Memorie in Open World
Correva l’anno 2007, uno come tanti se non fosse che, da qualche parte nell’estremo sud del Bel paese, un ragazzino cominciò ad avere il primo approccio con un mondo nel quale poi, sarebbe rimasto immerso fino al collo: quello videoludico. Tutto ebbe inizio su una PlayStation, un po’ per svago, un po’ per caso. Un po’ come tutti, insomma, e segnati da titoli storici come Crash Bandicoot, Asphalt e Need for Speed. Giochi straordinari, ma a far breccia fu la serie di Grand Theft Auto, quella che ancora oggi, – agli occhi di chi scrive – rimane senza pari. Nella moltitudine di titoli che componevano la saga, era inevitabile restare folgorati da San Andreas, titolo controverso che ha letteralmente assistito la mia infanzia. Vi sono sentimentalmente attaccato: quante partite giocate in co-op locale insieme alla mia sorellina più piccola, da un lato il joypad, dall’altro un bel biberon di latte, decine di missioni da completare e nessuna Memory Card su cui salvare i dati (il che mi spingeva a completare il maggior numero di missioni nel minor tempo possibile), cosa potevo desiderare di meglio che godersi la totale libertà in game in compagnia di mia sorella? Per me era quella la felicità, giocare con chi vuoi e a cosa vuoi senza preoccuparti di altro. Passare le giornate a esplorare quell’universo gangsta di cui, grazie al fascino del male che un po’ tutti prima o poi ci tocca, si sognava in qualche modo di far parte: a chi non piacerebbe andare in giro a conquistare i territori delle altre gang a suon di bazooka e molotov? Certo, non avevo ancora l’età per giocarci – non ditelo a nessuno! – e nonostante il PEGI non sia più un problema per me, mi rendo conto che all’epoca questo avrebbe potuto precludermi questo divertimento, anche se giustamente. C’è un tempo per tutto e lo stesso vale per San Andreas.
Uno dei grandi meriti della serie GTA è l’aver dato a tutti noi la possibilità di fare quel che non avremmo mai potuto osare. Potevo rubare uno Shamal fiammante al Los Santos International Airport e volare su e giù per l’intero Stato schivando missili termici, elicotteri e jet militari, e forse è proprio tutto quel tempo passato a volare che ha generato in me una curiosità quasi morbosa verso i simulatori di volo come Microsoft Flight Simulator X e X-Plane-7, passione che coltivo tutt’oggi con discreto interesse. Ero, e sono, un explorer da competizione, mi piaceva passare a menadito tutto il calpestabile del gioco, dai meandri più nascosti verso i Map Exit fino alle vette più alte: le avrei mai viste, altrimenti? Quel gioco era un piccolo, perfetto saggio di come creare un mondo aperto. Ecco, quel che le generazioni precedenti alla mia non hanno avuto a quell’età è sintetizzato in due parole: Open World.
Dopo la saga GTA, per me vennero Just Cause 2, Watch Dogs, Dirt, titoli in cui perdersi nella digitale immensità geografica e nella cura dei dettagli. Oggi ho trasmesso questa mia passione alle mie sorelle che, non solo hanno apprezzato il genere, ma hanno anche cominciato a muovere i loro primi passi su titoli come Minecraft: certo, meno esplosivo, ma volete mettere quel potenziale di creatività primitiva espressa nel crafting di questo sandbox immenso e squadrato? A volte mi siedo accanto a loro, le guardo giocare, ogni tanto faccio un giro anch’io in quei paesaggi geometrici. Ma subito mi viene da pensare alle corse sulle strade di San Andreas, ai tramonti visti sfrecciando sul lungomare, e in qualche modo mi sento vecchio nonostante la mia giovanissima età; pesco da ricordi che sembrano lontanissimi mentre cerco di dare loro consigli su cosa fare e come fare, ma loro sono sempre un passo avanti a me. Ed è questo che forse ci ricordano i videogiochi, che c’è sempre da imparare, anche dai più piccoli che da noi cercano saggezza e insegnamenti che poi spesso troviamo in loro.