“Non ci sono più gli eroi di una volta”, cantavano gli Stranglers nell’ormai lontano 1977, quegli stessi eroi che hanno ispirato intere generazioni e alimentato fantasiose leggende tramandate di padre in figlio fino a diventare parte e sostanza di una storia alternativa forse più accessibile, ma non per questo priva di una profonda rete di significati e simboli che per certi versi risultano più tangibili di qualsiasi altra entità materiale.
Tutto questo preambolo per dirvi che Travis Touchdown non è più l’uomo di una volta, appesantito dalla violenza perennemente costante nella sua vita. D’altro canto è un assassino, e nessuno di noi è chiamato a scegliere ciò che siamo: lo siamo e basta. Ed è per questo che l’unica maniera per rifugiarsi lontano dalla realtà a volte è quella di fuggire dalla stessa, magari viaggiando verso il Texas a bordo di un camper in compagnia dei nostri videogiochi preferiti. Ma il passato è duro a morire ed è inevitabile portarsi dietro qualche strascico, specialmente se sei un killer professionista. Così la quiete appena conquistata viene turbata dalla visita inaspettata di Badman, anche lui alla ricerca disperata di un lieto fine per i suoi tormenti. Portatore di un odio smisurato nei confronti del nostro Travis, reo di aver ucciso senza pietà la figlia Badgirl incontrata durante la sua prima scalata nell’olimpo degli assassini, Badman si ritrova suo malgrado ingarbugliato in una brutta faccenda: la console a cui Travis si diletta a giocare ai videogame è la terribile Death Drive MK-II, una pericolosa arma di distruzione di massa in grado di trascinare i nostri eroi all’interno del software e rendere un incubo lisergico partorito dalla mente malsana di Suda 51 quello che fino a pochi attimi prima era un innocuo passatempo elettronico.
Queste sono a grandi linee le premesse dello spin off di No More Heroes, uscito in esclusiva su Nintendo Switch con un grande carico di aspettative da parte dei fan. Ma uno strano presentimento aleggiava nell’aria sin dai primi trailer mostrati al pubblico. Quello che abbiamo avuto modo di vedere non era esattamente quanto ci potessimo aspettare da un nuovo capitolo della avventure di Travis ma fu Gōichi Suda in persona a ribadire a più riprese che questo Travis Strikes Again non sarebbe stato un titolo canonico ma un passaggio obbligato verso il compimento di una possibile (?) trilogia. È andato tutto per il verso giusto?
NO MORE HEROES ANYMORE
Iniziamo subito con l’affermare un concetto: il modo migliore per capire l’idea dietro questo spin-off è conoscere l‘iter creativo alla base. Può sembrare una banalità, ma è sempre un bene ribadirlo in virtù del fatto che stiamo parlando di un gioco di Gōichi Suda, dove alle volte scelte stilistiche o di gameplay vanno al di là di esigenze puramente commerciali o di budget, e mai come in questo caso. Dopo l’esperienza passata in Electronic Arts in compagnia del maestro Shinji Mikami che ha visto trasformare il suo titolo più ambizioso – quel Shadow of the Damned nato da un dream team di nomi illustri – in un semplice action shooter in terza persona più volte rimaneggiato e castrato dai produttori, il buon Suda ha preso prepotentemente le distanze da un modo di concepire l’intrattenimento videoludico come forma di ricavo economico sicuro e calcolato che si tiene alla larga dal correre rischi attraverso meccaniche collaudate pronte per il mercato.
Parliamo di un game designer che ha imparato a proprie spese cosa voglia dire lavorare per un colosso come Electronic Arts, nel quale per forza di cose è necessario comprimere gran parte della propria libertà autoriale. Il bisogno di tornare sui propri passi è stato la causa diretta del suo ritiro dalle scene per otto lunghi anni, durante i quali ha potuto trovare una nuova fonte di ispirazione e in qualche maniera una rinnovata fiducia verso un settore ormai pigro e disincantato.
Il mercato dei giochi indipendenti occidentali, o che a dir si voglia indie, è stato per Suda il trampolino di lancio verso una rinascita artistica ed è proprio qui che si colloca lo sviluppo di Travis Strikes Again. Ripartire in piccolo con un budget contenuto, ma con una consapevolezza di se stessi più forte che in passato, con la voglia di sperimentare e andare al di là dei generi fino ad ora conosciuti, creando qualcosa di indefinibile ma allo stesso tempo alla portata di tutti, significa creare un gioco d’avanguardia e un dichiarato atto d’amore verso le produzioni indipendenti che ormai regnano negli store digitali. Ma le sole buone intenzioni non bastano a creare un buon videogame.
MOE~
Il gioco nella sua semplice struttura può essere divisa in due diverse fasi: la prima è quella dove si sostanzia il gameplay vero e proprio, ambientata totalmente dentro i software della demoniaca console da salotto del nostro Travis. Ci troviamo lì innanzi a un hack ‘n slash vecchia maniera, dove tempismo e riflessi risultano essere l’arma vincente per districarsi nelle caotiche situazione create dagli sviluppatori. Per combattere avremo dalla nostra la Beam Katana, entrata pienamente di diritto nell’immaginario della serie. Gli attacchi di Travis si traducono principalmente in leggero, utile per eliminare facilmente e velocemente grossi agglomerati di nemici, e pesante, che dovrà essere sapientemente dosato, ma in grado di causare ingenti danni ai nemici singoli. Per ogni attacco inferto, la barra energetica della vostra spada andrà esaurendosi fino alla completa inibizione dell’arma, motivo per il quale sarete costretti a prendere un attimo di respiro per ricaricare l’arma attraverso un movimento (abbastanza ammiccante) del vostro Joy-con (parlando della versione per Nintendo Switch). Per variare queste semplici meccaniche di base, il giocatore avrà a disposizione diversi attacchi speciali sbloccabili durante la run in anfratti nascosti dei livelli o subito dopo una boss fight. Aggiungono dinamismo e un pizzico di strategia ai combattimenti ma alcuni di questi sono totalmente trascurabili ai fini dell’avanzamento. I nemici principali sono costituiti dai Bug, creature antropomorfe che nel loro particolare design richiamano fortemente gli Haven Smile di Killer 7. Potrete recuperare le vostre forze da un venditore ambulante di ramen che vi presenterà un piatto diverso per ogni livello. Il gioco è tutto qui.
Per tutta la durata del titolo gli sviluppatori si propongono di conferire un minimo di varietà alle situazioni che mandano avanti il plot e, a essere sinceri, certe volte ci riescono brillantemente trovando delle soluzioni sorprendenti e simpatiche, tutto ciò però a discapito delle coerenza interna, rendendo di fatto il proseguimento un po’ troppo sfilacciato e poco uniforme, aspetto che caratterizza la maggior parte dei giochi di Grasshopper Manufacture, ma che può risultare indigesto per un pubblico più eterogeneo. In questo senso, i continui omaggi e rimandi ai titoli indie (ma non solo) più importanti del settore, oltre che alle numerose autocitazioni del designer (che arriva a inserire se stesso come uno dei villain) risultano in un primo momento apprezzabili e con un loro senso all’interno della trama, ma con l’avanzare delle ore di gioco verranno a noia molto facilmente. Ovviamente la possibilità di giocare insieme a un amico in locale alza l’asticella del divertimento, sempre che riusciate a trovare qualcuno capace di sopportare la tediosa ripetitività di fondo dell’avventura, ingigantita ulteriormente dalla struttura a corridoio dei livelli. Insomma, la maggior parte del tempo lo passerete avanzando attraverso percorsi fin troppo elementari e poco stimolanti.
La seconda fase probabilmente peserà come un macigno a tutti quei giocatori che non hanno una spiccata passione per gli infiniti blocchi di testo. In buona sostanza il buon Gōichi ha pensato bene di mandare avanti la trama del gioco tramite schermate di testo in 8 bit sulla falsa riga di un Metal Gear Solid qualsiasi. La scrittura dei dialoghi e la caratterizzazione dei personaggi secondari è in pieno stile Suda51, piacevole e divertente, e il designer spesso gioca su questa particolare scelta stilistica; col passare delle schermate e delle parole si insinua un pensiero lancinante, ovvero che lo scherzo e l’autoironia possa trasformarsi in un mea culpa non troppo velato dettato da un budget risicato e da tempi di produzione stringenti, che di certo non è una buona giustificazione per coprire la svogliatezza con la quale sono stati realizzati certi aspetti del gioco, ma questo argomento lo approfondiremo più avanti.
Queste due fasi distinte del gioco sono intervallate da un HUB centrale rappresentato dal camper dove Travis trascorre le sue notti solitarie in compagnia di Hotline Miami (a quanto pare molto amato da Suda). Qui potrete scegliere il vostro vestiario preferito scegliendo tra numerose T-shirt a tema videogame, in continuo aggiornamento tramite update, potrete salvare i vostri progressi andando al bagno e dare una votazione tramite il web al ramen ingurgitato durante le vostre avventure all’interno della Death Drive MK-II.
What happened to the Hero?
Se già la ripetitività di fondo ha fatto storcere il naso, le cose non vanno meglio con il comparto grafico del titolo. Le potenzialità dello sbandierato Unreal Ungine 4 con il quale i ragazzi capitanati da Suda hanno imbastito le fondamenta del gioco (tanto da inserirlo come skin delle t-shirt selezionabili) non vengono minimamente sfruttate. A fronte di ristrettezze economiche produttive è più che lecito chiudere un occhio sulle diverse magagne tecniche riscontrate durante la partita, ma qui ci troviamo di fronte a una totale mancanza di idee e originalità, salvo alcuni particolari casi; fondali e pattern ripetuti in un eterno loop con una pochezza di poligoni imbarazzante. La cosa fa ancora più rabbia nel momento in cui a livello stilistico il gioco è al 100% made in Suda 51, con i suoi continui richiami a un certo tipo di estetica vintage di indubbio fascino. Se qualcosa in più si poteva fare, insomma, non è stata di certo fatta, probabilmente per la poca familiarità con il nuovo motore grafico della Unreal, non riuscendo ad ottimizzare al massimo il risultato dello sviluppo. A conti fatti questa è la prima produzione del team Grasshopper sull’ibrida Nintendo ed è come se l’intero titolo sia stato concepito come terreno di prova per futuri lavori.
Discorso diametralmente opposto per l’audio: il lavoro compiuto dal team è ottimo quanto per l’effettistica tanto che per la colonna sonora elettronica che riesce ad accompagnare perfettamente l’azione su schermo, alternando brillantemente loop in stile minimal a sinfonie strumentali riuscendo a dare carattere all’intera atmosfera di gioco.
In definitiva, il nuovo gioco di Gōichi Suda non spicca il volo come tutti speravamo. Non siamo di fronte a un disastro completo, questo è certo, nella sua immediatezza il titolo riesce comunque a divertire se preso a piccole dosi e possibilmente in compagnia di un secondo giocatore, ma un maggiore impegno ne avrebbe sicuramente giovato in termini di fruibilità e soprattutto di resa commerciale, dato che allo stato attuale esistono diverse alternative migliori a Travis Strikes Again a meno della metà del prezzo. Quindi c’è da riflettere a chi questo titolo è veramente indirizzato; alla piccola nicchia dei fan che lo acquisteranno quando il prezzo sarà diminuito o al grande pubblico generalista? Una spesa di 40 euro completa di Season Pass (2 DLC a oggi disponibili) per un gioco che non ha la minima voglia di farsi capire e di farsi piacere alle grandi masse è decisamente una presa di posizione azzardata e controversa. Ma d’altronde stiamo parlando di un gioco di Suda51 e in realtà c’è molto poco da capire, o si ama o si odia. Se appartenete alla prima categoria alzate il voto finale di mezzo punto.