo psicologo Arthur Aron, due perfetti sconosciuti possono entrare in intimità in pochissimo tempo.
La realtà virtuale è piena di potenzialità e ha sicuramente stravolto il modo di giocare di molti, ma è davvero possibile coinvolgere a tal punto i sentimenti nella tecnologia? Per quanto immersiva e coinvolgente, l’esperienza nella VR potrà mai essere comparata all’essere davvero davanti a qualcuno e conoscerlo di persona? Tra l’altro, esistono moltissimi modi per trovare qualcuno con cui avere una storia tra chat room e siti di incontri, questo potrà davvero essere un valore aggiunto?




The Inpatient

The Inpatient

The Inpatient il nuovo gioco per Playstation VR, targato SuperMassive Games, può essere annoverato tra gli horror psicologici.
La software house inglese, dopo averci affascinato con la coinvolgente storia di Until Dawn (qui la recensione) ed entusiasmato, lanciandosi nel mondo della realtà virtuale, con lo spettacolare shooter su binari Until Dawn: Rush of Blood (qui la recensione), che rappresenta uno spin-off del primo, adesso ci presenta quello che è un vero e proprio prequel del capitolo d’esordio.
Non c’è quindi da meravigliarsi se l’hype di tutti i fan della serie è stato elevato sin dall’annuncio ma, se già doversi confrontare con un primo titolo di rango non risultava un’operazione semplice, questo The Inpatient presenta non pochi problemi che ne inficiano la qualità.

Blackwood Pines Sanatorium

Ambientato 60 anni prima gli eventi di Until Dawn, in un manicomio/casa di cura a BlackWood Pines, The Inpatient ci vede vestire i panni di un paziente affetto da amnesia. Durante tutto il gioco ci troveremo sempre in compagnia di qualche personaggio con cui dialogheremo (nel vero senso della parola).
Prendendo in prestito dalla Teoria del Caos l’effetto farfalla, la SuperMassive Games, come già  in Until Dawn, ce ne offre la propria versione: le risposte che sceglieremo di dare influenzeranno il corso della storia, saranno decisive per la vita o la morte dei personaggi incontrati e ci condurranno a finali differenti.

Cosa si poteva fare meglio

Come accennavamo, i difetti legati a questo titolo sono diversi e coinvolgono molti settori chiave.
Il secondo  difetto, non da poco in ordine di fastidio arrecato al gamer, è rappresentato dalla programmazione dell’ambiente che ci circonda. L’intero scenario, compresi il 99% degli oggetti, si presenta infatti come un unico gigantesco blocco immobile: ciò vuol dire che non solo non saremo in grado di far muovere niente sbattendovi contro, perdendo in realismo ma, per di più, qualsiasi oggetto, persino quelli dotati di ruote, ci bloccherà il cammino, impedendoci di proseguire, obbligandoci a una macchinosa manovra di aggiramento. Per compire questa farraginosa operazione dovremmo spostare l’analogico di destra per tre o quattro volte nella direzione della rotazione che vorremo effettuare prima che la manovra vada a buon fine.
Qualche “illuminato” sviluppatore della casa britannica, ha ben pensato di mettere una bella toppa a questo inconveniente creando quello che rappresenta il primo dei difetti del gioco.
Il più grave problema è infatti proprio legato al sistema di controllo.
I programmatori della SuperMassive Games hanno dimostrato la propria maturità in ambito VR, studiando un sistema di controllo che evita completamente, qualsiasi problema legato al “motion sickness”, posizionando il movimento in avanti sull’analogico sinistro e la rotazione di 30/45/60 gradi sull’analogico destro.
Fin qui un ottimo lavoro. Purtroppo qualcuno, probabilmente in uno stadio particolarmente avanzato dello sviluppo del gioco, o addirittura in fase beta testing, ha avuto la “geniale” idea di mettere sempre sull’analogico destro la “feature” per l’inversione di visuale a 180°. Questa inopportuna funzione di controllo ci perseguiterà per tutto il gioco e ci capiterà in continuazione di azionarla involontariamente. Malauguratamente, neanche dalle impostazioni è possibile disattivarla, e saremo così condannati per l’intero gioco a doverci voltare nuovamente nella giusta direzione, diminuendo ancor di più la già scarsa immersività di questa esperienza VR.
Lo stress e il senso di insoddisfazione causati dalle già citate incaute scelte di programmazione ci inducono a sperare almeno in una storia avvincente e dal finale ricco di suspense. Anche qui veniamo amaramente delusi: ci mettiamo veramente poco a capire la storia e i suoi risvolti, e il gioco si riduce a seguire qualche personaggio per interminabili corridoi nei quali non succede assolutamente niente, e quasi speriamo in un jumpscare per movimentare un po’ la noia generata da questi lunghi tratti soporiferi.

Cosa ci è piaciuto

Assolutamente da lodare, invece, è l’esperimento relativo al controllo vocale dei dialoghi fatto dagli sviluppatori della SuperMassive Games.
Durante i colloqui con i vari personaggi, ci verranno poste delle domande e proposte a schermo due risposte possibili: ci basterà pronunciare la frase scelta e verrà automaticamente interpretata dall’intelligenza artificiale che si occupa del riconoscimento vocale.
L’eccellente lavoro degli sviluppatori britannici fa sì che l’algoritmo di riconoscimento vocale abbia un ottimo livello di accuratezza, pari quasi al 90% di corretta identificazione della risposta. È saggiamente stata anche prevista la possibilità di selezionare la risposta, semplicemente guardandola e premendo il tasto X.
In breve, risulta abbastanza naturale parlare con i personaggi del gioco sebbene sia necessario pronunciare esattamente la frase mostrata come risposta e non sia possibile dire qualcosa di simile o di significato analogo, come avviene nelle odierne AI di riconoscimento vocale.

Analisi Tecnica

Le texture sono belle, dettagliate e di grande effetto, sia quelle relative all’ambiente sia quelle che delineano l’aspetto dei personaggi. Il titolo sarebbe graficamente eccellente se non fosse per una miriade di bug grafici che, a scapito del realismo, fanno brillare anche in totale oscurità tutti gli oggetti, evidentemente aggiunti in un secondo momento, come i contorni delle finestre, delle porte, alcune parti della pavimentazione ecc.
Le animazioni dei personaggi sono abbastanza fluide e credibili, mentre quelle legate al nostro personaggio lasciano alquanto a desiderare. La velocità con cui ci muoviamo è a dir poco ridicola, anche nei momenti più concitati di imminente pericolo siamo lenti come una tartaruga assonnata e, se ci guardiamo i piedi, per altro scalzi, notiamo una specie di “moon walking” con scivolamento frontale del tutto inverosimile.
Il comparto audio è buono: i dialoghi, in italiano, sono ben doppiati, quasi al livello di quelli dello spin-off Rush of Blood, e le musiche accompagnano abbastanza bene le varie parti della storia. Gli effetti audio, seppur d’effetto, sono spesso temporizzati con troppo anticipo, rovinando così la sorpresa dei, tra altro rari, jumpscare.
L’estrema lentezza del personaggio, le lunghe camminate per gli interminabili corridoi che attraversiamo del tutto indisturbati e le poche emozioni che regala questo titolo, fanno sì che la scarsa longevità di sole 2-4 ore diventi un pregio piuttosto che un difetto.
Per quanto riguarda il “motion sickness”, problema sempre in agguato quando si tratta di realtà virtuale, possiamo tranquillamente affermare che i ragazzi di SuperMassive Games lo hanno totalmente scongiurato, tramite l’ormai collaudato sistema di rotazione a scatti.

The Inpatient

Impressioni Impazienti

Purtroppo The Inpatient delude sotto molti aspetti, la storia lenta e superficiale, il sistema di controllo stressante e tutt’altro che funzionale, la longevità di sole 2/3 ore e qualche bug grafico, fanno scendere il giudizio generale del gioco ben al di sotto della sufficienza. L’impressione generale che si ha giocando a The Inpatient è che la SuperMassive Games abbia puntato davvero in alto con un titolo graficamente bellissimo, e aggiungendo l’innovazione del controllo vocale dei dialoghi, al già apprezzato sistema di narrazione dell’effetto farfalla, abbia cercato di raggiungere l’olimpo delle IP. Purtroppo evidentemente, a uno stadio avanzato dello sviluppo, forse per problemi di budget, o a causa di qualche deadline da rispettare, abbiano dovuto accelerare la conclusione del titolo, lasciando bug grafici un po’ ovunque e rattoppando alla meno peggio i bug più importanti.