Spider-Man: Homecoming
Ammetto di non avere un gran rapporto con i reboot: li vedo spesso come un elemento di confusione nell’universo di una serie, una diversione dalla linea principale che aggiunge elementi di cui non sento quasi mai la necessità riguardo a storie che ho già apprezzato a loro tempo. Nel caso di marchi storici, longevi e consolidati come Spider-Man un reboot diventa un rischio ancora maggiore, dovendo “tradire” una mitologia ormai consolidata da decenni e sulla quale il cinema si è già più volte preso svariate libertà. Homecoming è infatti il secondo reboot cinematografico della saga che vede per protagonista l’Uomo Ragno, un lungometraggio nel quale il regista e sceneggiatore Jon Watts (e con lui Jonathan Goldstein, John Francis Daley, Christopher Ford, Chris McKenna ed Erik Sommers, che lo hanno affiancato in fase di scrittura) opera svariate rivoluzioni – com’è anche giusto che sia – alla storia del fumetto.
Peter Parker è sempre il quindicenne che tutti conosciamo, e il film non affronta la parte ormai nota dell’acquisizione dei superpoteri, ma ci introduce alla storia prendendoli come dati di fatto. Peter abita con una “zia May” enormemente ringiovanita nella sempreverde Marisa Tomei e sta svolgendo uno “stage” presso la Stark Industries, di fatto un apprendistato da supereroe sotto l’egida di Happy Hogan (un adattissimo Jon Favreau) che nella sua trasposizione cinematografica è ormai il braccio destro di Iron Man (ormai inscindibile dalla figura di Robert Downey Jr). Tom Holland si dimostra quello che è potenzialmente il più calzante degli Spider-Man già dal punto di vista fisico: più atletico di Tobey Maguire, più adolescente di Andrew Garfield, il giovanissimo attore britannico (che vedremo anche nei panni del giovane Nathan Drake nel film di Uncharted) è probabilmente la miglior sintesi tra i due predecessori, e lo dimostra anche sul piano recitativo, offrendo una prova rispettosa del personaggio originario che ben si innesta in tutti gli elementi innovativi derivati dalla contestualizzazione contemporanea.
In parallelo si sviluppa la storia di Adrian Toomes, capo di una ditta di smaltimento di rifiuti che vede interrotti i propri lavori dall’U.S. Department of Damage Control, causando un danno alla sua attività. Dalla rabbia per l’ingiustizia subita a diventare un cattivissimo villain il passo è breve; il mite imprenditore Toomes si trasformerà nel supercriminale che il giovane Spider-Man dovrà affrontare, lo storico Vulture, l’Avvoltoio, interpretato qui dall’immenso Michael Keaton, (e chi meglio di Birdman?), il quale, poco tempo dopo, avvierà una nuova attività imprenditoriale dandosi alla compravendita di armi aliene (Chitauri, nella fattispecie) sul mercato nero. E in qualche modo bisogna pur campare, però se arriva Spider-Man a romperti le uova nel paniere…
Il film è interamente gestito su un’equilibrata alternanza di toni fra serio e faceto, momenti di grande azione e scambi di battute efficaci (con un paio di picchi verso il basso sulla linea comica).
Quello in cui si colloca la storia è un mondo diverso da quello in cui un tempo nascevano i supereroi: se ogni fumetto dell’epoca vedeva spesso il proprio protagonista totalmente isolato e reietto, in un mondo spesso afflitto dal crimine e privo di possibilità di salvezza che rendeva necessario l’intervento del “supergod“, qui siamo in un universo totalmente ribaltato, dove i supereroi sono una realtà consolidata – con la squadra degli Avengers in primo piano – non meno di quanto lo siano pericolosi alieni e i continui attacchi alla civiltà da parte di esseri potentissimi e cattivissimi. È la nuova weltanschauung Marvel, ed è chiaro che si parta da un totale ribaltamento di prospettiva rispetto al mondo fumettistico: ciò comporta che le storie e i personaggi debbano inevitabilmente svilupparsi su una base culturale e sociale totalmente diversa, nella quale Capitan America gira video educativi destinati alle scuole e la Damage Control è una realtà consolidata. Non è dunque strano che la variazione del contesto attorno a Peter Parker cambi anche il modo di vivere del giovane Spider-Man, il quale soffre, sì, di poca fama nel contesto scolastico e del conseguente bullismo da parte di Flash Thompson (Tony Revolori, che qualcuno avrà già visto lavorare con Wes Anderson) ma rispetto ai comics è meno isolato, ha un migliore amico, Ned (Jacob Batalon), e un gruppetto di compagni nerd con cui gareggiare a un decathlon scientifico, nonché gli stessi Tony Stark e il buon vecchio Happy a supportarlo, a formarlo, ma soprattutto a bacchettarlo.
Da queste basi prende le mosse la ripartenza della saga di Spider-Man, in un contesto in cui non è necessario uno zio Ben a sacrificarsi per la sua formazione morale, dove il protagonista è meno eroe epico e più personaggio a tutto tondo, al punto da rimettere in discussione gli stessi desideri che lo animano durante l’intera storia, anche quelli legati al suo essere supereroe. C’è un punto focale infatti, nel film, un momento di intersezione tra i desideri (incarnati da Liz, la ragazza di cui Peter è innamorato, interpretata da Laura Harrier) e i doveri del supereroe: il momento di intersezione si traduce in uno scontro che non a caso ha luogo durante il tradizionale ballo scolastico che segna il ritorno a scuola degli studenti, l’“homecoming” appunto, che diviene una sequenza cruciale della storia. Probabilmente Watts gioca con questa ambiguità, perché fin dall’inizio si intuisce come il titolo faccia riferimento al ritorno a casa dopo il grande combattimento all’aeroporto di Berlino in Civil War, quello che sancisce il vero e proprio inizio del rapporto tra Peter Parker e la Stark Industries; ma l’homecoming scolastico diventa occasione per rivelazioni e decisioni importanti per il giovane Spider-Man e, pur essendo la sequenza forse gestita in maniera un po’ spicciola e sbrigativa, si rivela uno dei punti chiave del film. È a Tom Holland che dobbiamo riconoscere il merito di restituire un personaggio roso dal proprio dilemma, non gravato dalle responsabilità derivanti dal grande potere né dai sensi di colpa familiari, ma ineluttabilmente diviso dalla frattura fra il Peter Parker adolescente e lo Spider-Man in divenire che animano la dialettica di questo “romanzo di formazione”. Anche questo aspetto avrebbe forse meritato un maggiore approfondimento, ma non era l’obiettivo del film (e dobbiamo pur sempre ricordare che il mondo Marvel, come quello di Star Wars, hanno preso una piega diversa da quando sono stati inglobati nell’universo Disney, la quale ha comunque il merito non da poco di aver mantenuto una buona qualità in entrambi i brand).
Il livello di scrittura però rimane globalmente molto buono, mantenendo bene l’equilibrio tra un aspetto action, supereroistico e spettacolare ben gestito e quello comico che, al di là di qualche scivolone, mantiene il film sempre su un piano “brillante”; buona anche la prova registica di Jon Watts, il quale manifesta alcuni propri limiti nelle sequenze più difficili come quella del traghetto di Staten Island, nella quale si sente il peso di una certa inesperienza e il fatto di essere alle prese con il proprio primo lavoro ad ampio budget.
Le musiche di Michael Giacchino (The Incredibles, ma anche compositore in vari lavori J. J. Abrams, una garanzia in qualunque film arrivi a musicare) e la fotografia dell’italo-americano Salvatore Totino (The Da Vinci Code, Frost/Nixon, Angels & demons), completano un quadro molto ben strutturato, nel quale gli attori possono dare del loro meglio; a tal proposito, se possiamo rimanere colpiti dell’ottima prova del ventunenne Tom Holland alle prese con un ruolo difficile dentro un costume pesante da portare, quello che continua a impressionare nonostante la lunghissima carriera è sempre Michael Keaton, che impersona in maniera magistrale un cattivo dotato di uno spessore degno dei grandi film del genere (i Batman di Nolan su tutti) e che non si rivela un semplice contraltare atto a valorizzare il supereroe, come spesso accade nel film Marvel; al contrario, Toomes/Vulture è un personaggio problematico, animato da una rabbia con cui potremmo facilmente empatizzare, scaturendo da un senso di un’ingiustizia subita, da un lavoro sottratto a un uomo che arriva ad affermare pure che “questi uomini hanno delle famiglie”, riferendosi ai propri operai, un capo d’azienda che possiamo immaginare amministri la propria attività da “buon padre di famiglia” e che diventa un villain per reazione, un cattivo che non gode della morte altrui o della distruzione fine a se stessa ma che è disposto a far qualunque cosa per difendere la propria famiglia e il proprio territorio, senza pentimenti e con tutto il cinismo possibile, beninteso; ed è forse l’odio verso tutti i grossi capitalisti che aggrediscono e fagocitano il mercato e verso lo stesso Tony Stark (che li rappresenta) a rendere il personaggio per certi versi vicino al nostro Spider-Man, non a caso definito da Iron Man «eroe springsteeniano della classe operaia», un working class hero proiettato più alla difesa del quartiere che alla ribalta nazionale.
La dialettica fra due personaggi così ben congegnati fa la differenza in un film che pare un ottimo inizio per un brand che non sente il peso dei suoi quasi 60 anni di vita e nel quale Spider-Man pare finalmente essere davvero ritornato a casa.