P.A.M.E.L.A.

Ogni tanto capita di vedere sviluppatori indipendenti alla ricerca di Eldorado, con quel progetto cominciato dall’unione di tanti piccoli sogni e culminato con uno sviluppo più o meno travagliato ma capace comunque di vedere la luce, uscendo tra i vari store sia fisici che digitali. Nvyve Studios si aggiunge a tale novero dal 2015, anno in cui P.A.M.E.L.A cominciò il suo sviluppo, approdando nel 2017 in early access su Steam. Dopo alcuni aggiornamenti abbiamo deciso di testarlo, e il titolo pare presentarsi abbastanza bene nonostante ci sia ancora un po’ di lavoro da fare.

Tra Rapture e Wellington Wells

Negli anni abbiamo visto come a un certo punto qualcuno decide di lasciare la società in cui vive per fondare la propria città ideale, approfittando di alcuni mutamenti sociali, catastrofi o perché no, semplice voglia di cambiare aria. Questi paradisi però hanno una cosa in comune: hanno tutti fallito nel modo o in un altro. Nel mondo videoludico basta citare Bioshock e la sua Rapture, fallita miseramente nonostante la totale libertà da vincoli etici, morali, religiosi ecc, o la più recente Wellington Wells, protagonista in We Happy Few o qualche Vault in Fallout; tutte sono la rappresentazione dell’ego umano, incapace di gestire se stesso senza che si arrivi all’autodistruzione. E l’Eden, fulcro di P.AM.E.L.A., ha lo stesso destino, durando quanto la lettura delle prime pagine della Bibbia. La città ideale, massima espressione del Transumanesimo, è caduta in rovina sotto una misteriosa epidemia dilagata tra i suoi abitanti a seguito di esperimenti eugenetici non riusciti correttamente. Noi veniamo risvegliati dal sonno criogenico da P.A.M.E.L.A., un I.A. estremamente avanzata, in grado di gestire l’intero complesso urbano. Al contrario di quanto siamo stati abituati a vedere da HAL 9000 a Skynet, P.A.M.E.L.A. sembra un’entità benevola, che sin da subito ci aiuta, cercando di risolvere i misteri di Eden. Una volta coi piedi per terra, le associazioni con altri titoli saltano subito all’occhio, dal già citato Bioshock, a Prey fino a Dead Space, in un connubio di generi che già da adesso sembra discretamente funzionare. La narrazione del titolo sembra seguire i classici canoni di un souls like in cui, immersi in un mondo di cui siamo totalmente all’oscuro, abbiamo come unica possibilità di capire dove ci troviamo e cosa sta succedendo quella di leggere alcuni documenti o ascoltare diari di P.A.M.E.L.A. sparsi lungo le vie della città. Questo, assieme all’ambientazione a tratti claustrofobica e a tinte horror, riesce a creare un’ottima atmosfera, in cui cercare di sopravvivere con ogni mezzo diventa la nostra prerogativa. Non ci sono – almeno per ora – quest da seguire: ci siamo solo noi e l’Eden in tutto il suo splendore, capace di raccontarci visivamente quanto stia accadendo. Interessante è la presenza, oltre che di nemici di cui parleremo in seguito, di androidi progettati probabilmente per servire i cittadini e che ora senza uno scopo preciso vagano per le vie della città forse alla ricerca di se stessi; altri androidi adibiti alla protezione continuano invece a pattugliare, rimanendo sfruttabili per gli scontri, rendendoli molto più accessibili. La loro presenza pare segnalare una trama molto più articolata di quanto sembri, ma solo al day one potremmo avere un’effettiva risposta. Sulla carta il progetto sembra funzionare, eppure qualche criticità rischia di minare pesantemente i sogni di questo piccolo studio.

L’uomo deve essere superato

P.A.M.E.L.A. mischia tanti generi: un sandbox con elementi survival horror, FPS-RPG (probabilmente bisognerà creare una categoria apposita per questo tipo di titoli, che vada oltre la generica dicitura “action”). Sin da subito possiamo scegliere che tipo di bonus o malus saranno presenti in partita, dalla difficoltà in se sino al permadeath, in cui saremo costretti a ricominciare da capo una volta tirate le cuoia. La sua molteplice natura dunque salta subito fuori: è fondamentale raccogliere il maggior numero di risorse possibili per il crafting e per il potenziamento del proprio equipaggiamento, che consta in una speciale tuta, presente in diverse versioni e gradi di evoluzione, oltre a perk aggiuntivi e armi corpo a corpo e a distanza come del resto l’elemento survival, in cui rischieremo la morte se non si è mangiato o bevuto a sufficienza.
Il titolo sembra abbastanza vario, donando un buon senso di progressione, soprattutto durante le fasi di combattimento, forse il vero punto debole del lavoro Nvyve Studio. Al grido di “ho i pugni nelle mani” saremo costretti a farci strada attraverso combattimenti poco entusiasmanti: tutto sta nella gestione della schivata, poco intuitiva e che gioverebbe davvero di un buon sistema di targeting del nemico, in modo da rendere più semplice girare intorno all’avversario e scoprire eventuali punti deboli. Essendo comunque ancora il titolo in early access, si può chiudere un occhio e si spera vivamente che il combat system venga implementato a dovere. Purtroppo le cose non cambiano una volta ottenute delle armi a distanza, incapaci di restituire un feedback reale. I combattimenti sono dunque una danza in cui è necessario schivare i pochi pattern d’attacco nemici, abbastanza semplici da gestire anche se potrebbe capitare di affrontarne ben più di uno. In questo caso eseguire la “tecnica segreta della fuga” o attirare i nemici verso robot sentinella, potentissimi e in grado di gestire da soli una piccola orda. In generale questo funziona ma purtroppo ci sono da segnalare numerosi bug all’intelligenza artificiale, oltre a quelli tecnici: capiterà infatti di osservare strani comportamenti, come robot impassibili alle aggressioni o nemici capaci di rimanere ostacolati da oggetti insormontabili come una sedia.
Uno dei pochi obbiettivi chiari è quello di riportare Eden a esser quantomeno funzionante, cercando di riparare piccoli guasti all’alimentazione energetica, fondamentale per esplorare adeguatamente le vie della città in quanto, essendoci anche un ciclo giorno/notte, molte zone resteranno al buio, relegandoci all’ausilio della nostra fedele torcia. Insomma, si cerca di rendere il tutto quanto più immersivo possibile, anche grazie alla totale mancanza di HUD e l’utilizzo di menu e interfacce in tempo reale olografiche. Questo, come del resto l’intera struttura tecnica, poggia le sue solide basi sul motore Unity, estremamente versatile e qui sfruttato al suo meglio. Gli ambienti sono ben dettagliati, alcuni estremamente grandi e, nonostante il colpo d’occhio  generale sa di già visto, artisticamente sembra avere una propria, forte identità. A colpire è l’impianto luci, capace di regalare ottimi scorci sia di giorno che di notte fuori, ma anche all’interno, dove si fa uso di elementi olografici e simil-oled. Il risultato dunque è molto buono, anche se la componente audio sembra forse ancora indietro, in cui manca una vera profondità dei vari suoni presenti, ma anche componenti sonore di contorno, stile Alien Isolation o Dead Space, per intercederci: suoni ambientali sinistri, vento, vibrazioni, insomma, un campionario più vario in grado di esaltare quanto vediamo a schermo.

In conclusione

P.A.M.E.L.A. è forse ancora lontano dalla sua release definitiva ma già ora riesce a intrattenere e invogliare il giocatore a scoprire i piccoli segreti di Eden. Le meccaniche presenti sembrano ben studiate e frutto di una buona programmazione, mentre altri elementi, come il combat system, necessitano ancora di molto lavoro. Potenzialmente questo titolo potrebbe diventare davvero interessante e starà alle mani di  Nvyve Studio far si che ciò accada.




We Happy Few – E La Pillola Va Giù

Come tutti sappiamo, We Happy Few, è un titolo dalla storia travagliata, presentato ormai nel lontano 2015 e arrivato in questi giorni, ben diverso da quanto prospettato. La campagna Kickstarter atta a finanziare il progetto è stata una manna per Compulsion Games ma anche una spada di Damocle, in quanto, dopo vari rinvii, l’uscita del titolo non poteva più esser posticipata. Terminato il lungo periodo di early access, Wellington Wells è pronta per essere esplorata, un’isola avvolta dal mistero ma anche da tanti elementi da rifinire.

Sembra talco, ma non è…

Inghilterra, 1960, ma non quello che pensate: la Seconda Guerra Mondiale è stata vinta dalla Germania e, come in altre ucronie, questo ha portato molti cambiamenti nella società. Ma c’è una città particolare, un luogo isolato, che ha deciso  di dimenticare il passato vivendo in allegria e spensieratezza: Wellington Wells è la vera protagonista del titolo, proprio come Rapture per Bioshock, anche se con le dovute proporzioni. Tra gli abitanti circola una speciale “medicina”, la Joy, capace di regalare subito benessere, rendendo luminosa anche una lugubre giornata; ed ecco quindi che la città pullula di vita, lontana dalle tragedie vissute durante il conflitto, cui nessuno sembra ricordarsene. A dir la verità, questo espediente non è nuovo: si pensa subito al Soma di Brave New World di Aldous Huxley, ma anche a Naruto e al suo Tsukuyomi Infinito o persino a Code Geass: Lelouch of the Rebellion e alla droga Refrain. Come rendere dunque originale un espediente narrativo già abusato in numerose opere? Ci pensa il comparto artistico a mettere una pezza, ma anche la caratterizzazione dei protagonisti con i loro dialoghi a renderci quasi alieni di fronte alle bizzarie che ci troveremo davanti.
Ma – come dicevamo – Wellington Wells è il fulcro, una radiosa prigione in cui la perfezione la fa da padrona, tanto che ogni minimo gesto ritenuto “non conforme” (come correre) verrà immediatamente preso di mira dagli abitanti e dalla polizia, una sorta di Gestapo, pronta a sedare qualunque tipo di ribellione. Basta infatti mancare una sola dose di Joy – come avviene nel prologo – per far cessare la meravigliosa fiaba indotta dalla droga, attanagliando con sensi colpa, rimorsi e traumi che solo una guerra e i suoi postumi è in grado di produrre. We Happy Few è tutto questo, un costante contrasto di emozioni che riesce a colpire nel segno lo spettatore, con dialoghi ben scritti e originali, con una sceneggiatura che riesce a estrapolare tematiche importanti da ogni anfratto della cittadina. Purtroppo, non di solo narrativa si vive.

Perché sei così serio?

We Happy Few nasce come immersive sim con una forte componente survival mitigata in questa versione finale. La fame, la sete e la stanchezza non sono più letali come nella concezione originaria del gioco, divenendo meri malus per la nostra stamina. Gli sviluppatori, probabilmente ascoltando i pareri del pubblico durante l’early access, hanno addolcito alcune componenti che, in qualche modo, risultano però mal amalgamate tra loro. Andare a ricercare varie componenti per il crafting come i buoni Bioshock o Fallout insegnano, è fondamentale: bidoni della spazzatura, cassette della posta, bauli possono diventare delle vere e proprie miniere e, ottenuti i componenti necessari, sarà possibile dilettarsi nella costruzione di vari oggetti che variano tra quelli base e quelli avanzati. Non solo armi e oggetti utili, ma anche il vestiario ha la sua importanza: una caratteristica che non è andata persa è lo stealth, essenziale, ma fino a un certo punto. Indossare il vestito giusto in certi frangenti può fare la differenza, eppure, tutto si perde in un bicchiere d’acqua, naufragando in un’intelligenza artificiale lacunosa sotto molti punti di vista: basterà un piccolo errore per ritrovarsi accerchiati da gente che nemmeno si trovava nelle vicinanze, e si potrà far tornare tutto alla normalità con la stessa facilità, semplicemente svoltando l’angolo, come dopo un’istantanea dose di Joy. Questo difetto fa pendant anche con la morte, che non ha alcuna conseguenza, anzi, a volte sarà più comodo tirare le cuoia piuttosto che proseguire. Tutto ciò rende il titolo poco appagante ed, escludendo l’efficace narrativa, nel complesso il risultato rischia di essere disastroso. Anche il venire alle mani con i nemici del momento non regala alcuna soddisfazione a causa di hit box imprecise, mancanza di feedback reale e animazioni non proprio eleganti. Sembra quasi di colpire il vuoto, sarebbe bastato davvero poco per mettere una pezza a questo problema.
Anche la differenziazione esteriore dei tre protagonisti viene meno: la loro fisicità così diversa non risulta fondamentale e solo aumentando il nostro livello con alcuni upgrade, potremmo sentire lievi differenze.
Gli unici elementi discretamente riusciti sono le sezioni notturne, in cui il coprifuoco è attivo ed esser visti può scatenare un putiferio ma, soprattutto, la meccanica dedicata alla pillola Joy e ai suoi effetti. Ogni compressa ingerita comporta alcuni cambiamenti – anche visivi – dato che potremmo passare inosservati per le vie della città e superare senza problemi i detector per i “Musoni”, coloro che rifiutano le gioie della medicina. Ma assumerne troppa ha delle controindicazioni, come perdita della memoria e crisi d’astinenza più marcate, in grado di far imbestialire la popolazione. È quindi un bene assumerla solo in casi specifici; anche qui, spingere su questa meccanica avrebbe garantito maggiore originalità e spessore a un titolo che vede nell’amalgama degli elementi il principale problema.
Durante le avventure avremo modo di sbloccare piccoli rifugi, degli hub dove poter riposare o spostarsi rapidamente, cosa abbastanza utile quando si ha a che fare con molte quest secondarie aperte ma purtroppo fin troppo simili tra loro.

Chiaroscuro

Anche dal punto di vista tecnico We Happy Few non raggiunge vette d’eccellenza. Nonostante l’utilizzo dell’Unreal Engine 4 il gioco lascia adito a qualche dubbio, a cominciare da alcuni glich e bug di varia natura, come corpi spariti nel nulla o l’eccessivo pop-up delle texture. Oltre a questo, fa quasi impressione l’eccessivo riutilizzo degli asset sia per gli ambienti che per la popolazione, consistente in circa cinque-sei modelli, ripetuti all’infinito. Tutto crea anche problemi alla navigazione in quanto perdersi per le vie della cittadina sarà all’ordine del giorno. Nonostante un ciclo meteo e giorno-notte il titolo non riesce proprio a spiccare, se non per alcune trovate artistiche come il passaggio dalla triste realtà al lucente bagliore della vita dovuto all’assunzione della pillola Joy e allo stile in cel-shading che, in qualche modo, regala a We Happy Few una sua identità. Inoltre, il titolo sarà uno dei pochi a poter sfruttare la nuova tecnologia per il ray tracing e il nuovo anti-aliasing DLSS, disponibili non appena le nuove Nvidia serie 2000 muoveranno i loro primi passi sul mercato.
Fortunatamente la componente audio riesce a salvare quanto rimane, contando su un ottimo doppiaggio inglese, con uno slang appositamente elaborato. Tutto risulta a volte caricaturale ma efficace, in grado di far risaltare i momenti bui come quelli goliardici.  Purtroppo la traduzione non sembra essere andata a buon fine, con sottotitoli a volte incompleti e soprattutto invasivi, mostrando dialoghi non direttamente interessati a noi, anche nel bel mezzo di un’altra conversazione. Il risultato è una caotica bulimia di frasi su schermo che rendono il tutto di difficile comprensione.

In conclusione

We Happy Few paga il suo contorto sviluppo e l’improvviso cambio di direzione che ne hanno mozzato, a ogni livello, il gameplay. L’ossatura buona del titolo resta nella componente narrativa e nel doppiaggio, in grado di restituire una storia forse non originale ma capace di emozionare, esplorando le mille sfaccettature della società umana. Dipende dunque da quanto peso decidiate di dare alla trama e al suo evolversi rispetto al resto: valutando gli elementi nel loro insieme, si arriva giusto alla sufficienza. È dunque una grossa occasione sprecata ma un buon punto di svolta per Compulsion Games, che dopo questa esperienza potrà ripensare ai propri errori e portare in futuro qualcosa di più completo e meglio curato in tutti i suoi aspetti.

Processore: Intel Core I7 4930K
Scheda video: Nvidia Gigabyte GTX760 4GB
Scheda Madre: MSi X79A
RAM: Corsair Vengeance 16GB
Sistema Operativo: Windows 10.