Diciamoci la verità: appena si ha il sentore che una casa di produzione canematografica stia per lanciare un lungometraggio tratto da un videogioco, comincia a salire qualche brivido lungo la schiena. Di certo non siamo abituati bene: innumerevoli sono ormai i film a tema videoludico che, tra il pessimo e mediocre, ci hanno continuamente delusi, lasciandoci quasi senza speranza. C’è da dire però, che qualche eccezione c’è stata, dal Prince of Persia con Jake Gyllenhaal a Silent Hill sino, perché no, anche al primo Mortal Kombat. Adesso ritocca a Lara Croft, divenuta negli anni ’90 vera icona pop ed eroina con cui tutto il genere femminile ha potuto finalmente interfacciarsi: forte, indipendente e superiore alla maggior parte dei comprimari maschili.
I film che hanno visto come protagonista Angelina Jolie, rispettivamente Lara Croft: Tomb Raider e Tomb Raider: La Culla della Vita, hanno saputo solo dare lustro alla prorompenza fisica dell’archeologa, divenendo veri e propri spot alle “doti” fisiche dell’attrice. Ma con il reboot videoludico del 2013, uscito con il semplice nome di Tomb Raider, le cose erano cambiate: la nuova Lara era figlia dei tempi che viviamo, una ragazza più reale, con un buon background narrativo e con le fragilità di qualunque essere umano. Oltre a questo, sia il primo capitolo che il secondo, Rise of the Tomb Raider, sono anche ottimi videogiochi, dal buon successo di critica e pubblico. Era naturale che prima o poi gli occhi della cinematografia si sarebbero posati ancora una volta su Lara Croft.
Il Tomb Raider videoludico ha segnato profondamente i fan, spostando il focus più su azione e avventura che sulla risoluzione di enigmi e sezioni platform. Queste nuove caratteristiche, oltre a una profonda rivitalizzazione di Lara, ben si sposano con un film da 90 milioni di dollari di budget, che può incentrare tutto sul realismo senza l’impiego di eccessivi – e costosi – effetti speciali. A dir la verità, questo è un punto su cui ci soffermeremo più avanti, ovvero la resa dell’indole del videogioco.
Questo significa anche dire addio alla giunonica Angelina per abbracciare la super atletica e “semplice” Alicia Vikander, vincitrice del premio Oscar come miglior attrice non protagonista per The Danish Girl. L’attrice svedese ha già fatto parlare di sé per il suo talento – di molto sopra la media – che in Ex Machina ha trovato terreno fertile dal quale sbocciare. La sua Lara è una ragazza che un po’ si discosta dal personaggio che abbiamo avuto modo di conoscere: manca in qualche modo l’estrema passione per l’archeologia trasmessa dal padre, scelta se ci pensate un tantino forte, visto che è un perno fondamentale della sua caratterizzazione. Ma ciò che funziona per il pubblico videoludico non è detto che funzioni al cinema, ed ecco quindi Lara Croft, che cerca di farsi da sola, non accettando di prendere in eredità la fortuna della famiglia. La figura del padre è elemento fondamentale anche se un po’ in contrasto col canone ufficiale, non solo rispetto ai reboot, ma anche ai titoli originali. Scelte quindi azzardate ma che non inficiano su trama e protagonista in maniera drammatica, soprattutto per chi conosce le vicende del videogioco.
La trama dunque si snoda tangendo quella videoludica: la giovane Croft, decisa a sapere quanto accaduto al padre, si recherà su un’isola misteriosa al largo del Giappone, in cerca della verità. Le vicende, scritte a quattro mani da Geneva Robertson-Dworet e da Alastair Siddons, scorrono via senza particolari intoppi nonostante la durata di circa un paio d’ore, risultando a conti fatti Tomb Raider un buon film di intrattenimento ma senza particolari picchi. Tutto poggia sulle incredibili e robuste spalle della Vikander che, seguendo le orme del buon Tom Cruise, ha svolto la maggior parte delle scene d’azione senza l’ausilio di una stuntman. In questo film ne ha subite di ogni, come del resto la iellata controparte videoludica, dalle cadute da altezze proibitive alla lotta a mani nude passando per le arrampicate e chi più ne ha più ne metta; se c’è una cosa da sottolineare è la voglia di Alicia di interpretare questo personaggio al suo meglio, e di questo bisogna dargliene atto. L’irrisolto rapporto padre-figlia sarà al centro della personalità della protagonista così come del comprimario – e molto anche – Lu Ren (Daniel Wu); questo, oltre ovviamente a tutta l’esperienza sull’isola, darà alla giovane Lara motivo di crescita e di accettazione del suo ruolo, facendo quel piccolo passo verso l’eroina che noi tutti conosciamo.
Il regista norvegese Roar Uthaug è riuscito a impacchettare un film senza difetti evidenti, con una classica regia da “mestierante” ma che ben si sposa con l’azione e la location del film. Anche le scene d’azione, seppur non perfettamente coreografate, riescono a intrattenere e sono chiare la maggior parte delle volte. Quello che manca è appunto quel “guizzo” verso l’alto ma, come potete aver capito, è un po’ il problema di tutto il film. Anche la fotografia di George Richmond non fa altro che richiamare i toni del videogioco, un andare sul sicuro che, per come è stato indirizzato il lungometraggio, è anche comprensibile. Siamo stati abituati ad avere, infatti, due scuole di pensiero: una parte di pubblico chiede a gran voce nuove storie basate sui vari brand, altri, invece, vorrebbero un copia e incolla dall’opera videoludica a quella cinematografica. Inutile dire che entrambe le idee abbiano prodotto risultati discutibili.
Tomb Raider è furbo, mettendo in scena sì una storia che lambisce i temi della controparte originale ma anche capace di regalare scene clou precise al millimetro rispetto al videogioco, una via di mezzo che in fin dei conti accontenta tutti: i fan hanno con cosa interfacciarsi e i “casual” posso godere di buone scene d’azione.
Segnalando personaggi completamente assenti, come l’equipaggio dell’Endurance, e personaggi completamente stravolti, come il “cattivo” Vogel, arriviamo al più grande problema del film: la particolarità dei Tomb Raider risiede nel rendere tutte le leggende createsi lungo il corso della storia, mera realtà, portando in scena elementi sovrannaturali e metafisici che ben si sposavano con il contesto del gioco ma anche – incredibilmente – con i lungometraggi con protagonista Angelina Jolie. L‘isola Yamatai è un luogo ricco di misteri e a tratti di angoscia, all’interno del reboot del 2013, con tombe nascoste e ambientazioni mozzafiato. Nel film purtroppo manca tutto questo, in favore di ambienti più semplici ma poco caratterizzati; anche quando si arriva finalmente al tempio della Regina del Sole Himiko, la musica non cambia. Manca completamente quel senso di stupore e meraviglia derivante da una nuova scoperta fuori da ogni logica e che mal si discosta da ciò che rappresenta il brand. La mazzata finale arriva dalla completa assenza di elementi sovrannaturali, derivati in questo contesto dal risveglio e dalla potenza di Himiko e del suo culto, in grado di controllare il destino dell’intera isola. Se da un lato tutto questo è spiegabile da un budget che qualcuno definirebbe basso e la voglia di non strafare, con il rischio di allontanare pubblico, ecco che sorge la domanda fondamentale, alla quale non risponderemo “42“: ma abbiamo veramente visto Tomb Raider?
In fin dei conti questo risulta un film normale per gente normale, che vuol passare un pomeriggio al cinema senza particolari sussulti. Diffidate da chi elogia il film come un capolavoro: la pochezza dei lungometraggi tratti da un videogioco può rendere un film del genere di poco migliore, ancor più importante, solo perché mancano paragoni degni (“effetto Wonder Woman“). È indubbiamente un buon film di intrattenimento e sicuramente la migliore trasposizione cinematografica di un videogioco, grazie soprattutto ad Alicia Vikander che, a dispetto degli infelici paragoni scaturiti alla notizia del suo ruolo, porta una Lara Croft credibile e segna un buon inizio di saga, qualora si prosegua con questo brand.
Il contraltare è una storia che non prende mai realmente il volo e che ha poco a che fare con Tomb Raider. Troppe scelte conservative hanno fatto viaggiare il film con il freno a mano tirato e, al sopraggiungere dei titoli di coda, tirando le somme se ne sente il peso.